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domenica 28 febbraio 2021

RACCONTI DALLA TOMBA

766_RACCONTI DALLA TOMBA (Tales from the crypt). Regno Unito, Stati Uniti1972. Regia di Freddie Francis.

Negli anni settanta, mentre alla gloriosa Hammer cercavano di aggiornare il loro classico stile gotico, nella stessa Gran Bretagna si fece largo una nuova casa di produzione, la Amicus, che si specializzò nella realizzazione di film a episodi. Già da questa scelta si può intuire le mire più prosaiche dello studio di Shepperton, che badava anche a contenere i costi di produzione: la soluzione di mettere in scena veloci episodi, praticamente cortometraggi, all’interno di film dalla struttura più o meno antologica, permise di attingere i soggetti anche dai fumetti, abitualmente per loro natura più semplici e stringati. Racconti dalla Tomba di Freddie Francis ne è un buon esempio. Nonostante non sia un capolavoro, è sorretto da una regia di mestiere e, sebbene paiano eccessivi i cinque capitoli che lo compongano, avere sulla scena una star del calibro di Joan Collins e una leggenda horror come Peter Cushing non lascia indifferenti. Per la verità, Cushing delude un poco le attese: nel suo episodio è un vecchietto pacifico a cui piace fare doni ai bambini del quartiere. L’eventuale sponda pedofila è però accuratamente evitata e il suo arrogante vicino di casa se la prende con lui semplicemente perché non è un aristocratico, fa un lavoro umile, nell'elegante quartiere la sua casa stona, non essendo sfarzosa e, per giunta, non intende venderla. Molto più interessante l’episodio che apre l’antologia, dopo la cornice narrativa in cui i nostri protagonisti finiscono imprigionati in una cripta. Protagonista è Joan Collins, meravigliosa come suo solito, nel ruolo dell’adorata moglie di un facoltoso borghese. E’ Natale e l’uomo ritorna a casa con il prezioso regalo per la consorte di cui è, evidentemente (e comprensibilmente) follemente innamorato. 

Prepara il caloroso biglietto di auguri, depone il regalo sotto l’albero e si siede ad aspettare la moglie. Che arriva alle sue spalle e con qualcosa di simile all’attizzatoio del camino gli spacca il cranio. L’idea che una donna come Joan possa spacciare un uomo con un colpo secco non è forse troppo credibile ma dalla diva si accetta questo e altro. E’ proprio il suo spudorato charme a valorizzare il racconto: alla Collins, per incendiarlo, basta la smorfia non troppo intaccata dal rimpianto di quando, col marito appena ucciso ai suoi piedi, scarta il regalo e legge lo sdolcinato e sincero biglietto. In ogni caso, ci fosse stata un’altra attrice in scena, sarebbe sembrata una situazione un po’ assurda: al piano di sopra dorme infatti la figlioletta, che ora si è svegliata impaziente che arrivi Babbo Natale. E se la bambina scende e vede il padre morto e sanguinante sul tappeto bianco? Che razza di piano ha predisposto, la donna? Ancora una volta, l’attitudine a padroneggiare la scena della Collins riesce a rendere digeribile questa situazione, così la bambina è tranquillizzata e la donna potrà scaraventare il cadavere del marito giù dalle scale in modo che possa sembrare una incidentale caduta. Qui il racconto subisce una svolta imprevista: prima che la donna abbia finito il suo lavoro, c’è anche da lavare il tappeto intriso di sangue, dalla radio arriva la notizia che un maniaco è fuggito vestito da Babbo Natale e si aggira per la cittadina. A questo punto, il suono del campanello, nella notte della vigilia, non lascia molti dubbi su chi possa essere arrivato. 


