Translate

sabato 31 ottobre 2020

AGENTE 007 - UNA CASCATA DI DIAMANTI

659_AGENTE 007 - UNA CASCATA DI DIAMANTI (Diamonds are forever). Regno Unito; 1971. Regia di Guy Hamilton. 

Il film che segna il ritorno di Sean Connery nei panni di 007, sostituito nel precedente Al servizio di Sua Maestà, non è certo un trionfo sotto il puro profilo cinematografico. La storia fa acqua ed è poco convincente; Connery appare un po’ fiacco e imbolsito, o almeno un po’ svogliato. Bene la colonna sonora di Shirley Bassey Diamond are forever e le Bond-Girl: la superba Jill St. John (che interpreta Tiffany Case, personaggio ben centrale alla storia) e la giunonica Lana Wood (Plenty O’Toole, che invece viene liquidata troppo in fretta). Però il pregio maggiore del film è un altro: verrebbe dire che, nonostante la trama sconclusionata, la pellicola si lascia guardare volentieri. Ma non fatevi ingannare, non è questo il punto di forza di questo Una cascata di diamanti, il suo merito è quello di indurci ad una riflessione: ma se possiamo guardare questo film di James Bond senza essere infastiditi dalla sua incoerenza narrativa, allora, in una pellicola d’azione, la sceneggiatura è davvero così importante? No, sembra dirci il film di Guy Hamilton. Forse quello che conta maggiormente è il ritmo, oppure le battute o ancora le strizzatine d’occhio. E rimane il dubbio che il regista abbia volutamente messo insieme una serie di scene senza tenere il filo del racconto, perché nel finale sembra darcene anche una sorta di prova esplicita. Quando Bond sostituisce la musicassetta con i comandi del laser puntato su Washington con una innocua musicale, per disfarsi dell’originale la infila nel costume da bagno di Tiffany (precisamente sul lato B della ragazza). 

Questa, ignara che l’agente segreto ha già operato la sostituzione, la sostituisce a sua volta, rimettendo quella con i comandi al suo posto e vanificando l’opera di Bond. E’ un bel passaggio di sceneggiatura, proprio sul finale, con la suspense in crescendo: dapprima ci si preoccupa se Bond ce la farà a sostituire la cassetta, poi su come farà la ragazza a passare inosservata con una cassetta che è lì proprio dove casca l’occhio di chiunque. E dopo che lei ha sciaguratamente rimesso la cassetta coi comandi al suo posto, non sembra esserci modo di evitare il peggio. E invece non succede niente, perché la base viene banalmente attaccata dai nostri e il pericolo è così scongiurato con un escamotage davvero banale. E’ strano pensare che si sia costruito un meccanismo narrativo comunque ben congeniato, per poi risolverlo in modo coscientemente così scontato. E questo è un po’ la cartina tornasole dell’intero film: possibile che in rivedendo il montato non ci sia accorti che la trama non sta’ in piedi? Va beh, in ogni caso, divertente la coppia di killer gay.    







Jill St. John













Lana Wood



















venerdì 30 ottobre 2020

ROCCO E I SUOI FRATELLI

658_ROCCO E I SUOI FRATELLI . Italia, Francia; 1960. Regia di Luchino Visconti. 

Dopo il positivo riscontro ottenuto da Le notti bianche, ambiziosa opera tratta da Dostoevskij, Luchino Visconti alza nuovamente il tiro. Rocco e i suoi fratelli riprende ancora argomenti dal geniale medesimo autore russo, li innesta con il ciclo di  Thomas Mann, Giuseppe e i suoi fratelli (da cui deriva il titolo per il suo film), con la questione meridionale (il poeta Rocco Scotellaro, a cui è dedicato il nome del protagonista), con il racconto I ponti della Ghisolfa di Giovanni Testori (ripreso in una drammatica scena e comunque utilizzato come sponda per ambientare la vicenda) e con il mondo della boxe (metafora usata un po’ come specchietto per le allodole) per ottenere, secondo le stesse parole del regista lombardo, una tragedia realista. Si tratta di un’opera imponente: 170 minuti, cinque capitoli dedicati ai cinque fratelli emigrati dalla Lucania a Milano, ispirazioni e influenze disparate, come si è in parte già detto; insomma tantissima carne al fuoco. Ma in fondo, Visconti vuole raccontare sempre il suo paese, l’Italia. Giuseppe e i suoi fratelli, quella che forse è la fonte d’ispirazione principale, raccontava della nascita del popolo eletto, che scaturiva dall’esilio degli israeliti in Egitto. Forse che la coscienza di sé agli ebrei, come popolo, venisse proprio in seguito al confronto con lo straniero anzi, al sentirsi straniero in terra straniera, e quindi desiderare, a quel punto, un luogo dove poter sentirsi nella propria terra. Visconti condensa tutto ciò all’interno della stessa Italia: i Parondi, la famiglia di Rocco, non sono stranieri, sono lucani ma il trovarsi a Milano ha per loro la stessa valenza.

