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domenica 31 gennaio 2021

I BELIEVE IN YOU

739_I BELIEVE IN YOU Regno Unito1952. Regia di Michael Relph e Basil Dearden.

La fine della Seconda Guerra Mondiale era stata naturalmente salutata come una benedizione un po’ da tutti, il che era logico, ma non fu poi così semplice smaltire le macerie non solo materiali che il conflitto lasciò. In Inghilterra, paese pesantemente segnato dai bombardamenti e dalle perdite tra i militari impegnati, la situazione era particolarmente dura. Il popolo aveva un forte spirito nazionale e legato alle proprie tradizioni ma, mentre si diffondevano idee e stili di vita più disinvolti, vennero a mancare in moltissimi casi quelle figure famigliari che forse avrebbero potuto tenere a freno i bollori di quella generazione irrequieta cresciuta sotto le bombe. In questo contesto va inquadrato I Believe in You, dramma messo in pellicola dalla coppia Basil Dearden e Michael Relph, regista e produttore strettamente legati professionalmente. C’è, infatti, un certo paternalismo, in definitiva, con il giudice Pyke (Godfrey Tearle) che finisce per tener conto delle raccomandazioni di Phipps (Cecil Park) e, nel momento cruciale, concede uno sconto di pena e la coseguente libertà al turbolento Hooker (Harry Fowler). Pyke non sembrava affatto convinto delle ragioni di Phipps, sorta di assistente sociale che doveva aiutare Hooker ad inserirsi nella comunità, oltre a sorvegliarne la condotta corretta. Le corti inglesi non è che abbiano fama di essere particolarmente tolleranti ma il quadro del tempo indusse evidentemente gli autori ad una visione delle cose che fosse più comprensiva del solito. Si tratta di una sorta si auspicio ad una progressiva apertura verso una maggior tolleranza ben incarnata da Phipps, il protagonista: ex funzionario delle colonie dell’Impero, ad un certo punto decide di occuparsi di qualcosa di più contingente alla realtà inglese del tempo. 

Inizialmente con un aplomb un po’ superficiale e poco empatico; poi via via si farà strada un lato umano che lo porterà a rischiare la propria professionalità in nome della fiducia nel suo assistito. A contribuire a smuovere il pacioso spirito di Phipps sono essenzialmente due donne. Norma (una giovanissima Joan Collins, al suo debutto in un ruolo da protagonista) gli si fionda in casa quando l’auto su cui è in fuga finisce contro un lampione. La verve della Collins, per quanto l’attrice fosse agli arbori, è già ingovernabile e in modo forse sottile scombussola però l’uomo; il quale, in quella occasione, conoscerà anche un’altra donna che avrà un’influenza più evidente in questa sua evoluzione. Matty (Celia Johnson) è l’assistente sociale che segue Norma e presto farà breccia nel cuore di Phipps, seppure la traccia romantica rimarrà molto trattenuta. 

Tuttavia le parole della donna, in qualche scambio di vedute un po’ sopra le righe, avranno un peso decisivo nello scuoterlo, così come anche l’atteggiamento di Dove (George Relph) funzionario molto paziente con le necessità della povera umanità finita sotto la tutela del British Probation Service. Ma rimane almeno il sospetto che l’esuberanza di Norma sia stata una delle leve principali, se non altro la prima in ordine di tempo, a scalzare la placida esistenza di Phipps. Il personaggio della Collins presenta già alcune caratteristiche contraddittorie e affascinanti che saranno peculiari della carriera dell’attrice inglese. Già a partire dalla sua prima sequenza: la ragazza è seduta nell’appartamento di Phipps, dopo esservi rifugiata mentre era in fuga sull’auto finita contro il palo della luce. A fronte delle minacce del padrone di casa di chiamare la polizia, la ragazza ha convinto l’uomo a contattare Miss Matty, la sua assistente sociale. 

Ora la attende seduta, da sola, stando composta su una sedia; ma ecco che, quando la sente arrivare, si affretta ad assumere una posa più discinta, mettendo in evidenza le gambe; quasi a voler ribadire di essere una cattiva ragazza. L’atteggiamento interlocutorio di Norma continuerà finché non si interesserà a Hooker, ragazzo a quel punto assistito da Phipps, con il quale andrà a raddoppiare gli accoppiamenti: così come i loro assistenti, anche i giovani avranno la loro love story. Che, mossa da ben altri spiriti, procederà molto più spedita, tanto che i ragazzi decidono di sposarsi e Matty, ragionevolmente scettica sulla cosa, accusa Phipps di giocare a fare il Cupido. Eppure Norma, con una determinazione insospettabile (che è un altro elemento della personalità con cui Joan Collins contraddistingue i suoi personaggi), sembra davvero ben intenzionata, riuscendo a convincere Hooker a rinunciare ad immischiarsi in giri loschi e tutto sembra andare per il meglio. 

