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lunedì 31 dicembre 2018

IL GRANDE UNO ROSSO

279_IL GRANDE UNO ROSSO (The Big Red One)Stati Uniti, 1980;  Regia di Samuel Fuller.

Quando assistiamo all’incipit de Il grande Uno Rosso di Samuel Fuller, ci viene in mente subito un suo precedente film, La tortura della freccia, del 1956: anche là c’era un’uccisione sul filo di lana della fine di un conflitto bellico e, in quel caso, si parlava della Guerra Civile americana. La scena iniziale de Il grande Uno Rosso è invece ambientata ai tempi della Grande Guerra, con il sergente Possum, interpretato da uno statuario Lee Marvin, che accoltella a morte un tedesco che andava dicendo che la guerra era finita; come in effetti era. In realtà, il resto del film ci racconta della II Guerra Mondiale, e si chiude con una scena del tutto analoga: ancora il sergente ad accoltellare un povero tedesco che sta festeggiando la fine delle ostilità. Stavolta il soldato viene invece salvato, o almeno così sembra. Forse che proprio Fuller voglia lasciarci con un filo di speranza nel futuro? Chissà; certo, l’impressione, vedendo il suo film, non è delle più ottimiste: la struttura circolare dell’opera, ci troviamo nella stessa situazione iniziale, col sergente che accoltella il nemico a tempo scaduto, non aiuta. E se vogliamo analizzare il film di Fuller da un punto di vista più teorico, come sembra richiesto dallo stesso autore, le cose addirittura peggiorano. Perché le due scene, così simili tra loro, che racchiudono Il grande Uno Rosso, ricordano, come detto, un film di Fuller che accennava alla Guerra Civile americana, forse il primo conflitto ad essere stato reso un’autentica carneficina dall’efficienza delle armi moderne. E allora il moto di speranza finale si fa più flebile, perché più che circolare l’andamento sembra essere a spirale, ovvero non solo senza alcuna speranza di uscita, ma anche indirizzato verso lo sprofondo. 
Anche perché le parole di commiato al film del sergente Possum, ‘senti gran figlio di puttana, devi vivere o ti ammazzo di botte’, ironicamente rivolte al tedesco appena accoltellato, sono un ponte ideale con un altro film di Fuller e, al contempo, con un’altra guerra. ‘If you die, I kill you!’ diceva infatti il sergente Zack in Corea in fiamme del 1951: insomma, questi legami non sembrano lasciare troppe speranze, la guerra è praticamente senza soluzione di continuità, e le interruzioni (verrebbe da dire momentanee) non sembrano molto efficaci. 
Ma naturalmente c’è anche un corpo filmico, ne Il grande Uno Rosso; il cui titolo fa riferimento al simbolo della I divisione, la cifra uno di colore scarlatto che, tra l’altro, è un ulteriore collegamento tra i due maggiori eventi bellici del XX secolo. Il film è, in concreto, la guerra vista da uno che l’ha vissuta: Fuller era effettivamente un reduce di guerra, e l’impressione di essere un sopravvissuto per miracolo ad una simile mattanza è resa perfettamente dalla sensazione di invulnerabilità dei cinque protagonisti, il citato sergente e i suoi quattro fedeli soldati.
Griff (Mark Hamill), Zab (Robert Carradine), Vinci (Bobby di Cicco) e Johnson (Keyy Ward); tutti gli altri commilitoni sono visti come personaggi anonimi, e questo è anche rimarcato, se qualcuno, come il soldato Kaiser, prova ad emergere un po’. Uno dei momenti emotivamente culminanti è ovviamente l’arrivo al lager nazista: all’EsseEsse nascosto nel forno crematorio, Griff scarica l’intero caricatore. Tanta sostanza, per quanto cruda, e poca retorica. Ma i passaggi forti, spesso pittoreschi, venati da humor nero o cinismo, sono numerosi: il colonnello francese della repubblica di Vichy che muore col grilletto della mitragliatrice premuto, continuando la sua guerra anche dopo morto, o i soldati tedeschi che si fingono cadaveri per tendere un’imboscata, rinforzano l’idea che la guerra sia senza fine, e quindi nemmeno la morte la possa fermare. 
Ma la guerra non si pone alcun confine, nemmeno quelli della logica razionale, così la surreale danza dell’infermiera è scandita dagli sgozzamenti ai camerati tedeschi, mentre un matto, inforcato un mitra di uno dei caduti, spara all’impazzata sui presenti al grido ‘Ve l’avevo detto che sono normale!’ Le pennellate di Fuller tratteggiano però un universo completo, nel senso di non unicamente pessimista: la trattativa col bambino italiano, anzi siciliano, che vuole la bara per la sua mamma in cambio di un’informazione, e la ragazzina a cui il sergente lascia con noncuranza la sua scarsa razione di cibo, sono passaggi commoventi nella sensibilità sobria dell’autore. 
Mentre l’ironia emerge ancora spassosa ma anche corrosiva e disturbante nella contrazione dei due motti pacifisti ‘fate l’amore, non la guerra’ e ‘mettete dei fiori nei vostri cannoni’, quando i nostri infilano dei preservativi sulle canne dei loro mitragliatori per proteggerli. Che la guerra sia una metafora del sesso? In questo senso Fuller sembra piuttosto dire che la guerra è una metafora della vita, visto che il carro armato tedesco viene svuotato dai cadaveri per alloggiarvi una sala parto dove, in un’altra scena surreale, una povera donna partorisce aiutata dal soldato Johnson. Anche qui, Fuller non rinuncia a sdrammatizzare la scena col suo tipico stile da B-movie: Johnson, per invitare la donna a spingere, la sprona gridando pussy, pussy, pussy simile ma dal significato ben diverso dal poussez che gli era stato suggerito. 
La guerra come portatrice di vita, si potrebbe quindi desumere? Mah, il regista sembra piuttosto dire che c’è vita nonostante la guerra, e che la capacità dell’uomo di adattamento è straordinaria. Ma c’è un’immagine simbolo, un’altra che apre e chiude il film, che ha protagonista il Salvatore, e forse può aiutare a comprendere cosa pensa Fuller delle nostre concrete speranze in un futuro più sereno. Il cristo intagliato nel legno, quello dell’incipit che il sergente ritrova nel finale, non ha più nemmeno gli occhi e nelle orbite vuote si aggirano fameliche le formiche: il suo calvario è ben lungi dall’essere finito. 
Se c’è quindi una salvezza per l’umanità, non è affatto vicina.   