Più che il riversare sui meridionali il ruolo di popolo eletto all’interno del mosaico culturale italiano, Visconti sembra intendere che l’Italia è un insieme tanto variegato che gli stessi italiani si ritrovano ad essere stranieri nella loro stessa terra. Il che è un paradosso e una situazione ben peggiore di quella di Giuseppe e degli israeliti che, per i loro disagi, almeno avevano la scusante di trovarsi all’estero. In ogni caso, se fosse anche valida la prima chiave di lettura citata, in ossequio al fascino subito dall’autore lombardo per l’universo meridionale mutuato attraverso la lettura di Giovanni Verga, dovremmo intendere Milano, e in generale il nord del paese, come paese straniero, con un risultato ancora più disgregante per l’idea di Italia come nazione. 

L’impressione è che Visconti si serva dei cinque fratelli che provengono da una zona arretrata del paese e si trasferiscono in una più evoluta, economicamente parlando, per analizzare, nelle varie differenti capacità di adattamento, un possibile tracciato futuro della società italiana. Il film è ovviamente molto ben impostato, con i cinque capitoli a scandire la narrazione, il bianco e nero a sancire il tema del confronto, del contrasto, l’attenzione ai dettagli tipica del grande narratore. Celeberrima l’interpretazione della metafora della famiglia intesa come pugno, con i figli che rappresentano le cinque dita della mano. Ognuno con le proprie peculiarità, ma la stessa origine e una forza suprema che li controlla e ne soffoca le personalità quanto si stringe nel pugno. Ruolo, questo, destinato alla cultura arcaica meridionale, incarnata sullo schermo dalla madre, la terribile Rosaria (Katina Paxinou). La mano, intrinseco simbolo di grande contrasto: tesa può essere un segno di pace, chiusa in pugno un minaccioso avvertimento; uno strumento metaforico tipicamente viscontiano. Sulla messa in scena il regista non concede sbavature. La scena dell’omicidio all’Idroscalo è di una potenza simbolica stupefacente, è lì che si compie la tragedia e, per il passaggio cruciale del suo film, il regista sfodera tutto il suo talento e il suo rigore visivo. Del resto Visconti da un punto di vista linguistico, cinematograficamente parlando, è un assoluto professore. 


Ma l’aspetto più interessante, sottoponendo l’opera al vaglio del tempo, è forse proprio lo studio sull’Italia e sugli italiani, con i cinque, in realtà più che altro quattro, fratelli Parondi a far da cavie. Il maggiore, Vincenzo (Spiros Focàs) si è trasferito in anticipo rispetto al resto della famiglia, che lo raggiunge solo in seguito alla morte del padre. Vincenzo è il classico immigrato che sposa un’immigrata, Ginetta (una Claudia Cardinale un po’ trascurata da Visconti), per ricreare, nel loro piccolo microcosmo, l’ambiente di origine. In sostanza un adattamento passivo, teso solo a sopravvivere nel proprio brodo più che a integrarsi o migliorare la propria condizione. Nonostante, in qualità di primogenito, Vincenzo abbia la precedenza sui fratelli, nell’arrivo a Milano, nel frequentare la boxe, nella conoscenza di Nadia (Annie Girardot, il personaggio femminile di gran lunga più interessante della storia), non incide mai ne ha mai un moto di miglioramento sociale. Simone (Renato Salvadori) è il secondo figlio, ed è quello che, forte dell’esperienza scialba del fratello, non intende lasciarsi sfuggire le occasioni che la metropoli gli offre. Si avventa infatti sia su Nadia che sulla boxe, con fare da spaccone pretendendo subito di fare il protagonista della scena. 


Gli elementi in gioco sono questi due e, se nel pugilato la cosa è palese, Simone è infatti l’opposto dell’abulico Vincenzo, sorprende un po’ vedere che, nella traccia sentimentale, alla Girardot è destinato il ruolo di occasione della vita, che il secondogenito afferra al volo mentre il fratello maggiore preferisce rimanere sulla più ordinaria fidanzata. E la cosa sorprendente non è per il ruolo dell’attrice francese, che Anna interpreta alla grande, ma che Visconti riesca a far passare Claudia Cardinale come ragazza al confronto anonima e per nulla interessante. Simone però non ha spessore, è pigro (lo si vede alla mattina, quando rimane a letto), e la sua pigrizia gli impedisce di fare il percorso di crescita, necessario in ogni campo. Egli vuole arrivare subito al vertice, senza faticare; la veemenza con cui si spaccia come elemento fuori dal comune, gli concede effettivamente sempre una chance ma che evapora velocemente e senza alcuno scampo. Il peccato originale di Simone è la scarsa propensione al sacrificio, al lavoro; le altre (la violenza, il rancore, l’infrangere la legge), sono semplici conseguenze di un individuo frustrato che vede scivolare via le occasioni della vita che, in qualità di sfaccendato senza arte né parte (fondamentale la mancanza di un tirocinio), non è in grado minimamente di gestire. Questo vale anche, e soprattutto, per la questione sentimentale con Nadia. Il terzo figlio è Rocco (Alain Delon), figura centrale sia da un punto di vista simbolico (è il terzo su cinque, praticamente in mezzo), sia per le sue caratteristiche caratteriali, fortemente sentite da Visconi. Del resto il film è intitolato principalmente a lui e Delon sullo schermo giganteggia da par suo. 


