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lunedì 29 aprile 2019

5 BAMBOLE PER LA LUNA D'AGOSTO

340_5 BAMBOLE PER LA LUNA D'AGOSTO . Italia, 1970. Regia di Mario Bava

Sospeso tra la non accreditata fonte di ispirazione (il romanzo di Agatha Christie Dieci piccoli indiani) e il cinema di genere italiano (il giallo, ovvero il thriller all’italiana), Cinque bambole per la luna d’agosto di Mario Bava è in apparenza un filmetto di 78 minuti girato per puro divertimento dall’autore sanremese che per lo stesso scopo deve essere inteso dallo spettatore. In realtà, probabilmente, proprio il disimpegno, anche un po’ ostentato, permette al regista di lasciarci sullo schermo un mirabile esempio, quasi un ‘saggio’, della bravura tecnica, sua e dei suoi collaboratori, e della capacità espressiva del cinema italiano di cassetta di quel formidabile periodo. A Bava non sembra interessare per nulla la storia della Christie, e la trama gialla è solo un enorme MacGuffin di hitchockiana memoria, (ben più della formula della resina presente nella storia narrata), ovvero un mero pretesto per mettere in scena il suo film. E anche l’aspetto truce, la verve splatter tipica del thriller all’italiana, non ha tutta questa importanza: la sublime scena iniziale, che culmina con la finta morte di Marie (Edwige Fenech, magnifica, manco a dirlo), è una divertente chiave di lettura in tal senso, e l’uso del selz per pulire il sangue finto dal corpo della donna è un ulteriore tocco di classe del regista. Il tema della finzione, e quindi del gioco, ritorna poi nell’accenno agli scacchi ed è reso concretamente dall’aspetto molto giovanile della pur seducente sedicenne Isabel (Justine Gall, che è uno dei tanti nomi d’arte di Elisabetta Galleani), che gira in tondo alla villa giocando a nascondino nell’ombra e alla fine ottiene anche il premio per la vincita
Ma questi, che dovrebbero essere i pilastri della storia, in realtà sono unicamente, e lo sono in modo scoperto, nude strutture di sostegno per poter mettere in scena una mirabolante giostra specchio della società italiana (anche se dai nomi il film sembra ambientato all’estero) del dopo boom economico. La musica di Piero Umiliani, i colori forti della fotografia, gli arredi postmoderni, i quadri astratti, i vestiti sgargianti e sempre diversi delle ragazze, la villa a strapiombo sulla scogliera (frutto di un artifizio fotografico) questi sono alcuni degli ingredienti di contorno al piatto che Bava intende servire. Al centro del quale ci sono, da una parte la bellezza delle bambole della storia che si rispecchia nella cupidigia degli uomini, e l’assenza di valori come amicizia, solidarietà, amore, lealtà, dall’altra. 

Nel cocktail visivo creato da Bava si fatica a comprendere cosa stia succedendo anche e soprattutto perché i rapporti tra i personaggi non sono chiari, in nessun senso: si cerca di capire chi sia il marito di chi o chi l’amante di chi ma, ad esempio, Trudy (Ira von Fürstenberg) oltre che moglie del professor Farrel (William Berger) è al contempo lesbica, e questa variabile in ottica di possibili accoppiamenti, aiuta a creare confusione nella testa dello spettatore. 
Insomma, sembra proprio che il regista giochi a non darci informazioni chiare in merito, dopo averci già storditi dall’uso sornione della macchina da presa, che alterna panoramiche forsennate senza senso messe a contrasto con altri passaggi, come quello del registratore, ben evidenziati e spiegati da una messa in scena registica razionale. La chiave della storia è nella struttura a spirale, concentrica dell’ambientazione: prigionieri su di un’isola, senza contatti con l’esterno, nella villa sulla scogliera, che sembra una grande giostra, i personaggi vagano senza ordine o, a turno, ruotano intorno all’edificio stesso. 