Francis è bravo e gestisce la presenza del maniaco fuori dalla cosa con perizia; la scena è particolare perché la donna non può chiamare i soccorsi non avendo ancora finito di cancellare le tracce dell’omicidio che ha appena commesso. Dopo i giusti spaventi (nostri e suoi) la protagonista, da par suo, riesce a tenere fuori dall’abitazione il criminale e finisce di mettere in scena l’incidente del marito, versando del sangue sui gradini della scala: ora sembra davvero una disgrazia. Ma anche una donna forte e spregiudicata come quella interpretata efficacemente da Joan ha il suo tallone d’Achille, la figlioletta. Che ora non si trova più. Poi, meno male, appare al piano di sotto: è scesa ad aprire a Babbo Natale. 

Ottimo colpo di scena conclusivo e finale tragico per la povera protagonista. Un cortometraggio che, anche grazie alla presenza scenica di Joan Collins, avrebbe potuto da solo reggere la durata dell’intero film, mentre in questo modo risulta troppo condensato e, soprattutto, non lascia il giusto spazio all’attrice inglese. Il secondo episodio è un cortocircuito temporale non troppo originale ma comunque ben gestito da Francis: professionale il protagonista Ian Hendry mentre Angela Grant, la sua amante, si lascia ricordare per il piacevole aspetto. Del terzo di è detto, è quello con Peter Cushing non certo memorabile, mentre il quarto verte sui tre desideri di una statuetta esotica che vengono mal gestiti dalla moglie di un uomo d’affari in difficoltà. 

Chiude il film una storia particolare, ambientata in un istituto per ciechi in cui il nuovo direttore si dimostra interessato solo a risparmiare sui costi di gestione della struttura. I poveri signori ricoverati finiscono così per soffrire la fame e il freddo, accentuati dalla loro maggiore sensibilizzazione dei sensi indotta dalla cecità. Curiosamente, il nuovo manager utilizza un cane pastore come sorta di guardia del corpo; ovvero un animale che, abitualmente, è usato come supporto per i non vedenti e, in questo caso, li deve invece tenere a bada. Comunque, alla fine della fiera, gli ospiti della struttura si ribelleranno, utilizzando proprio il cane contro il suo padrone. In sostanza, tutti e cinque gli episodi finiscono male; ma nel dubbio che qualcuno possa non aver capito che aria tirava negli horror dell’epoca, si scopre che quello che abbiamo visto non è un possibile futuro, ma quanto è già accaduto. E la cripta altro non è che l’antro dell’Inferno. Pace. Spiace solo per Joan.    



  Joan Collins





Barbara Murray




Angela Grant


sabato 27 febbraio 2021

IL CASO TRAFFORD

765_IL CASO TRAFFORD (Quest for love). Regno Unito1971. Regia di Ralph Thomas.

Piccolo gioiello della cinematografia inglese dei settanta, Il caso Trafford è un buon film reso prezioso dall’insolito innesto di generi che propone. Il racconto narrato ha una solida base fantascientifica, il pretesto narrativo è l’esistenza di due universi paralleli che possano, per qualche motivo (nel caso, un esperimento pseudo scientifico azzardato), entrare in contatto. Colin Trafford, il personaggio che dà il nome alla versione italiana del film, interpretato da un convincente Tom Bell, è uno scienziato e si trova catapultato in un 1971 diverso dal suo e nel quale è un famoso scrittore. Nel nuovo universo il mondo sembra non avere avuto quello sviluppo tecnologico occorso nel secondo dopoguerra; per la precisione pare che non vi sia stato alcun conflitto dopo la Prima Guerra Mondiale. Questo dettaglio è realistico ed interessante perché, in effetti, si può notare una certa stagnazione tecnologica in seguito ai progressi quasi feroci che ci furono durante o poco dopo le guerre mondiali. In modo credibile gli autori de Il caso Trafford ipotizzano quindi che, in assenza di nuovi conflitti in seguito alla Grande Guerra, il livello di sviluppo sia pressoché rimasto fermo agli anni venti. Ma l’aspetto che colpisce maggiormente Trafford è che, se lui è scapolo, in questo mondo alternativo è sposato nientemeno che ad una donna dalle superbe fattezze di Joan Collins: Ottilie. Peccato che il Colin Trafford alternativo (che non viene spiegato che fine abbia fatto) sia un dongiovanni che tradisca la moglie senza ritegno in modo palese a tal punto che questa, quando si trova ad aver a che fare con quella che a lei sembra l’ennesima stramberia (il nostro le confessa di provenire da un’altra dimensione), minaccia di chiedere il divorzio. 