Doverosamente ossequioso all’ordine cronologico, che il diritto di primogenitura è uno dei dogmi della società arcaica famigliare, Rocco si accoda a Vincenzo e Simone, sia nella frequentazione di Nadia che del pugilato. E’ subito evidente la pasta differente di Rocco: è riservato e non un buzzurro come Simone, ma è anche più determinato rispetto a Vincenzo. Se a Vincenzo non interessa nulla oltre al proprio nucleo famigliare (e questo quindi forse sottilmente avvalora il ruolo di Ginetta e quindi della Cardinale), Rocco vuole migliorare la propria condizione sociale per tornare al paesello natio e portare anche là l’emancipazione. E’ il modo giusto, sembra riflettere Visconti, di intendere il fenomeno dell’emigrazione: andare in un posto dove ci sono più possibilità di lavoro, imparare, mettere via quattro soldi, e tornare nella propria terra per migliorarla. 

Ma è anche un atteggiamento utopistico, in quanto idealizzato come tutta la figura del protagonista: il suo non voler mai fare alcuna scelta che danneggi l’altro, anche indirettamente, è inconciliabile sia con la società borghese (basata sulla libera concorrenza), sia nell’ambito sportivo (competitivo per definizione), e perfino sul piano sentimentale, dove l’amore è una forza che, per sua natura, non si pone regole e quindi non può sottostare a giudizi o scrupoli morali. Il suo rinunciare a Nadia, la donna che ama e da cui è amato, per non ostacolare Simone, è un controsenso che porta alla dannazione (in modi diversi) tutti i protagonisti del triangolo sentimentale. Ma che forse ci dice che il modo di vedere le cose di Rocco, anche in ambito sociale, è puramente teorico e non ha alcun riscontro con la realtà. Chi può rinunciare, dopo aver fatto gavetta da immigrato, alla propria sudatissima posizione sociale per tornare in una terra arretrata e scommettere tutto quanto sul suo ipotetico ma incerto riscatto? Un santo, forse; e in effetti Ciro (Max Cartier), il quarto dei Parondi, lo definisce proprio così, ‘Rocco è un santo’, parlandone al piccolo Luca (Rocco Vidolazzi) l’ultimo della famiglia. Ma poi aggiunge come, proprio l’atteggiamento eccessivamente indulgente (e complice) di Rocco, abbia danneggiato Simone, invece di spronarlo a crescere e maturare. 


La filosofia di Rocco, ricca di sensi di colpa spesso illegittimi, probabilmente è quella più vicina a Visconti, che però nel film sembra quasi riflettere sulla sua natura sostanzialmente solo teorica. Per Ciro l’autore tratteggia quella che può essere intesa come la risposta pratica all’emancipazione sociale: il lavoro specializzato, la fidanzata di buona famiglia (Alessandra Panaro), un futuro garantito e integrato. In fondo, le parole di Ciro, accusato dal piccolo Luca (e dalla famiglia) per aver denunciato Simone, che cerca di giustificarsi per aver fatto il proprio dovere di onesto cittadino, possono valere anche per lo stesso regista. Visconti infatti disse, a proposito del personaggio di Ciro: “diventerà un piccolo-borghese… poi forse un grosso-borghese”, lasciando intendere un annoiato e malcelato disappunto. Luca, il figlio minore, ancora giovanissimo, interpreta simbolicamente il futuro: la paterna carezza sulla testa con cui Ciro saluta il fratellino, unita alla prevedibile solida strada che il quartogenito sembra aver intrapreso, lascia intendere che sarà probabilmente il suo, l’avvenire dell’Italia. Un futuro omologato al conformismo borghese, con la completa perdita dell’identità culturale, delle proprie radici, che avevano difetti e limiti, ma anche una forza interiore che nella mediocrità delle moine della fidanzatina o dell’impiego all’Alfa Romeo, è difficile riscontrare.
Ma se ci siano alternative migliori, Visconti non le ha trovate. 


   
  Annie Girardot





Claudia Cardinale