Pyke ha sì rifiutato di condonare il periodo di lavoro sotto sorveglianza che ancora manca a Hooker, smentendo le incaute promesse che Phipps aveva fatto al ragazzo, ma basterà aspettare gli ultimi tre mesi. Prima del lieto fine ci vuole però un po’ di azione e allora ecco che la galera restituisce alla libertà Jordie (Lawrence Harvey), l’ex bello di Norma che mette subito in chiaro le cose con gli aspiranti sposi. Norma resiste alle avances ma Hooker pensa al peggio e decide, quasi per dispetto, di partecipare al colpo che mira a trafugare il whisky da un camion. Ma è solo un diversivo narrativo: tutto si risolve per il meglio. Addirittura nel finale il giudice Pyke ripetere la scena iniziale con Phipps in aula, trattandolo con simpatia e complicità, diversamente da quanto fatto nella scena precedente. Il che è un dettaglio, quello che conta è che lascia Hooker libero che così potrà sposare Norma. E si tratta di un lieto fine che non fa certo storcere la bocca.   



Joan Collins





GALLERIA DI STAR: JOAN COLLINS

ROAD TO ALEXIS

Da "I BELIEVE IN YOU" al GOLDEN GLOBE


Oggi, probabilmente, la figura di Joan Collins è accettata un po’ da tutti come quella di grande attrice, testimone della Hollywood dei tempi andati. Soprattutto la si mette in relazione con il personaggio di Alexis Colby, la cattiva del serial Dinasty che furoreggiò negli anni 80. Volendo essere ottimisti possiamo pensare che più o meno tutti abbiano compreso come la capacità della Collins di interpretare un personaggio spregevole sia un merito dovuto alle sue doti d’interprete e non un suo limite. Memorabile, in senso opposto a questo augurio, la definizione de Il Morandini 2003 che tributò alla Collins un ben poco lusinghiero “esecrabile attrice” tanto tranciante quanto goffo e inadeguato. Ma insomma, è lecito pretendere che si sia ormai diffusa la convinzione che Joan Collins sia una grande attrice: il Golden Globe vinto nel 1983 (ovviamente per la sua interpretazione in Dinasty) avrà pure il senso che questi premi hanno (tanto per capirci, Alfred Hitchcock non ha mai vinto un Oscar) ma il fatto che il mondo istituzionale dello spettacolo abbia riconosciuto il valore artistico di Joan, gli conferisce invece un significato particolare. Perché l’attrice inglese non ha quasi mai ricevuto un atteggiamento favorevole, né dalla critica ma, almeno stando ai fatti, nemmeno dallo star system stesso. E dire che la carriera della Collins era partita in quarta: nel 1951 esordisce appena diciottenne in un ruolo marginale in Nuda ma non troppo, commedia di Frank Launder e, dopo un altro paio di apparizioni secondarie in film minori, l’anno successivo già comincia a farsi notare seriamente. In I Believe in You, dramma di Basil Dearden e Michael Relph, un ruolo di grande rilievo le consente di mostrare il proprio talento, confermato poi dai successivi film britannici girati tra il 1952 e il 1954. Joan si specializza nel ruolo di ragazza difficile (Cosh Boy, Appuntamento col destino) o comunque di personalità (L’età della violenza), anche qualora il suo spazio sullo schermo sia risicato (The square ring), ma dimostra di essere all’altezza anche in parti più leggere (Come Eva… più di Eva). Sono passati solo pochi anni dal suo esordio e l’attrice viene ingaggiata come protagonista per un importante film americano che verrà girato tra l’Italia e l’Egitto. E’ il 1955 e Joan Collins interpreta la principessa Nellifer ne La Regina delle Piramidi, film storico mitologico diretto nientemeno che da Howard Hawks. L’attrice inglese è una protagonista perfida e perfetta e il film, pur non essendo un capolavoro, non è affatto male eppure il risultato al botteghino è un fiasco. Se Hawks, dopo una simile batosta, tornerà alla regia soltanto ben quattro anni dopo, la Collins viene messa subito sotto contratto dalla 20th Century Fox, il che significava Hollywood in pianta stabile. In quel 1955 l’attrice recita in altri due film: eppure chissà, forse l’inspiegabile fastidio creato da La Regina delle Piramidi lascerà una scomoda eredità anche per la Collins. Quasi una sorta di antipatia, da parte di certa opinione pubblica, che accompagnerà l’attrice negli anni a venire e che impedirà di veder riconosciuto in maniera inequivocabile il suo talento. 