L’idea di circolarità è rinforzata da altri elementi d’arredo, come il letto matrimoniale rotondo che è in grado di girare, la scala a chiocciola, le lampade, le bobine del suddetto registratore, fino alla posa in cui rimangono narcotizzati intorno al tavolino Trudy, Jack (Howard Ross) e George (Teodoro Corrà). Ma il cuore di questo labirinto concentrico è la cella frigorifera, tappa conclusiva per quasi tutti i presenti nella villa del loro girovagare. I corpi ostentati con orgoglio da tutti i personaggi della storia, e non solo quelli femminili, finiscono così ben ordinati, incellofanati e appesi insieme ai quarti di bue. Ma, per una volta, Bava sembra dirci che non si tratta della solita carne da macello prodotta dal thriller all’italiana, quanto piuttosto il frutto della filosofia nazionale imperante.     







Edwige Fenech






Justine Gall aka Elisabetta Galleani


Ira von Furstenberg



sabato 27 aprile 2019

MR. KLEIN

339_MR. KLEIN (Monsieur Klein). Francia, Italia, 1976. Regia di Joseph Losey.

Le prime due sequenze di Mr. Klein, film di Joseph Losey, ci forniscono già molti elementi che poi la trama, che si dipana non troppo chiaramente, porterà a compimento nel corso di una storia che sembra viaggiare ben presto su oscuri binari. Non è solo il tremendo finale al Velodromo d’Inverno di Parigi, quando il gioco implacabile messo in moto da Losey e dallo sceneggiatore Franco Solinas viene allo scoperto, a togliere ogni speranza al protagonista, il Monsieur Klein del titolo (Alan Delon, bravissimo anche stavolta). Quasi increduli assistiamo alla fine della sua ricerca, che lo porta sul treno verso Auschwitz insieme agli altri rastrellati. D’accordo, è precisamente in quel sonnambolico finale che si compie il destino di questo personaggio, ma i germi della sua caduta ci sono già tutti in quel, a prima vista anche confortevole, inizio del racconto che, quando lascia strada al proseguo del film, vede insinuarsi una crepa che poi si apre via via lungo il resto della storia. Ma prima della vicenda di Mr. Klein, c’è una lunga sequenza, un incipit vero e proprio, anzi praticamente un cortometraggio, in apparenza slegato al resto del film. C’è una donna, completamente svestita, ed un dottore che la esamina come se stesse analizzando le caratteristiche fisiche di un animale su un libro di scienza. Il freddo distacco del dottore stride a contrasto con l’intimità della povera signora messa totalmente a nudo. Impressiona, ed è un fatto non così consueto, notare come anche un commento poco lusinghiero ai fianchi della donna, non infastidisca tanto per l’assenza di riguardo, ma per il suo essere asettico, senza emozioni. 

La signora, probabilmente un’ebrea, non suscita disprezzo nel medico, un nazista, in quanto poco appetibile di aspetto (cosa che darebbe fastidio per il suo essere non giustificabile ma sarebbe almeno comprensibile come dinamica) ma più in generale per il suo non appartenere alla presunta razza ariana. La sequenza lascia sgomenti perché mette in chiaro il razzismo nazista, molto più di altre ambientate nei lager, dove è evidente che ci sia anche un trasporto emotivo che offuschi l’intelletto dei carnefici, laddove dottore e infermiera sono invece calmi, lucidi, coscienti, perfino educati. Con l’eredità di questo scioccante preambolo, il racconto del nostro protagonista comincia. 

Siamo in una bella casa, una ragazza sul letto, si sentono le voci di due uomini, una trattativa d’affari. Qualcuno sembra essere obbligato a vendere qualcosa, e l’altro approfitta della situazione: il primo scopriremo essere ebreo (Jean Bouise), il secondo è il nostro Robert Klein. L’oggetto è un quadro di enorme valore, che passa di mano per metà del suo prezzo già stimato al ribasso; Klein è scaltro, sa che l’uomo davanti a sé è nei guai seri, ma per lui questo è unicamente un’opportunità di fare un buon affare. Nessuno scrupolo, nessuna remora; anzi, un po’ di sfacciataggine quando toglie le monete dal borsellino e le getta sul tavolo, quasi come stesse a fare la carità. Ma Klein è scaltro, abbiamo detto; e allora recita anche la parte untuosa dell’amico, e invita il venditore a contare i denari e gli offre anche il borsellino per contenerli e poi addirittura un regalo. Ma l’uomo rifiuta tutto, vuole solo il denaro e un biglietto da visita di questo noto e benestante mercante d’arte che, a vederlo in questa scena, somiglia molto ad un losco trafficante se non ad uno strozzino. Ma non lo è: è solo un borghese che ama farsi gli affari suoi. Soprattutto a Parigi durante l’occupazione nazista, mentre si comincia a preparare l’ambiente per gli imminenti rastrellamenti degli ebrei. E’ un po’ curiosa, la storia del biglietto da visita; perché il venditore non sembra affatto soddisfatto, e non si capisce perché voglia raccomandare Klein ad altri nelle sue stesse condizioni.

