285_LA RAGAZZA NELLA NEBBIA ; Italia 2017; Regia di Donato Carrisi.
L’idea alla base di La
ragazza nella nebbia ha un che di geniale. Donato Carrisi, che lo ha
diretto, basandosi sul proprio omonimo romanzo, deve aver pensato: a che pro,
in Italia, sforzarsi di scrivere una storia gialla inventata quando già la cronaca nera ce ne
fornisce di continuo? Perché ormai diventa difficile tenere il conto delle
vicende da cinema horror che stanno
insanguinando la penisola, la maggior parte delle quali sembra uscita dalla
fantasia di uno scrittore. Sarà che, chi più chi meno, gli individui coinvolti
hanno sempre voglia di tele-protagonismo,
sarà per il lavoro a tamburo battente della stampa, sarà per l’indole complottista degli abitanti del belpaese, ma di ogni evento di sangue se
ne ricava un romanzo a puntate. E allora Dionisi prende qualche ingrediente
qui, la ragazzina dai capelli rossi rapita ed uccisa, qualche altro ancora qui,
il sospettato con la moglie avvenente che lo tradiva e ora dubita di lui, qualche
altro là, la casa sulle alpi; una spruzzatina di quello che c’è ormai dovunque,
la giornalista piccante (Galatea Ranzi), per dare un po’ di colore coi suoi
capelli tinti e le tacco-15
sgargianti; aggiunge complotti e contro complotti a piacere, sigilla il
tutto con Tony Servillo nei panni di sé stesso (in realtà dell’ispettore Vogel)
e lo fa servire da Jean Reno (il dottor Flores), che c’entra effettivamente
poco ma, vabbé, può fungere da diversivo. E presenta il tutto non come un film,
ma quasi come un programma televisivo: chessò,
uno special di Porta a porta oppure Quarto
grado o, se si vuole andare più sul ‘tecnico’, come un approfondimento di Crime Investigation, la tv satellitare
di Sky che si occupa dei casi cronaca nera.
E allora vai con le panoramiche
lente, grandangolari, che servono per illustrare lo scenario nel modo più
completo ma, anche, accompagnate da una musica inquietante, per sottintendere
che, da qualche parte, nonostante noi si veda la scena nella più esaustiva
ripresa, il pericolo, o meglio il mostro,
si nasconde ancora al nostro sguardo. E il film si apre proprio su una
carrellata di questo tipo, per di più sul panorama dell’intera valle; ma non
sull’immagine reale, bensì su una sorta di plastico che sembra preso dal citato
programma di Bruno Vespa. Siamo in montagna, non a Cogne ma ad Avechot
(località immaginaria), ed è sparita una ragazzina, Anna Lou.
Quando
l’ispettore Vogel si reca dai genitori, la madre della ragazza parla nello
stesso modo in cui, in questi casi, le persone coinvolte rilasciano
dichiarazioni ai media. La sensazione di guardare un programma televisivo che
si occupa dei casi di cronaca nera è
quindi fortissima, e anche le successive fasi, pur se maggiormente recitate, non la allentano più di tanto,
perché sono assimilabili alle ricostruzioni che questi programmi propongono.
Non che il film sia recitato male, perlomeno non rispetto a quanto siamo
abituati a vedere in troppo nostro cinema: lo standard è sempre più o meno
quello, da fiction televisiva,
suppergiù. Del resto lo ammette anche uno dei personaggi del film: un’alunna di
bell’aspetto confida di voler fare l’attrice al professore Marini (Alessio
Boni), che quindi si offre di darle alcune lezioni di recitazione.
Al che lei
risponde: ‘perché, non sono
sufficientemente carina?’, come dire che, per fare l’attrice, conti solo
l’aspetto e non la capacità interpretativa. Affermazione per altro confermata
quotidianamente sugli schermi del cinema italiano; chissà poi se questa
battuta faccia davvero riferimento a questa tara
che il nostro cinema si porta appresso da tempo immemore. Di certo questo breve dialogo,
per quanto abbia uno scopo anche nel complicato meccanismo narrativo imbastito
da Carrisi per conto del suo personaggio, il citato professore Marini, è anche
probabilmente connesso al tema della vanità, nel film tirata in ballo dal docente
stesso: ‘qualcuno mi ha detto che il
peccato più sciocco del diavolo è la vanità’. E anche delle aspiranti
attrici, verrebbe quindi da pensare.