Perché già nei due film del ’55 l’attrice inglese sfodera due prestazioni eccellenti, tenendo testa addirittura a Bette Davis ne Il favorito della Grande Regina e interpretando un ruolo chiave nella storia moderna degli Stati Uniti, quello di Evelyn Nesbit, ne L’altalena di Velluto Rosso, sottostimato dramma storico di Richard Fleischer. Quest’ultimo ruolo forse rafforza, per assurdo, l’idea che l’attrice possa interpretare solo la cattiva arrivista, una parte che Joan si diverte anche a fare, con una naturale classe che finisce per mettere in ombra tutte le concorrenti sullo schermo, come accade in Sesso debole?. Il film è trascurabile, ma dimostra la capacità dell’attrice di prendere sapientemente in giro anche i luoghi comuni che ormai le si stanno appiccicando addosso. Tuttavia il film successivo è un altro lavoro notevole, Fermata per 12 ore: probabilmente non un capolavoro (per via della modesta regia di Victor Vicas) ma nel complesso un’opera (tratta da John Steinbeck) in genere colpevolmente sottovalutata e nella quale spicca proprio l’interpretazione di Joan Collins. Ormai però una cosa sembra chiara: per una ragione o per l’altra (come un ripensamento improvviso di Roberto Rossellini) la Collins non riuscirà a sfondare ad Hollywood nel modo che le compete, a diventare cioè una superstar grazie ad uno o più capolavori interpretati. Robert Rossen non riesce a rendere indimenticabile L’isola nel sole, un drammone a tinte forti, di quelli che furoreggiavano al tempo, perdendo il filo inseguendo improbabili risvolti gialli della trama. Henry King si è troppo indurito e Bravados, pur essendo un buon western, finisce per non essere né un classico né un esponente memorabile delle correnti crepuscolari del genere. 



Il vecchio Leo McCarey aveva ormai smarrito il bandolo della matassa in regia e non riesce a dare il giusto equilibrio alla commedia Missili in giardino che, per quanto sia un’opera carina, gli si sgonfia in mano. Il pur bravo Henry Hathaway spreca l’ennesima occasione della carriera con I sette ladri, valido prodotto che non riesce a raccogliere quanto potenzialmente aveva in dote. In questi film Joan Collins recita in modo sontuoso, come una vera diva. I film, per un motivo o per l’altro, non sono particolarmente memorabili ma non certo per colpa dell’attrice inglese. Anzi, si può dire che il fatto che vi reciti Joan Collins renda a posteriori questi film più interessanti; nel vederli si può comprendere come fossero opere che avrebbero anche potuto diventare capolavori ma naturalmente non tutte le ciambelle escono col buco. La sfortuna hollywoodiana di Joan è di non aver mai preso la ciambella giusta. A quel punto, ormai negli anni sessanta, l’attrice inglese prova a battere nuove strade: alcune partecipazioni a produzioni televisive e il ritorno in Europa per qualche film un po’ fuori dagli schemi. In Italia ruba la scena nientemeno che a Vittorio Gassman ne La congiuntura, film ancora una volta poco incisivo, poi recita nel pretestuoso Lo stato d’assedio (1969, di Romano Scavolini), in quello che si può considerare il passaggio minore dell’attrice fino ad allora. 

Ma non per colpa delle sue capacità artistiche: la conferma che il talento della Collins non si è per nulla appannato arriva da Il caso Trafford (1972, di Ralph Thomas), nel quale l’attrice riesce a coniugare al femminile un genere, la fantascienza, tipicamente maschile. In effetti Il caso Trafford, buon film ma nemmeno stavolta un capolavoro, può però essere preso a sorta di manifesto dell’importanza di Joan Collins nella storia del cinema: l’attrice inglese fu quella che meglio di ogni altra riuscì a ritagliarsi un suo spazio originale e personale in una società maschilista come quella del cinema senza perdere la propria femminilità. Questo la pose in contrasto con le idee maschiliste (ad esempio, quelle del produttore che voleva una sua gentilezza da divano in cambio di ruoli significativi) come anche con il pensiero mainstream femminista, che rifiutava l’iconografia classica della donna che invece la Collins interpretava sontuosamente. Ovviamente una bella donna che pretende la stessa libertà di pensiero ed azione di un uomo del ventesimo secolo non poteva che passare per una poco di buono e, in sostanza, fu quello che, almeno per quel che riguarda la vita sullo schermo, capiterà proprio alla Collins. 