Perché di ebrei che devono vendere i propri beni per scappare dalla Francia occupata ce ne saranno molti, certo; però, mandarli proprio da Klein…  Un uomo scaltro, si è detto. Che poi è un modo di definire una persona scorretta che riesce a fare il suo senza dare nell’occhio cavandoci sempre il massimo. Ad esempio, quando deve pagare il quadro, sempre nel suddetto intensissimo inizio di Mr. Klein, il nostro va in bagno, e vi trova la ragazza che nella scena precedente era nel letto. Allora ce la rimanda, con la promessa di raggiungerla presto. Una promessa d’amore; carnale, d’accordo, ma sempre d’amore si tratta. Un po’ falsa, in realtà; oddio, magari l’amore si farà anche, e qui sta la scaltrezza di Klein; perché il vero motivo per cui allontana la ragazza dal bagno è che lì tiene i soldi per pagare il quadro e non vuole rivelare il nascondiglio alla compagna. Una promessa d’amore che nasconde un atto di sfiducia: eccolo qui, rivelato nel suo intimo, il borghese Robert Klein. Insomma, nonostante la situazione rosea del protagonista che vive in una casa lussuosa, con la sua vestaglia di seta, accanto una ragazza molto gradevole (è Juliette Berto), nell’atmosfera si avverte già una sensazione di disagio, forse anche per la discrepanza tra la soddisfazione di Klein per l’affare concluso che si specchia nel fastidio del venditore.

Poi, quando questi se ne sta andando, c’è l’impiccio del giornale sotto la porta, un bollettino della comunità ebraica, che lì per lì non si capisce bene cosa voglia dire, se non che c’è qualcos’altro che non quadra. Klein sembra quasi preoccupato e adesso è il venditore ebreo a sembrare soddisfatto. Mentre si congeda dal padrone di casa, la sua voce ricorda per un attimo quella del diavolo che ha appena acquistato l’anima dell’incauto Faust. A quel punto Klein si volta vedendosi riflesso nello specchio dell’atrio; Losey stacca allontanando la macchina da presa, ma tenendo sempre l’obiettivo sull’uomo che si guarda smarrito.

E’ forse in questo momento, in questo ‘stacco’ che ci mostra la stessa scena ma da un punto di vista diverso che varchiamo con Klein la soglia dello specchio? Chissà, intanto, le parole della descrizione di un avvoltoio, raffigurato su un tappeto od un arazzo che abbiamo già visto sui titoli di testa, introducono la successiva scena in un’asta di opere d’arte, ma per un attimo sembrano piuttosto riferite al nostro protagonista. Il quale proprio lì, nella sala d’aste, cercherà di prendere le distanze dalla malasorte, ma non è certo la sfortuna che verrà a cercarlo inesorabilmente per fargli pagare, simbolicamente, il suo opportunismo.


Perché da quel momento in poi, Losey ci guida con la sua macchina da presa che si snoda nei corridoi delle case lussuose, dei comandi di polizia, degli appartamenti fatiscenti, a volte ripresi addirittura in soggettiva, quasi a farci vivere in prima persona una caccia proprio a quell’uomo al di là dello specchio, la ricerca del nostro Robert Klein all’altro Robert Klein. Quello ebreo, quello a cui era destinato il bollettino di informazione, quello che, non trovandosi, la polizia cominciava a dubitare che esistesse e ci fosse un solo Robert Klein, il nostro. Ma il sospetto diveniva terribilmente subito un altro: era quindi ebreo il protagonista del film? Nel finale, al Velodromo d’inverno, mentre il suo avvocato cerca di dirgli che è tutto a posto, che hanno trovato i documenti che certificano il suo non essere ebreo, l’altoparlante tra gli altri chiama distintamente il nome Robert Klein.