 

domenica 30 dicembre 2018

I MAGNIFICI SETTE

278_I MAGNIFICI SETTE (Magnificent Seven)Stati Uniti, 1960;  Regia di John Sturges.

Una didascalia, durante i titoli di testa di I Magnifici Sette di John Sturges, ci avverte che l'opera è tratta da un film giapponese, I sette Samurai di Akira Kurosawa. La matrice così atipica per un western è, forse, importate da tenere a mente, perché quello di Sturges è un film innovativo per il genere. Certo, le sontuosissime e favolose musiche di Elmer Bernstein, soprattutto nel trainante motivo principale, permettono all'opera di ascriversi praticamente d’ufficio al titolo di classico del genere western. Nel cinema, ma soprattutto nel western, spessissimo, se non praticamente sempre, la colonna sonora è un fattore decisivo; e qui siamo di fronte ad un motivo sonoro che rimarrà nella Storia del Cinema. Il gruppo di eroi, i magnifci sette del titolo, sono però una formazione troppo atipica, per il genere e, quindi, diventa difficile ritenere quello di Sturges un classico a tutto tondo. I personaggi protagonisti sono tanti e tutti caratterizzati in modo assai efficace; ma, in modo inaspettato nei confronti della tradizione cinematografica, manca l'Eroe Americano; il John Wayne della situazione, per intenderci. Yul Brynner è senza dubbio il personaggio principale: ma più che un eroe pare una figura simbolica. Tutto vestito di nero, idealista fin che si vuole, (si veda la scena iniziale del funerale oltre che la sua difesa a basso costo dei contadini), ma con troppo poco carisma, almeno quello classico, inteso in senso hollywoodiano insomma. Al suo fianco, un pur svogliato Steve McQueen, gli ruba la scena quando vuole e senza eccessivo sforzo. Nel finale, entrambi sopravvivono allo scontro: Chris, (Brynner) ne esce illeso, Vin (McQueen), invece, rimedia una ferita.
Eppure il primo, che a suo modo poteva ambire a rappresentare l'eroe principale, rimane con un rammarico maggiore, pienamente consapevole della sconfitta. Non è più il tempo degli eroi, sembra dirci Sturges: infatti il suo tipico eroe del West veste a lutto e fa il becchino. L'altro, McQueen, è ugualmente sconfitto, (anche peggio, visto la ferita rimediata), ma se ne cura meno, dal momento che è già abituato a perdere, come si vede ad inizio film col gioco d'azzardo. E' quindi un personaggio molto più interessante, più moderno. E dire che Steve McQueen compare addirittura per terzo nei titoli di testa, preceduto oltre che da Brynner anche dall'ottimo Eli Wallach, che interpreta il cattivo; ma è sicuramente suo il personaggio più carismatico della pellicola. 
Non c'è storia nemmeno con Colorado/Chico (Horst Buchholz) che, a rigor di trama, potrebbe essere inteso come il vincitore morale del film: da contadino si fa pistolero ma poi, grazie all'amore di una ragazza messicana, torna contadino. Bella parabola, che pare però essere messa bene in evidenza da Sturgers per mettersi a posto la coscienza: in realtà quello che si ricorda di questo film, (oltre alla musica, ovviamente), sono le battute spassose, i movimenti, gli atteggiamenti, oltre alla filosofia un po' qualunquista di Vin/McQueen, il nuovo anti-eroe americano. Che non fa rimpiangere nemmeno John Wayne. 