Che, volendo, per un tizio del tutto alieno a quell’ambiente, sarebbe anche il meno, visto che il Trafford scrittore aveva in piedi più di una tresca. L’ultima delle quali con la splendida Geraldine (Juliet Harmer, davvero in gran forma) l’attrice protagonista dell’ultima pièce teatrale tratta dai suoi romanzi. Qui però si innesta il connubio di cui si diceva che impreziosisce Il caso Trafford: perché quando il nostro Trafford vede Ottilie per la prima volta, avviene un altro cortocircuito stavolta non dimensionale ma sentimentale. La Collins, in una scena per altro molto semplice nell’impostazione, è davvero convincente nello sfoderare tutta la consapevolezza del suo charme: il cosiddetto colpo di fulmine non è poi tanto più probabile di un salto tra un universo all’altro, ma lei lo rende credibilissimo. Il Trafford scienziato si innamora seduta stante di quella che, in quell’universo, è già sua moglie, ma i rapporti coniugali ereditati dal suo alter ego lo costringono a riguadagnare faticosamente la fiducia e l’amore della donna. Questo aspetto della trama trasforma il racconto in una storia fortemente sentimentale e qui avviene un altro punto di contatto davvero improbabile: una storia di fantascienza, genere tipicamente maschile, si mischia ad una romantica, e quindi femminile. 


In quest’ottica si tratterebbe, tra l’altro, di un doppio intreccio di generi: quello cinematografico (fantascienza e sentimentale) e quello sessale (maschile e femminile, ovviamente). Il fatto che nel complesso prenda il sopravvento la classe della Collins, che si produce in una notevole performance quasi sospesa tra il dubbio e la voglia di credere alla nuova personalità del marito, certifica che Il caso Trafford è prevalentemente una storia sentimentale con un pretesto narrativo fantascientifico. Non è tanto una questione di etichette da mettere sul film per inquadrarlo in un genere o l’altro ma piuttosto lo spunto per riflettere su come Joan Collins fosse un’attrice, troppo sottovalutata, che potesse interpretare un nuovo ruolo femminile, più emancipato e soprattutto consapevole. 

In grado di prendersi il centro della scena ma, a differenza della coeva figura veicolata dalla rivoluzione sessantottina, senza perdere la propria femminilità e arrivando anche a storie che, per convenzione, avevano sempre i maschi come protagonisti. Il suo personaggio finiva quindi per essere universale e, in questo, c’era la sua più profonda matrice femminile. Il caso Trafford può essere l’emblema di questa sua natura: è una storia d’amore, molto romantica (con un tema musicale di Eric Rogers davvero evocativo), con un passaggio finale struggente, ma è anche una storia di fantascienza (tratta da racconto di John Whyndam, grande autore della letteratura specifica). Il finale tiene in piedi benissimo le due anime, mantenendo sempre viva la traccia delle sliding doors, le porte scorrevoli del destino, che devono però cedere il passo a qualcuno che il fato può piegarlo, la femme fatale per eccellenza: Joan Collins.    








Joan Collins









Juliet Harmer




venerdì 26 febbraio 2021

IL PASSO DELL'ASSASSINO

764_IL PASSO DELL'ASSASSINO (Revenge). Regno Unito1971. Regia di Sidney Hayers.