Ed eccolo là, finalmente, sotto quel braccio alzato ci dovrebbe essere lui, il suo omonimo che, in effetti, ha anche una fisionomia simile. Ma in mezzo alla folla è irraggiungibile; e poi, in quella confusione, chi può dire che sia davvero quello, il suo doppio ebreo? Piuttosto, sulle tribune, con un cappotto con la stella di David cucita sul petto, non sembra esserci il venditore del quadro, quello di inizio film? E’ proprio lui, e dallo sguardo vigile sembra Mefistofele venuto per riscuotere il suo credito. Intanto, il nostro Robert Klein non riesce a raggiungere il Robert Klein ebreo ma viene trascinato dalla folla sul vagone per Auschwitz. Ma non si lamenta, non protesta; forse, ha capito che non troverà un ebreo di nome Robert Klein perché, per una sorta di espiazione osmotica, ha già scoperto di essere lui stesso. Sul vagone, appena dietro di lui, si intravvede ancora il venditore del quadro, che non potrebbe certo essere lì, visto che stava sulle tribune e non tra la folla. Ma forse è davvero una sorta di diavolo, e quando il dialogo di quella trattativa si torna a sentire di nuovo, abbiamo la certezza che il debito di Mr. Klein verrà saldato.


Juliet Berto



Jeanne Moreau


    

giovedì 25 aprile 2019

LA COSA DA UN ALTRO MONDO

338_LA COSA DA UN ALTRO MONDO (The Thing from another world). Stati Uniti, 1951. Regia di Christian Niby e Howard Hawks.

La questione sulla paternità del film La cosa da un altro mondo non è più molto dibattuta, in quanto più o meno tutti vi riconoscono lo stile e i temi cari ad Howard Hawks, che ufficialmente ne era il produttore. Alla regia, stando ai credits dell’epoca, era invece Christian Niby, che per Hawks aveva già lavorato al montaggio di ben tre capolavori (Acquel del sud, 1944; Il grande sonno, 1946; Il fiume rosso, 1948) diretti in prima persona dal maestro americano. Kenneth Tobey, che in La cosa da un altro mondo è il protagonista (il capitano Hendry), dichiarò che il film fu diretto di fatto da Hawks, onnipresente sul set, a fronte di una palese inadeguatezza di Niby. Dal canto suo, il povero Niby in un’intervista ancora nel 1982, cercava di rivendicare i suoi meriti; peccato che la sua pur lunga carriera come regista, più che altro in ambito televisivo, non porti nemmeno un altro lavoro almeno ad un livello simile a The Thing from another World a testimonianza delle sue capacità. Riconducibile alla poetica di Howard Hawks è l’attacco del film, con i dialoghi sparati a raffica come in una vera commedia americana: quando divampa l’azione, successivamente, questo aspetto si attenua, ma inizialmente è quasi difficile seguire il flusso dei discorsi che si intrecciano e si sovrappongono. C’è anche una storia sentimentale, tra il citato capitano e la segretaria della base, Nina (Margaret Sheridan) e anche queste schermaglie da film leggero, nel corso della storia, vengono messe da parte, visto che l’uomo è impegnato in prima persona nella lotta contro l’alieno. Ma naturalmente il tema più tipicamente hawksiano è quello dove uno spazio aperto, in questo caso le distese di ghiaccio del Polo Nord, incombe minaccioso assediando i nostri eroi chiusi in uno spazio circoscritto. 

Se l’assenza di alberi e il paesaggio spoglio, dovrebbero favorire l’avvistamento del pericolo, Hawks (in prima persona o influenzando Niby) utilizza le ombre o il fuoricampo per nascondere continuamente il pericolo che, non avendo però un luogo prevedibile dove celarsi (dietro un albero, sopra un canyon, ecc.) diviene ancora più angosciante. Non avendo nascondigli ma non essendo comunque visibile, la minaccia può essere ovunque e raddoppia quindi lo stato di tensione in cui getta personaggi assediati e spettatori. La figura scenica della Cosa richiama certamente i mostri dei film Universal (in particolare la creatura di Frankenstein), con la quale condivide una deriva scientifica: se nel film di James Whale (e nel romanzo di Mary Shelley prima) il mostro era il risultato di un incauto azzardo scientifico, in La cosa da un altro mondo c’è uno scienziato che vorrebbe rischiare il tutto per tutto pur di salvaguardare il prodigio extraterrestre. 