Intanto l’attrice divenne un habitué del cinema horror britannico, interpretando una manciata di film generalmente godibili ma che certo non la rilanciavano come star di prima grandezza. Sia chiaro, sempre meglio de Il richiamo del lupo, disastro italospagnolo in celluloide ad opera di Gianfranco Baldanello e punto più basso della carriera della londinese. Che, diversamente, da parte sua ritiene il di poco successivo L’impero delle termiti giganti (1977) come suo momento più negativo ma la bella Joan si sbaglia. Il film di fantascienza di Bert I. Gordon ha sì una deriva trash ma è godibile e poi proprio la Collins sciorina una super prestazione tanto che fu la prima volta che una giuria ufficiale la prese in considerazione per un riconoscimento (nomination al Saturn Awards, come miglior protagonista in un film di fantascienza). Insomma, a 45 anni Joan Collins era tutt’altro che bollita e con l’accoppiata The stud- Lo stallone (1978) e The Bitch (1979) poteva finalmente raccogliere il meritato successo. Che fu clamoroso ma, in fin dei conti, non della portata che le spettava, essendo il suo ruolo ancora in anticipo sui tempi: fu solo con gli ottanta, e con l’approdo ad Alexis Colby, che il grande pubblico, e giocoforza almeno parte della critica, si accorse di quanto fosse acuta la Collins come attrice. Di quanto fosse critico, da un punto di vista sociale, il suo sguardo, il suo indagare attraverso quello che era il suo lavoro, l’interpretazione attoriale. 



Joan Collins non è una grande star per via della magnetica bellezza, del suo charme irresistibile o della sua autoironia. Joan Collins è una grande star, forse addirittura la più grande, perché ha cominciato a dirci già dagli anni cinquanta, attraverso molti dei suoi personaggi, quello che sarebbe successo negli anni 80, quel passaggio epocale che ha cambiato la nostra vita. Certo, da una parte la personalità dell’attrice era illuminante, e quello che rivendicava, attraverso i ruoli interpretati, era sacrosanto. Le donne dovevano avere gli stessi diritti degli uomini, anche in quegli ambiti più delicati, come quello sessuale. Ma, nei suoi personaggi, la Collins metteva sempre una volontà di giocarsela senza favoritismi, senza quote rosa che l’aiutassero, perché le donne non solo dovevano avere gli stessi diritti degli uomini ma erano in grado di guadagnarseli, quei diritti, proprio come avrebbero fatto gli uomini. Il personaggio tipico della Collins non accampa alibi: cerca di giocarsela alla pari, al massimo può picchiare sotto la cintura ma non chiede agevolazioni. Questo approccio, che era proprio della personalità dell’attrice e permeava i suoi personaggi, è quello che purtroppo è mancato quasi completamente nella società. Si è preferito una narrativa diversa, prevalentemente se non del tutto infondata, che ci ha raccontato (e ci racconta) per decenni di quanto il mondo sarebbe stato migliore se a governarlo fossero le donne. Dimenticandosi, o facendo finta di dimenticarsi, che l’uomo è un mammifero e la figura largamente più influente nella vita di ciascun individuo della razza umana sulla faccia della terra è la propria madre, una donna. Se esistono uomini violenti è perché sono stati educati alla violenza e molto probabilmente la persona che ha giocato il ruolo preponderante nell’educazione di quell'uomo (sì, anche se è un uomo violento), è sua madre. Non è certo un discorso che tende a criminalizzare le donne, per carità, certamente va considerato anche il ruolo spesso latitante per non dire assente della figura paterna, in seno alla famiglia. Ma, rispetto alla opinione diffusa, forse occorre cercare una più attendibile distribuzione delle responsabilità che hanno generato la situazione sociale che conosciamo, certamente con un risultato differente da quello che hanno cercato (riuscendoci) di far passare molte donne (spalleggiate da uomini di presunte idee progressiste), dalla rivoluzione sessantottina in poi. Quelle stesse donne che, anni dopo, si sono appassionate alle gesta di Alexis Colby in Dinasty, una donna spregevole che aveva, per loro, una sorta di ruolo catartico. Una donna affascinante, certo, ma da guardare facendo finta di non riconoscercisi, per poter continuare a vivere nell’ipocrisia dell’imperante politicamente corretto in salsa rosa.   



















sabato 30 gennaio 2021

CORDURA

737_CORDURA (They came to Cordura). Stati Uniti1959. Regia di Robert Rossen.