sabato 29 dicembre 2018

ANGELICA ALLA CORTE DEL RE

277_ANGELICA ALLA CORTE DEL RE (Merveilleuse Angélique); Francia, Germania, Italia, 1965;  Regia di Bernard Borderie.

In questo Angelica alla corte del re continuano le avventure della bella Angelica, che abbiamo conosciuto nel film dell’anno precedente che portava semplicemente il nome della nobildonna. La questione dei titoli di questi film è curiosa, perché questo secondo episodio (in totale ne furono girati 5 tra il 1964 e il ’68) nell’edizione originale francese si intitola Merveilleuse Angélique. Un titolo un po’ generico, in effetti, ma forse più centrato della scelta italiana, visto che la nostra bella eroina alla corte del re ci arriva giusto giusto per i titoli di coda. Per completare la confusione, per il successivo terzo film della serie si invertiranno i titoli: Angélique et le roi in francese, La meravigliosa Angelica in italiano. Inutile cercare di capire. Curiosità a parte, il film sembra costantemente essere inferiore al primo capitolo, però la ridda di vicissitudini, la trama che alterna momenti dal sentimentalismo certamente eccessivo a strappi anche di impressionante violenza (si veda la scena del fratello del re che vuole infilzare un giovinetto allo spiedo) alla fine coinvolge, intriga e soprattutto ci trasporta di peso nella Francia del 1600. Per quanto possa essere attendibile o meno, la ricostruzione degli ambienti, dei vestiti, degli arredi, è assolutamente convincente dal punto di vista emotivo. Angelica/Michèle Mercier tiene il centro del ring, perfettamente a suo agio e davvero meravigliosa come da titolo dell’opera originale. Il film, come il precedente, del resto, è apprezzabile anche nella schiettezza con cui ammette il fascino della bellezza, della ricchezza, dei titoli nobiliari: in questo senso l’opera non si può certo definire moderna ma, questi temi, oggi spesso contestati, lo sono in genere in modo un po’ troppo di maniera. 

Rischio che non corre Angelica che rivendica il suo rango nobiliare, approfitta consapevolmente della propria bellezza ma, all’occorrenza, manda tutto a quel paese se non ci si fida uno dell’altra (la scena del matrimonio dal notaio). Dai, la donna è un'eroina gagliarda, non c’è che dire.
Insomma, un film piacevole e che mette comunque appetito per i successivi capitoli. Niente di imperdibile, sia chiaro, ma almeno di noia non si morirà.


Michele Mercier













venerdì 28 dicembre 2018

MUNICH

276_MUNICHStati Uniti, 2005;  Regia di Steven Spielberg.