Ma il film di Niby e Hawks introduce anche delle novità, nel genere: l’aspetto scientifico è più attendibile, più realistico, si pensi al laboratori del citato Frankenstein o addirittura alle leggende alla base di Dracula di Tod Browing. Siamo in pieno dopoguerra, e la tecnologia, che ha fatto balzi da gigante durante il conflitto bellico, si riversa ora nella società civile. Per cui se alla base dei film horror precedenti c’erano presupposti fantascientifici (il citato esempio della creatura del film di Whale o, sempre dello stesso autore, L’Uomo Invisibile, che scopre per caso il siero dell’invisibilità) quando non folcloristici o tradizionali (Dracula, la Mummia), qui, se rimane difficile credere all’alieno, l’approccio dello studioso della base è perfettamente scientifico e credibile (oltre che preoccupante). Quello di Niby & Hawks è una sorta di ponte che traghetta il cinema fantastico dall’horror tra le due guerre mondiali alla fantascienza inquietante degli anni cinquanta (giusto per fare due titoli: Il mostro della Laguna Nera, 1954 e Tarantola, 1955 del maestro di questo filone, Jack Arnold). 


Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la scienza ha fatto enormi progressi (la base addirittura al Polo Nord del film), e apparentemente siamo in un clima di benessere e pace (il tenore da commedia dell’inizio). Ma, in realtà, si cominciano ad avvertire le prime avvisaglie dell’imminente Guerra Fredda: il termine era già in uso dal 1946 (utilizzato per primo pare da George Orwell), e chissà che questo non abbia influenzato gli autori di questo La cosa da un altro mondo per l’ambientazione polare. Perché l’incarnazione del nemico in un essere (antropomorfo) proveniente da un ‘altro mondo’ reggeva sia il racconto di science fiction ma anche la metafora del pericolo d’oltre cortina. La cortina di ferro, chiusa verso il mondo occidentale, oltre la quale si estendevano i paesi del Patto di Varsavia, rappresentava qualcosa di sconosciuto, alieno e pericoloso. Di questa diffusa e sottile paura, in un contesto che era al contrario di prosperità per il boom economico, si nutriranno i citati film di fantascienza horrorifica degli anni ’50. Hawks, certamente più di Niby, da formidabile autore qual è, coglie in anticipo queste tensioni, e le traduce in un film seminale per il genere ma anche perfettamente calato nella sua poetica.     




Margaret Sheridan




                     

martedì 23 aprile 2019

ROMA A MANO ARMATA

337_ROMA A MANO ARMATA .Italia, 1976. Regia di Umberto Lenzi.

Dopo che Milano, praticamente per tutti i primi anni settanta, era stata il luogo prediletto per il poliziottesco, l’intuizione di Marino Girolami di ambientare nella capitale le gesta del commissario Betti in Roma violenta, spostò l’attenzione dei produttori sulla città eterna. Non che fosse la prima volta, visto che già nel 1972 uno dei precursori del poliziesco all’italiana, La polizia ringrazia di Steno, era ambientato sul Tevere. Ma il cuore del genere era a Milano, unica città della penisola ad avere le caratteristiche metropolitane moderne per riprendere il poliziesco americano, che il poliziottesco, come da intuibile anche dalla definizione, in un certo senso scimmiottava. Un po’ a sorpresa, visto che Marino Girolami non era Di Leo, Lenzi o Martino, Roma violenta fece un vero botto al botteghino, anche per la perentoria interpretazione di Maurizio Merli. Il cinema italiano di genere, sempre attento a fiutare la pista giusta, mise subito uno dei suoi assi al lavoro nella capitale e, Umberto Lenzi, chiamato a dirigere Roma a mano armata, sforna un autentico gioiello. Il regista nato a Massa Marittima, per un’operazione in prima istanza smaccatamente così di cassetta, decide un po’ a sorpresa di fare le cose in grande stile. Se si deve sfruttare la scia del successo di Roma violenta, tanto vale ingaggiarne il protagonista; e già che ci siamo, che sia nello stesso ruolo. Maurizio Merli è quindi il commissario Tanzi che è una versione uguale ma ancora più estrema del commissario Betti visto all’opera nel film di Girolami. Ma Lenzi non si accontenta: per il secondo personaggio positivo è chiamato il bravissimo Giampiero Albertini che, tra le altre cose, era stato la spalla più significativa in un'altra serie di film del poliziesco all’italiana, quelli di ‘Mark il poliziotto’ (Albertini compare in Mark il poliziotto e Mark colpisce ancora entrambi di Stelvio Massi e con Franco Gasparri protagonista).

