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domenica 31 dicembre 2017

RADIAZIONI BX: DISTRUZIONE UOMO

78_RADIAZIONI BX: DISTRUZIONE UOMO (The incredible Shrinking Man) Stati Uniti, 1954;  Regia di Jack Arnold.

Il tema del film è apparentemente un po’infantile: cosa succederebbe se, venendo rimpiccioliti, ci trovassimo alle prese con il nostro consueto ambiente domestico, a quel punto stravolto nelle proporzioni? Se l’idea alla base del soggetto di Radiazioni X: distruzione uomo può sembrare banale, non lo è affatto lo staff che lo ha prodotto sulla carta prima e sulla pellicola poi. La sceneggiatura è di un giovane Richard Matheson, che si basa sul proprio romanzo Tre millimetri al giorno, mentre a firmare la regia è il validissimo Jack Arnold; un team tecnico di eccezionale levatura. Matheson è autore letterario sopraffino, e Tre millimetri al giorno cronologicamente arriva giusto appena dopo a I vampiri (I am a legend), un altro testo epocale. Jack Arnold è uno specialista del cinema di fantascienza anni 50, e prima di Radiazioni X: distruzione uomo ha già all’attivo classici come Destinazione… terra!, Il mostro della Laguna Nera, Tarantola! Un simile connubio creativo si pone inevitabilmente mire e intenzioni nettamente più elevate rispetto allo standard del genere. Il cinema di science fiction negli anni 50 assolve principalmente tre scopi: il primo è quello più evidente, e cioè divertire gli spettatori. Il secondo è altrettanto chiaro, ma è un po’ più raffinato: gli anni del dopoguerra vedono una massiccia conversione nel mondo civile di tutte le innovazioni tecniche rese necessarie dal coinvolgimento bellico, enfatizzate ora dalla prosperità legata al periodo di pace che permette una crescita del livello di benessere diffuso. La fantascienza è quindi il veicolo culturale adatto per celebrare i fasti dell’era tecnologica, ancor più nel momento in cui il terreno di scontro col nuovo nemico (quello oltre cortina) è per il momento legato alla corsa nello spazio
E questo riferimento introduce il terzo scopo del genere fantascientifico negli anni 50, ovvero l’analisi in chiave metaforica della Guerra Fredda, con gli alieni in luogo dei sovietici in molti romanzi o film. Matheson è però autore di levatura superiore, e trova in Arnold un degno interprete: al centro di Radiazioni X: distruzione uomo c’è sì il divertimento e anche il risvolto (sebbene in chiave critica) legato alle innovazioni tecnologiche. E’ infatti una nube di natura sconosciuta, ma facilmente artificiale e opera dell’uomo, che introduce la drammatica trasformazione in Scott Carey (Grant Willaims), quella che lo fa progressivamente rimpicciolire e lo trasforma nell’incredibile shrinking-man (l’uomo che si restringe) del titolo originale.

Ulteriore sviluppo, sempre in senso critico, sulla questione delle conoscenze scientifiche, è l’incapacità dei medici di arrestare il fenomeno o di capire la natura della nube tossica. Ma il vero punto di forza dell’opera è nel terzo e più elevato significato, che non è però, in questo caso, legato alla contesa coi russi. Qui, l’uomo, si scontra con se stesso, con la propria natura, la propria società, la propria civiltà. La cultura occidentale è la cultura della conquista, della crescita, dell’accumulo: dalla conquista del nuovo mondo, ai nuovi progressi tecnologici, fino alla conquista dello spazio. Questa continua corsa ad avere sempre di più, sembra essere essenziale per la sopravvivenza umana. 
Ma cosa può succedere, se al contrario, l’uomo cominciasse non tanto a perdere tutto, ma addirittura ad essere perso lui stesso, a venir meno, a sparire? Più che la lotta contro il gatto, divenuto ora una gigantesca fiera, o peggio il ragno, trasformato in un mostro dell’orrore, sembra proprio che sia la mancanza di un posto, la perdita di tutto ciò che abitualmente pensiamo di possedere, di avere, che ci metta in pericolo. Come se a darci sicurezza fossero le cose che ci appartengono e non la nostra pura essenza umana. Matheson, (e di riflesso Arnold) è impietoso, e quando Scott prova a rifarsi un parvenza di esistenza domestica nella scatola di fiammiferi, lo priva anche di quella. Ma, una volta che l’uomo ha perso tutte le cose, e sta via via perdendo anche la sua consistenza fisica, ecco che trova veramente la sua essenza, la sua umanità. Che gli da’ rinnovata forza e lo spinge ad esplorare l’universo microscopico, esattamente come in condizioni normali l’uomo si inoltra nella vastità dello spazio con i viaggi e le missioni degli astronauti.
E’proprio qui sta’ la grandezza positivistica di Radiazioni X: distruzione uomo: dentro di noi, nel nostro più intimo e spoglio livello di umanità, abbiamo tutta la forza che ci serve per andare avanti contro tutte le avversità che la vita ci sottopone.





sabato 30 dicembre 2017

ARGO

77_ARGO  Stati Uniti, 2012;  Regia di Ben Affleck.