Il titolo originale, Revenge, esprime bene il tema alla base de Il passo dell’assassino, film thriller teso e brutale opera di Sidney Hayers. In un paesino inglese un maniaco ha appena ucciso una bambina, la seconda della serie; c’è un sospetto, ma non ci sono prove. Harry (Ray Barrett) individua l’uomo al centro delle indagini: non è che ci voglia molta fantasia, perché Seeley (Kenneth Griffith) oltre ad essere un tizio strano e solitario, ogni volta che si reca a fare la spesa compie un ampio giro pur di passare davanti alla scuola dove si mette spudoratamente a fissare le bambine. In ogni caso, Harry è sicuro: è lui il colpevole e quindi convince Jim Radford (James Booth), padre della seconda vittima, a dare una sistemata al maniaco e a costringerlo a confessare. Il figlio maggiore di Jim, Lee (Tom Marshall) si unisce alla spedizione con il suo scooter, mentre i due uomini sono in macchina per poter caricare e portar via il loro obiettivo. L’attacco è improvvisato e la presenza di un cane lupo che vagabonda per strada (e che si attacca tenacemente al tappeto con cui si intendeva avvolgere Seeley per impedirgli di fuggire) manda in un primo momento all’aria il piano dei tre vendicatori. Poi, grazie soprattutto alla cocciutaggine di Lee, deciso a punire l’uomo, Seeley è catturato e condotto nella cantina del pub gestito da Jim. L’improvvisazione regna sovrana, mentre i tre malmenano il presunto maniaco, il trambusto sveglia Carol (la splendida Joan Collins), moglie in seconde nozze di Jim, che sopraggiunge e si trova alle prese con una scena del tutto inaspettata. 

Dopo un primo sbigottimento, nel vedere gli uomini di casa trasformati in violenti bruti, una volta inteso che ha di fronte il maniaco, la donna si scaglia con ferocia quasi superiore a quella dei colleghi maschi. Al netto di qualche passaggio in biancheria intima che la Collins valorizza come suo solito, l’attrice è in uno dei rari passaggi in cui può far valere le sue caratteristiche di grinta che rendono credibile la scena. Ma per Joan non si tratta di un film particolarmente memorabile, sebbene rimanga la migliore del cast, e per distacco. In ogni caso, nella concitazione del momento, Jim perde il controllo e finisce per strangolare Seeley, che rimane stramazzato al suolo. Il fatto ha almeno il potere di calmare un po’ gli animi, sebbene nessuno pensi in qualche modo ad approcciare alla cosa in chiave morale, etica: è pur sempre stato ammazzato un uomo. Il punto è semmai disfarsi del cadavere: ma questa è una cosa persino più difficile di rapire un uomo di mezza età e quindi i progetti del trio naufragano quasi subito e il corpo inanimato rimane nello scantinato. Il che provoca non pochi problemi, visto che sotto al pub ci sono le scorte del locale e i fusti delle spine della birra; insomma è un posto che, in orario d’apertura, può essere frequentato anche da Rose (Sinéad Cusak), cameriera e fidanzata di Lee. Senza contare l’altra figlia di Jim, Jill (Zuleika Robson), che potrebbe incappare nel cadavere; insomma, il corpo va fatto sparire. Solo che, sorpresa, Seeley non è morto ma solo moribondo. Ancora una volta, di fronte ad un fatto grave (la possibilità di salvare un uomo) nessuno si prende la briga di decidere dando almeno vagamente ascolto alla coscienza o qualcosa di simile. 


Alla fine si opta per attendere pazientemente che l’uomo muoia, nella speranza che sia ferito gravemente; ma Seeley, piuttosto, si rimette. Intanto, mentre Harry, che aveva dato il là alla vicenda, si defila, le tensioni famigliari di casa Radford deflagrano: Jill non sopporta più la matrigna Carol, che invece è fin troppo apprezzata da suo fratello Lee. Quando la polizia comincia a gironzolare per il pub, per controllare l’auto dei Radford, vista sul luogo del rapimento di Seeley, Jim crolla e si ubriaca. Anche Lee patisce la situazione, è preoccupato e non si da pace; Rose cerca di consolarlo, pur non conoscendo i reali motivi che turbano il ragazzo. 