La carica umana di Albertini è fondamentale in Roma a mano armata per bilanciare la durezza del commissario Tanzi. Da notare che Lenzi promuove Albertini, in genere relegato a ruoli di mero contorno, affidandogli un personaggio importante come Caputo, che rappresenta appunto il lato meno estremista della lotta al crimine, ma che è anche nominalmente commissario tanto quanto lo stesso Tanzi. E in un film che è ‘capitale’ (non solo per l’ambientazione, ma anche per l’ambizione) manca ancora un cattivo coi fiocchi, e quindi ecco nientemeno che Tomas Milian, mostro sacro del cinema di genere italiano, sia con gli spaghetti-western ma già anche con i poliziotteschi. Il suo ruolo, Moretto detto il gobbo, è un personaggio spietato e memorabile e verrà sostanzialmente ripescato da Lenzi ne La banda del gobbo. Milian possiede già un registro interpretativo riconosciuto, facendo coesistere l’azione più dura e il tono sguaiatamente comico, ed è questo che è chiamato a fare in Roma a mano armata e, visto il tenore della pellicola, deve farlo senza lesinare ma piuttosto enfatizzando la sua prova, oltretutto calandosi anche fisicamente nel ruolo del menomato.


Il resto del cast è composto dai classici attori specializzati in questo genere di film: Luciano Catenacci è Gerace, Carlo Alighiero un avvocato della malavita, Carlo Gaddi è l’autista dell’ambulanza e Aldo Barberito è il maresciallo Pogliana; e chi come Biagio Pellegri (nel ruolo di Savelli) non ha ancora un curriculum specifico, è comunque adeguato e diventerà in seguito uno dei volti noti del genere. Sulla scelta dei ruoli ancora un paio di considerazioni che certificano l’attenzione di Lenzi al suo film: la protagonista femminile è la ventiduenne Maria Rosaria Omaggio nei panni della fidanzata di Tanzi, Anna. La Omaggio, carina e delicata, è al suo esordio sullo schermo e, oltre a rispettare le consegne del poliziottesco, (che non ostenta quasi mai la bellezza femminile come fa, ad esempio, il thriller all’italiana), fornisce un personaggio discreto, di buone intenzioni ma inadeguato al contesto, a cui la verginità cinematografica dell’attrice certifica la scarsa preparazione a far fronte ad una situazione così violenta. Qui Lenzi sembra aggiungere una considerazione implicita: nel finale, Anna, scossa dagli avvenimenti, preferisce lasciare Roma (e Tanzi) per tornare a Milano. Come dire che la città che era stata al centro del poliziesco all’italiana per il suo essere la più adatta come ambientazione cinematografica, sorta di set naturale, non era però l’unica dove la violenza fosse largamente diffusa ne quella dove fosse più cruenta, anzi.

Sul cast manca da affrontare il lavoro di Lenzi sul riferimento alle parentele del poliziottesco: se Milian garantisce un’assonanza con gli spaghetti western (in fondo, il suo personaggio tipico è trasversale ai due generi), va segnalata la presenza di Ivan Rassimov (Parenzo) vera e propria icona nei ruoli del cattivo nei thriller all’italiana. Ma ben più rilevante è la presenza di un vero mito di Hollywood come Arthur Kennedy: l’attore interpreta il vice questore Luini, ed è il responsabile di tutte le indagini del film.