Gary Cooper, nel 1959, arrivava, tra gli altri, da due eccellenti western, L’albero degli impiccati (di Delmer Daves, 1959) e Dove la terra scotta (di Anthony Mann, 1958): ma, nonostante queste sontuose prestazioni attoriali, Coop versava in uno stato di salute alquanto precario. Quasi sessantenne e gravemente malato, l’attore dovette sfidare il parere dei medici per restare sul set di Cordura. Un film in cui anche la sua coprotagonista, Rita Hayworth, sembra avere smarrito lo smalto dei bei tempi: e va detto che non l’aiuta Robert Rossen, il regista, che affibbia all’attrice il solito ruolo di donna dissoluta e persino ubriacona. Anche a Cooper il regista americano assegna un ruolo che è tipicamente nelle corde dell’attore: un uomo fermamente convinto ad espiare le proprie debolezze e di farlo seguendo la strada più irta. Che, tradotto nella trama del film, significa che il maggiore Thorn, il personaggio interpretato da Cooper, dopo essersi macchiato di viltà durante una battaglia, vuole ora divenire il portabandiera dell’altrui eroismo. Un riscatto da cercare non quindi in prima persona, che sarebbe un’impresa almeno gratificante, a livello di vanità personale. Thorn è piuttosto l’incaricato di scegliere, tra i cavalleggeri statunitensi, i militari che, durante le schermaglie coi messicani di Pancho Villa, si siano messi in luce a tal punto da meritarsi una medaglia al valore. In questa bizzarra premessa ci sono iscritte grosso modo tutte le difficoltà del film che, in effetti, stenta parecchio a carburare. La missione del maggiore Thorn è portare i cinque prescelti, e quindi presunti valorosi, per l’onorificenza a Cordura, ovvero lontano dalla zona degli scontri: il che, a dir la verità, sembra una sorta di contraddizione. Ma alla propaganda servono eroi, siamo nel 1916, in Europa furoreggia la I Guerra Mondiale e, nel caso gli Stati Uniti decidano di intervenire, modelli ed esempi per convincere e trascinare le truppe saranno indispensabili; meglio cercare di preservarli ancora in vita. Al gruppo di sei militari viene forzatamente unita Miss Adelaide (la Hayworth), un’americana che ha parteggiato per i messicani. La storia continua a non decollare. Ovviamente qualcosa va storto: chi più chi meno, tutti i cinque militari scongiurano Thorn di non segnalarli per la medaglia al valore. Chi teme l’invidia, chi ha un passato che è meglio dimenticare e non vuole finire sotto i riflettori, e via di questo passo. 


Ma il maggiore è irremovibile, chiede le motivazioni dei gesti eroici compiuti dai suoi compagni di viaggio e annota tutto sul suo libricino. Le frizioni interne al gruppo stemperano un po’ gli intoppi di una storia in cui succede davvero troppo poco. Il personaggio di Adelaide, da parte sua, oltre ad indispettire i militari con atteggiamenti infantili come ostentare la possibilità di fumare e bere come una spugna, è di ben poco costrutto alla narrazione. I soldati, in particolare il sergente Chawk (Van Heflin), un burino della peggior specie (oltre che criminale prima entrare in cavalleria), è più volte sul punto di esplodere e va riconosciuto che, in questi primi momenti, è quasi legittimato dall’astinenza di fumo e alcool, a fronte delle stupide provocazioni della donna. Tuttavia sono questioni stucchevoli e il film continua a procedere a fatica; proprio come i nostri eroi, rimasti appiedati, nel deserto del southwest americano. 