Vedendolo insensibile alle sue avances, pensa che sia un po’ in crisi con l’autostima di letto (chiamiamola così), facendolo indispettire ulteriormente. L’attrazione verso Carol, donna davvero avvenente, la rabbia verso Seeley, l’incapacità di far fronte alla situazione, mandano in tilt il giovane che, prima sembra voler torturare e uccidere il prigioniero e, quando il chiasso fa nuovamente accorrere la matrigna, decide invece di stuprarla davanti agli occhi dell’ospite. Un passaggio durissimo e forte, anche non scontato psicologicamente (almeno sul piano narrativo, rimanendo ad un livello di cinema di genere) che forse riesce ad esprimere bene il disagio di fronte al fatto di aver commesso, e di stare commettendo, un crimine, ma di non avere le capacità morali per risolvere o reggere la situazione. 

Perché è un fatto che qualcosa, in parte l’incapacità pratica a delinquere ma non solo, sembra fermare o almeno rallentare, i protagonisti di questo insano sequestro: all’uomo prigioniero, per dire, viene pure data dell’acqua (da Jim) quando la speranza ufficiale era che morisse in fretta. La vicenda continua a ingarbugliarsi: Harry telefona da Manchester dicendo che i giornali hanno pubblicato la notizia che l’uccisore di bambine è un'altra persona, nel frattempo Jill trova Seeley e lo libera, Jim scopre la tresca tra la moglie e il figlio e va fuori di cervello, aggredendoli brutalmente. Carol, che è pur sempre interpretata dalla Collins (il che è un vantaggio anche nel passaggio in mutandine e reggiseno), trova la prontezza di spirito di rompere una brocca in testa al marito: Lee le offre di fuggire insieme e, a quel punto, va bene anche quello. 

Quando Jim si riprende, nello scantinato ritrova Seeley, che è tornato a cercare i suoi occhiali, persi in una delle fasi della prigionia: allora il locandiere prova a sistemare la situazione, vista l’innocenza dell’uomo, accudendolo, offrendogli un bagno, del cibo e del denaro per compensarlo dei disagi subiti. Seeley è stranamente taciturno e il suo comportamento conferma la sensazione di disagio che aveva dato anche la sua reazione spropositata nel raccontare la scena dello stupro, che sembrò turbarlo più per l’unione carnale che per la violenza. Quando Jim esce di casa, e arriva una bambinetta a cercare Jill, si ha la conferma che questi indizi, e i sospetti iniziali, erano attendibili: Seeley è il maniaco. Jim torna per tempo e finisce l’uomo a coltellate, prima di costituirsi. Ma non è questo atto in sé, sebbene sia il primo a cui assistiamo dalla vaga forma legale, ad essere interessante. Quello che emerge, e viene descritto in modo abbastanza convincente, è che la vendetta provoca sconquassi a cui l’uomo non è in grado di resistere. E non dipendono dalla colpevolezza o meno di chi viene punito: lo stato, la condizione, vera o presunta, di Seeley passa da sospettato a innocente a colpevole ma la coscienza dei suoi aguzzini subisce sempre e comunque pesanti turbamenti. E non è necessario nemmeno essere persone evolute moralmente o eticamente, attitudini di cui i protagonisti del film sono sostanzialmente carenti. La coscienza è qualcosa, sembra dirci questo Il passo dell’assassino che, se ci macchiamo di un crimine grave, ci tormenterà comunque. E per un film che si intitola Revenge, ed ha appunto come tema la vendetta, nell’Inghilterra dei tesissimi primi anni settanta, non è cosa da poco. 




Joan Collins