Un po’ come se Lenzi cercasse la referenza per il cinema di genere italiano presso una star che ha recitato per John Ford, Fritz Lang e Anthony Mann, riconoscendo, implicitamente, il debito del movimento nostrano nei confronti di  Hollywood. Tutto questo evidenzia la matrice metalinguistica del film, del resto già suggerita dal nome del protagonista, Tanzi, che suona molto simile a Lenzi, come ad indicare che il regista intenda fare il personale punto della situazione. Perché questo filone di pellicole, aspramente condannato dalla critica e dai benpensanti, ha le sue ragioni e anche le pertinenti giustificazioni per la violenza mostrata sullo schermo. Sulla violenza enfatizzata quasi a stilizzarne la forma per disinnescarne la deriva pericolosa, valgono in primo luogo i riferimenti al western all’italiana, che al tempo vantava una decennale esperienza nel merito. Oltre alla presenza di Milian, c’è almeno una scena del commissario Tanzi in puro stile western, con Merli che si getta a terra e spara centrando in testa lo sfaccendato Stefano alla guida di una Dino Ferrari. Questo annoiato benestante nullafacente è interpretato da Stefano Patrizi, che aveva un solo film all’attivo, in un ruolo tutto sommato simile sebbene in un contesto ovviamente diverso. Il film era Gruppo di famiglia in un interno, ultimo lavoro di Luchino Visconti e, visto che l’attore ripete grosso modo quel personaggio (e dal nome uguale: semplicemente Stefano, senza cognome), possiamo intendere probabile anche il riferimento di Lenzi ad un assoluto maestro del cinema italiano. La cosa non è del tutto gratuita, nell’ambito della riflessione sul cinema di genere che opera Lenzi in Roma a mano armata, visto che Visconti, con la sua sferzata melodrammatica ai tempi di Senso (e in parte già da Bellissima) contribuì in modo cruciale nel riportare l’attenzione del movimento cinematografico del nostro paese su posizioni narrativamente più popolari rispetto al neorealismo.

Ritornando ai riferimenti più diretti presenti nell’opera di Lenzi, il western all’italiana è ulteriormente richiamato dai riferimenti scatologici, delegati prevalentemente in modo quasi scontato al gobbo: prima deve andare al bagno e lo dice in modo molto genuino, e in seguito addirittura ingoia e poi evacua una pallottola, cavandoci un motto che ricorda moltissimo quelli degli spaghetti. Il tema scatologico, davvero onnipresente nel western all’italiana, sembra lasciar intendere che siamo arrivati a ‘fine ciclo’, nel senso che gli spaghetti rappresentano l’ultimo stadio possibile per il genere: in parte cercando di giustificare una certa degenerazione dei temi rispetto alla nobiltà dei classici. E’ forse a questo aspetto che si richiama Lenzi per la nostrana e certamente estrema versione del cinema poliziesco. Ancora al western all’italiana, ma soprattutto alla sua ultima deriva farsesca (ad esempio quella dei film di Trinità) riportano i suoni enfatizzati delle scazzottare, anche qui davvero sopra le righe, con Tanzi che da solo sistema un nugolo di avversari nel club dei monarchici manco fosse Bud Spencer.


Sempre in tema di iperviolenza, in questo caso nella versione più truce, c’è qualche passaggio che fa riferimento al cosiddetto giallo, il thriller all’italiana, di cui proprio Lenzi è uno dei massimi artefici. Come si vede, Lenzi mette tantissima carne al fuoco, in un film che evidentemente intende in modo molto personale: la cosa è possibile anche perché la trama è costruita come una sorta di mosaico, composto da tanti frammenti, che si incastrano in modo spesso clamoroso, ottimizzando in questo modo i tempi. E’ evidente che questa è un’ulteriore stilizzazione della narrazione: Lenzi conosce come funziona un racconto realistico, ma in Roma a mano armata utilizza un registro che, se analizzassimo il soggetto e la sceneggiatura senza aver visto il film, da un punto di vista della dinamica degli avvenimenti, sarebbe ideale per una storia di Topolino (ovviamente al netto della violenza). Tanti sono gli intrecci forzati e poco credibili delle trame, alcuni dei quali clamorosi: ad esempio, per puro ‘caso’ il maresciallo Pogliana ha lavorato nell’impianto di condizionamento proprio di quella banca in cui vi sono asserragliati i criminali con gli ostaggi; un altro ‘caso’ fa capitare Tanzi, mentre sta svolgendo un’indagine su Savelli, sulla strada dove è fermato da un uomo che è appena stato aggredito e la cui fidanzata è stata stuprata; oppure, mentre cerca di trovare la figlia di un ex collega, coinvolta in un giro di droga, investe (letteralmente) uno scippatore, sventando in modo piuttosto eccessivo l’evento criminale. Quest’ultimo è un passaggio esagerato perfino in una trama che pur ostenta il suo essere artificiosa, ma lo è volutamente e infatti viene sottolineato da Caputo quando sopraggiunge e si vede il Tanzi coinvolto anche in questo scontro.