La tensione crescente arriva al suo acme con la consegna dei cavalli al nemico, decisa da Thorn nell’ottica di evitare scontri e la perdita delle preziose vite dei futuri eroici esempi. Per il tenente Fowler (Tab Unter) è un atto vile inammissibile; il caporale Trubee (Richard Conte) rivela allora il passato del maggiore, di cui era a conoscenza. Finalmente la storia prende consistenza: i cinque uomini hanno sì compiuto atti eroici, di cui Thorn è stato testimone; ma non sono eroi. Al contrario, si comportano sempre più in modo ignobile, provando ora anche a violentare la donna. Dopo i vani tentativi con le buone, si liberano del maggiore con le cattive, recuperano il quaderno su cui Thorn annotava le motivazioni per le onorificenze e le caratteristiche caratteriali dei cinque: inaspettatamente, nonostante nel viaggio verso Cordura i soldati abbiano dato progressivamente del loro peggio, le note sono più che positive. Qualche dubbio comincia ad animarsi nei cinque soldati, spiazzati da quanto letto; il maggiore intanto non è del tutto andato, ancora si muove. A risolvere lo stallo è l’apparizione in lontananza della cittadina; i sei uomini, (e la donna), si risistemano per l’agognato e trionfale arrivo a Cordura. Di tutto il film, la parte più interessante, ma senza eccessi, è il momento che precede il finale; un po’ troppo scontata la chiusura, con i cinque che si scoprono migliori di quanto essi stessi credevano e sono grati, per questo, a Thorn, che è riuscito a scorgere un lato positivo in ognuno di loro.
Insomma, Rossen la prende eccessivamente larga, per mezzora di cinema interessante ci tiene in ballo troppo tempo. Poco male, come spettatori a volte ci è andata peggio. Spiace davvero invece sia per Cooper, che era già molto malato, che per la Hayworth, ben avviata su un triste viale del tramonto. Ecco, se noi spettatori possiamo farcene una ragione, artisti del loro calibro non meritavano certo la generale mediocrità di Cordura.



Rita Hayworth




venerdì 29 gennaio 2021

IL NOSTRO AGENTE ALL'AVANA

736_IL NOSTRO AGENTE ALL'AVANA (Our man in Havana). Regno Unito1959. Regia di Carol Reed.

L’intenzione di Graham Greene, autore del romanzo alla base del film Il nostro agente all’Avana, era di prendere in giro l’assurdità del servizio segreto britannico nel dopoguerra; il clima spensierato della sua opera letteraria non fu gradito a Fidel Castro, perché non enfatizzava a dovere gli effetti dell’oppressione della dittatura di Bautista sulla popolazione cubana. Trovò invece pieno appoggio presso il regista Carol Reed che, nella sua trasposizione cinematografica, tratteggia un’opera più divertita che divertente. Reed, regista di buon curriculum, cerca l’alchimia giusta, cosa obiettivamente non semplice, tra un soggetto strampalato (nel quale, giusto per fare un esempio, gli schemi costruttivi di un’aspirapolvere sono spacciati per una nuova potentissima arma bellica) e un’ambientazione che sembra perfetta per rinverdire il mito dei noir esotici. La pregevole fotografia in bianco e nero di Alfred Morris, che abbassò le luci delle location nella capitale cubana per creare la giusta atmosfera, il fascino di trovarsi sul luogo cruciale in uno dei momenti topici dell’intera Storia dell’Umanità (non erano passati che pochi mesi dalla Rivoluzione Cubana), sono come vanificati, almeno in gran parte, dallo stile disimpegnato del film di Reed. Nonostante le ingerenze del governo Castrista, che voleva un tenore più tragico della storia che mettesse in evidenza le atrocità della dittatura precedente, il regista britannico riuscì a mantenere una buona indipendenza artistica, confezionando una storia scombinata che, purtroppo, non regge completamente. Bene Alec Guinnes, nei panni di Jim Wormold (il protagonista) e bene anche Burl Ives (il Dr. Hasselbacher). E sono adeguati, in tono farsesco, Ernie Kovacs (il terribile capitano Segura) e Noel Coward (Hawtorn), impettito funzionario del servizio segreto inglese. Ma le due donne della storia sono una mezza frana: del tutto superflua (e quasi fuorviante ai fini del racconto) la figura di Milly (Jo Morrow), figlia di Wormold, mentre Maureen O’Hara (è Beatrice, una sorta di segretaria del servizio segreto britannico) sembra passare di lì per caso. Il che è un danno non da poco: la O’Hara non era un’attrice semplice da gestire ma le va riconosciuto un indiscusso carisma scenico. Vederla muoversi senza costrutto, senza lasciare la minima traccia, dà un po’ la cifra di quest’opera: certo non brutta, ma sprecata. 







Maureen O'Hara