E forse anche dei novelli registi perché
voler forzare a tutti i costi con un’ulteriore sorpresa finale, dopo averci fatto bere tutte le trame e controtrame degli elaborati piani dell’assassino, fa un po’ saltare
il banco. Sorprende, d’accordo, ma sembra proprio che Carrisi bari, e questo in un giallo non è mai
bello né rispettoso per lo spettatore. Riassumendo: (e quindi spoilerando; occhio, se non avete visto il
film, perché il ‘chi è il colpevole’
qui è un carburante indispensabile per poter godere della vostra visione) il professore Marini ha bisogno di soldi,
quindi organizza un piano per finire accusato di omicidio, (confidando nello
zelo dell’ispettore Vogel), in modo di poter chiedere il risarcimento una volta assolto.
Tralasciamo le evidenti forzature: abbiamo detto che si tratta di un giallo che
si ispira a come i media trattano i recenti casi di nera; a questo punto ci sta davvero tutto e il contrario di tutto.
In ogni caso, in realtà lui è davvero l’assassino (se no come potrebbe imbastire il suo
piano, mancando un crimine di cui essere accusato?).
Complicato? Calma, perché c’è ancora l’ultimo inghippo, il più indigesto,
quello finale. In fin della fiera pare che Marini si sia ispirato ad un suo predecessore
(d’altronde le sue lezioni a scuola vertono proprio su questo: l’artista non
crea, imita, come del resto lo stesso Carrisi). Il maniaco dei monti preso a
modello era noto come l’uomo della nebbia,
un serial killer che trent’anni prima uccise cinque ragazzine dai capelli rossi (come la vittima scelta da
Marini). Forse il colpo di scena, una volta che abbiamo bene o male assimilato
tutta l’intricata e intrigante trama, è che l’uomo
della nebbia sia il dottor Flores? No, quello che scombina i pensieri allo
spettatore è che il suddetto dottore conservi sei
ciocche di capelli rossi. Sei, non cinque, come sarebbero i delitti a lui ricondotti 30 anni prima. La sesta ciocca è quindi di Anna Lou? L'uomo della nebbia è tornato a colpire? E
quindi Marini è innocente? Questo manderebbe all’aria i già esili fili su cui
si sorregge la trama gialla.
Il film si chiude così e, francamente, cadono un
po’ le braccia. Va beh che in Italia ci siamo abituati, a veder bistrattare la
coerenza narrativa degli intrecci deduttivi, già dagli anni ’70 del glorioso thriller all’italiana (Dario Argento
prima maniera e co). Se all’epoca la scusa era la visionarietà sullo schermo,
qui potremmo dire che la smania di
scoprire l’intreccio è stata comunque avvincente, e farcelo bastare. Ma, almeno stando al libro da cui è stato tratto il film, c’è una spiegazione
semplice e logica: l’uomo della nebbia uccise a suo tempo sei ragazze, da qui
le sei ciocche di capelli; evidentemente i giornali una vittima se l'erano persa. Invece l’omicidio di Anna Lou e relativo complotto
sono effettivamente opera di Marini. Ma è un pensiero che può venire anche a chi il libro non lo ha letto?
O, forse, la cosa va vista sotto un altro punto di vista e avremmo dovuto capirlo dall'atmosfera televisiva che si respirava... proprio come in certi programmi TV, per comprendere fino in fondo La ragazza nella nebbia, occorre l’aiutino da casa.
Riferimenti culturali dell'Italia del terzo millennio.
O, forse, la cosa va vista sotto un altro punto di vista e avremmo dovuto capirlo dall'atmosfera televisiva che si respirava... proprio come in certi programmi TV, per comprendere fino in fondo La ragazza nella nebbia, occorre l’aiutino da casa.
Riferimenti culturali dell'Italia del terzo millennio.
Ekaterina Buscemi
Lucrezia Guidone
Galatea Ranzi
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