Munich, il nome della città bavarese, appare nitidamente in mezzo allo schermo pieno di nomi di altre città che, al contrario, si sdoppiano visibilmente più sbiadite. Questa è la prima immagine di Munich, il film del regista Steven Spielberg sui drammatici eventi delle Olimpiadi del 1972. Non quindi un riferimento all'evento, che prevederebbe almeno l'indicazione della data (Monaco '72, ad esempio, non lascerebbe alcun dubbio), ma semplicemente un nome di una città più focalizzato rispetto ad altri nomi meno in evidenza. Una messa a fuoco tra le tante possibili, sembra dirci Spielberg.
Anche la seconda didascalia ci da', forse, indicazioni in quella direzione: ispirato a fatti reali. E' una frase che appare convenzionale, per i film con alla base un riferimento storico, è vero. Ma la formula usata, "ispirato a", potrebbe servire a smarcare ulteriormente il regista da qualsiasi pretesa di obiettività, anche rispetto alla abituale licenza poetica concessa di prassi per i film pur aventi una matrice storica. Le immagini che seguono a questi primi fotogrammi sono l'espressione visiva di queste indicazioni: sono immagini che rimbalzano riportando le notizie degli avvenimenti su una moltitudine di schermi, per lo più televisivi ma non solo (ad esempio su specchi, finestre, targhe di ottone lucido) corollate da una altrettanto nutrita moltitudine di idiomi. Tra questo vociare si diffondono notizie false e notizie vere, smentite e commenti di parte; gli spettatori seguono lo sviluppo degli eventi come ad una partita, facendo il tifo, esultando o disperandosi. La potenza di fuoco dell'informazione sembra amplificare il concetto paradossale per cui le lingue non sarebbero fatte per comunicare ma  per evitare di farsi capire, perlomeno da chi non conosce il linguaggio giusto. 
Anche le location smentiscono il titolo, visto che la storia è ambientata in molte città (Roma, Parigi, Londra e altre, oltre che a Monaco), a ribadire che il film ci racconta qualcosa di parziale, di parte, a cominciare già dal titolo.  Il tema narrativo del film è la vendetta israeliana ai fatti di Monaco, dove terroristi palestinesi uccisero 11 atleti di Israele. Sappiamo che Spielberg è americano ma di origine ebraica, e sappiamo anche che è contrario alla violenza. In questo senso, questa pellicola sembra un atto dovuto del regista che con Schindler's List aveva splendidamente messo sullo schermo l'orrore dell'Olocausto: la violenza è sbagliata, chiunque la eserciti. 
E la violenza della guerra, anche quella al terrorismo, è un orrore così grande, che chi la accetta, anche controvoglia, anche pensando sia inevitabile, finirà per perdere la ragione; proprio come Avner, il protagonista (il bravo Eric Bana) che nel finale appare molto più che disorientato. Il frutto della guerra non è mai la pace: la spirale verso l'abisso del protagonista è illustrata metaforicamente dalla traccia culinaria, presente in tutto il corso del film. Dalle tavolate di inizio vicenda, con tutti i protagonisti alla mensa imbastita da Avner, dal banchetto alla residenza di Papa, un inquietante individuo dall'aspetto luciferino a capo della società di informazioni con cui i nostri hanno stipulato una sorta di classico patto col diavolo, le occasioni di pranzare, di condividere il cibo, si fanno sempre più spoglie di commensali. Fino al rifiuto da parte di Ephraim, membro del Mossad, che risponde ad Avner con un lapidario "no" all'invito a cena; un no la cui valenza si può forse estendere anche alle speranze di pace simbolicamente implicite allo spezzare del pane della tradizione ebraica. Ed è un no anche per chi pensa che Spielberg sia un regista sempre e fin troppo ottimista. Ottimista probabilmente si; ma non in modo ottuso.



Marie-Josée Croze



giovedì 27 dicembre 2018

DEMONI

275_DEMONI ; Italia1985;  Regia di Lamberto Bava.