Lenzi ha però la mano caldissima, per cui tutto quanto passa in modo se non credibile, perlomeno plausibilissimo in un poliziottesco, che è poi uno degli scopi del regista: dimostrare che il poliziesco all’italiana non è un documentario ma un genere di finzione e, come tale, può e deve prendersi le sue libertà. Ma il cinema di genere non è un trastullo per cineasti intellettuali, qui la forma è contenuto, per cui Lenzi utilizza questa trama, che ha volutamente costruito con tutti questi incastri forzati, per riflettere su quegli argomenti che solitamente, tramite critica e stampa, mettono sotto accusa il poliziesco all’italiana. Perché ad un certo punto, un paio di scippatori, arrestati da Tanzi, vengono poi rilasciati subito da Anna, consulente psicologa per la procura, che si lascia intenerire dalla giovane età e dalla condizione sociale dei due. Bene, successivamente Tanzi si ritroverà ancora tra i piedi i due ragazzi, stavolta morti sul colpo in un incidente, in seguito ad un altro tentativo di scippo. Le parole le dice il commissario, ma è evidente la riflessione del regista: forse rimetterli sulla strada per compassione non è stata la scelta migliore per i due minorenni.
Considerazioni più riflessive come questa sono comunque inserite tra i tanti passaggi di pura azione, visto che il regista si premura di non trascurare nessun cliché del genere: non mancano i forsennati inseguimenti in auto oppure a piedi, a perdifiato, su tetti pericolanti. Così come non manca la scena allo sfasciacarrozze, dove l’autore ritorna a più riprese, in un caso, coinvolgendo la povera Anna, con una sequenza da puro thriller. Il cimitero delle auto è uno dei luoghi simbolo del poliziottesco, perché rappresenta in modo simbolico la fine di uno dei prodotti per eccellenza della civiltà metropolitana, l’automobile. E’ forse un uso simile al tema scatologico degli spaghetti: tra i rottami delle vetture possiamo vedere la fine di una società che la troppa violenza finirà per distruggere al pari delle auto accartocciate. In ogni caso, per questo Roma a mano armata che sembra essere un film con una maggior consapevolezza rispetto ai soliti polizieschi nostrani, Lenzi, oltre ai classici elementi simbolici del genere, utilizza i tantissimi risvolti di una storia in cui succedono un sacco di eventi criminali (rapine con morti, rapine con ostaggi, scippi, stupri) per mostrare non tanto che sia necessaria la linea dura, quanto che non ci siano alternative.

La presenza del commissario Caputo è indubbiamente l’ammissione, da parte del regista, che sarebbe auspicabile poter amministrare la giustizia senza ricorrere ai metodi di Tanzi. Solo che questo è impossibile nella società italiana dei settanta tanto che, nel drammatico finale, sarà proprio Caputo sul punto di lasciarsi andare al giustizialismo, e sarà fermato, per assurdo, proprio da Tanzi che, evidentemente, non vuole che l’amico si trasformi in un giustiziere alla sua maniera. Ovviamente l’esitazione causata dall’intervento del collega sarà fatale a Caputo e Tanzi sarà costretto a risolvere la questione nell’unico modo che conosce. Ma Lenzi, con questo finale, ci dice che il personaggio veramente memorabile è Caputo, un poliziotto umano e comprensivo che meriterebbe un mondo migliore, un mondo degno di lui. Purtroppo, l’Italia degli anni di piombo, si meritava i commissari Tanzi o Betti. E i poliziotteschi non erano la causa della violenza diffusa, ma una conseguenza, un tentativo di dare una risposta; certo, forse sbagliata. Ma l’unica che sembrava possibile mentre ogni giorno la cronaca raccontava dei rappresentanti della legge che cadevano sotto i colpi dei mitra di delinquenti e terroristi.



Maria Rosaria Omaggio