Dèmoni di Lamberto Bava è un film davvero curioso. L’idea di base è certamente molto valida, forse addirittura geniale e, soprattutto, permette al regista di mettere in scena, in sostanza, la metafora implicita nel cinema horror degli eighties. Al tempo, a fronte di una società a dir poco patinata, il cinema dell’orrore provava a portare alla luce le magagne sociali che ancora erano presenti nella società stessa e che, per il (presunto) buon gusto imperante all’epoca, si cercava di tenere nascoste. Un film come Nightmare - Dal profondo della notte (1984) di Wes Craven, non a caso un horror, può essere inteso come manifesto del decennio. L’opera di Bava coglie la metafora e compie in modo esplicito il travaso, portando gli incubi dallo schermo (letteralmente) sugli spettatori: d’altra parte, che si tratta di metacinema (il cinema che parla di cinema) è anch’esso esplicito, essendo il film ambientato in una sala cinematografica durante la proiezione di un film dell’orrore. Il concetto che se ne ricava è: l’orrore mostrato nei film horror non era qualcosa di estraneo, alieno, alla società, ma era piuttosto intrinseco ad essa; e lì Bava ce lo faceva tornare. Si sa che tenere a lungo la polvere sotto il tappeto o lo scheletro nell’armadio, non è mai salutare. E fin qui, tutto bene. Da un punto di vista più prosaico, cinematograficamente parlando, anche il ritmo della pellicola è notevole, martellante, coinvolgente; l’atmosfera è claustrofobica ed efficace, così come alcune immagini, in particolare quelle coi giochi dei fasci di luce (sempre in tema di cinema che filma il cinema), hanno una loro nota di colore.
Ma non si può evitare di affrontare l’argomento della messa in pratica di tutto quanto questo, e qui cominciano le note dolenti. Fotografia sciatta, meno che televisiva, e uno dei cast più terribili di tutti i tempi. Difficilissimo cavarci uno sguardo, men che mai una battuta, che possano anche solo essere degni di nota; forse giusto Nicoletta Elmi, cresciuta (piuttosto bene) dai tempi in cui recitò, ancora bambina, in molti horror dei primi anni ’70.
Cercando di essere magnanimi si può sorvolare sulla scadente fotografia; e, volendo, si può intendere l'atmosfera generale, visivamente posticcia e fortemente indebitata coi videoclip musicali del tempo, come pittoresca: puro kitsch anni ’80. 
Però il livello di recitazione è davvero troppo scadente e finisce inevitabilmente per vanificare gran parte della potenzialità complessiva dell'opera.





Natasha Hovey


Elisabetta Elmi







mercoledì 26 dicembre 2018

47 MORTO CHE PARLA

274_47 MORTO CHE PARLA; Italia1950;  Regia di Ludovico Bragaglia.

Sesto film che vede alla regia Carlo Ludovico Bragaglia e al centro della scena Totò, questo 47 morto che parla non delude le attese, sfruttando al meglio le premesse potenzialità. Nel riconoscere i meriti, la precedenza, in questo caso, va data al regista; non già per l’importanza in sé, che spetterebbe giustamente al principe della risata, vera e propria vedette dell’operazione, ma perché la cosa più lampante del lungometraggio è l’equilibrio generale, e questo è merito di Bragaglia. Lo spazio di Totò è naturalmente centrale, ma è comunque ben dosato e il suo ruolo dell’avarissimo barone Antonio Peletti è ben supportato dall’intero cast che partecipa con sincronia ed integrazione al dipanarsi della vicenda. La questione ha il suo nucleo semplicemente nel fatto che il padre del barone ha lasciato un’eredità, una cassetta di Luigi d’oro, da condividere anche con il comune; il Peletti invece vuole tenersela per sé. Al fine di veder trionfare la legalità e la giustizia sociale (i soldi dell’eredità destinata al comune servono per costruire una scuola comunale), i cittadini più influenti (il sindaco, il dottore, il farmacista, e così via) organizzano una sorta di scherzo, che induca il Peletti a rivelare il nascondiglio della cassetta. Tutto ciò serve a giustificare una serie di scenette gustose e bizzarre, ad esempio quella dell’aldilà ambientata nei campi vulcanici, che il filo conduttore di una trama efficace e professionale si occupa di legare in modo sufficientemente coerente.

Il lavoro degli sceneggiatori è quindi anch’esso di buon livello, visto che nell’intreccio principale sono ulteriormente inserite alcune sottotrame: il Barone ha un figlio, Gastone, con il quale condivide l’amore per la dolce Rosetta e un’altra tresca amorosa è quella che vede al centro della scena l’esuberante Marion Bonbon (una straripante Silvana Pampanini). Il tutto si svilupperà in modo abilmente congeniato, risolvendosi poi per il meglio nel rassicurante finale, dove anche l’avaro Barone ha un minimo di ravvedimento.
Divertenti come consueto le battute di Totò e le sue tipiche scenette, come ad esempio quella col macellaio; bellissima la Pampanini. 




   
Silvana Pampanini