In ambito cinematografico, Ben Affleck è un personaggio dalla doppia valenza, è infatti sia attore che regista. E si sa’, spesso questi ruoli rappresentano due anime diverse, quasi contrapposte, della settima arte: la parte più estroversa davanti alla macchina da presa, quella più introspettiva dietro. Ben Affleck uomo di cinema sembra ricalcare questo schema, con film più semplici ed immediati, da Armageddon a Pearl Harbour, che lo vedono nel ruolo di attore, e pellicole meno scontate quando si cala nelle vesti di regista. Questa capacità di gestire una doppia filosofia, Affleck sembra averla addirittura applicata alla struttura di questa sua terza opera dietro la MdP; per cominciare, è quantomeno duplice il suo impegno, in quanto Argo, il suo ultimo film, lo vede all'opera sia come regista che come attore (nonché produttore). Ma, sorprendentemente, la pellicola mostra un aspetto metalinguistico, e quindi piuttosto insolito e nient’affatto semplice come approccio, congiunto ad una facilità di fruizione tipica dei film campioni di incassi al botteghino: la doppia traccia è così applicata in modo esemplare. Oltre al ritmo e alla suspense calibrati in modo magistrale, in Argo la cosa che più sorprende è la versatilità e la molteplicità del linguaggio usato dal regista americano. Ad esempio: Argo è questo film, ma è anche un film nel film; e volendo, è anche un finto-film storicamente esistito. La matrice metalinguistica sembrerebbe evidente: in effetti, a voler credere al bluff di Mendez (l’agente segreto interpretato da Affleck), stiamo vedendo come si produce un film. E’ però anche vero, nella realtà raccontata dall’opera di Affleck come anche nel fatto storico che la ispira, che l’operazione in questione sia una farsa.

E quindi potrebbe essere una falsa pista: ma d’altra parte il cinema è la suprema arte della finzione, e proprio la scarsa credibilità di Hollywood rende possibile, e alla fine anche credibile, l’esistenza di un film fittizio. Insomma, Affleck miscela fatti storici con un uso mirabile degli aspetti tecnici, dalla grana della pellicola ai titoli iniziali del film; e nel raccontare la sua storia, riesce ad essere sufficientemente onesto da mettere in rilievo le colpe degli americani, cosa niente affatto scontata, in un film che non scade però nell’eccessivo ribaltamento dei ruoli. Gli iraniani, per quanto legittimamente infuriati con gli  americani per via dell’appoggio statunitense allo Scià, vengono raffigurati in modo attendibile e non edulcorato dal fatto di avere le loro buone ragioni.
L’equilibrio del film, tra le varie tracce e intuizioni, è ribadito anche in questo aspetto: è un film americano, sul salvataggio di ostaggi americani, e quindi ha una certa prospettiva, ma non cade mai nel fazioso e nemmeno nella propaganda. Anzi; la pellicola affronta questioni ancora aperte e forse all’origine del conflitto culturale ancora oggi in corso, e lo fa’ con ottimo senso critico e autocritico. Affleck approfitta del suo ruolo di uomo di spettacolo, di attore di film che continuano nell’esaltare il mito dell’eroe americano, per mostrarci una storia girata con immagini a tratti quasi documentaristiche; c’è una evidente volontà di mostrarci qualcosa di vero, di storico, oltre alla pantomima del cinema. Le colpe degli Stati Uniti sono raccontate: l’appoggio allo Scià, il carico d’oro trafugato; la stessa CIA dimostra in più passaggi la sua anima doppia e sinistra. Insomma, ancora una volta la funzionalità di Argo è duplice: racconta di un successo americano, ma nello stesso tempo mette l’America faccia a faccia con i propri scheletri.



venerdì 29 dicembre 2017

LA MAGNIFICA PREDA

76_LA MAGNIFICA PREDA (River of no return) Stati Uniti, 1954;  Regia di Otto Preminger.

Il maestro Otto Preminger si cimenta con il genere western per la prima volta e sforna un autentico capolavoro: La magnifica preda, o River of no return, se si preferisce il più pertinente titolo originale. Gli ingredienti sono tutti di prima scelta, partendo dalla storia, semplice ma ben calibrata, con il tema del viaggio sul fiume da cui non si ritorna, che segnerà una decisa crescita per più di uno dei protagonisti. Gli intrecci e i rimandi narrativi sono ben congegnati e tutto torna senza forzature al suo posto, si pensi, ad esempio, a quando il piccolo Marco nota il cavallo di Colby in mano agli indiani e ne deduce la tragica fine. Sempre in merito alla storia, proprio il bambino ha un ruolo chiave in uno dei temi portanti dell’opera, il rapporto padre/figlio visto nell’ottica della continuità collettiva della società americana. Il padre Matt (Robert Mitchum) lo aveva dovuto lasciare in quanto finito in prigione; l’accusa, fondata, era legata ad uno dei reati più infamanti in generale, ma soprattutto nel cinema e peggio che mai nel genere western: aveva ucciso un uomo sparandogli alle spalle. Che poi le circostanze possano aver giustificato l’operato, è sicuramente da tenere in considerazione, nella valutazione di Matt, ma rimane comunque un macigno non indifferente che grava sulla statura morale dell’uomo. Che infatti evita di parlarne, in primo luogo a cominciare con il figlio, e si chiude in un rapporto esclusivo con questi tentando di lasciare fuori il resto del mondo.
Visto il carisma di Matt, di cui si deve ringraziare un Mitchum al meglio della sua forma, per il ragazzo l’uomo diviene un vero modello: naturalmente ci sarà il terribile passaggio narrativo in cui il figlio apprenderà, in modo non certo morbido, quello che ha combinato il padre. La natura biblica dei nomi (Matteo e Marco sono due dei quattro evangelisti) rimarcata nel film, ci dice dell’importanza di questo binomio e di come il secondo sia la proiezione nel futuro del primo anche simbolicamente. Quando, nel drammatico finale, Marco si ritroverà a ripetere l’estremo atto del padre, il significato di questo legame diventerà più chiaro: l’America, fondata e creata da uomini violenti, non riuscirà mai a lasciarsi alle spalle questa sua caratteristica.

Non c’è un giudizio morale, in questo: Preminger non critica ne glorifica la natura violenta dell’America, ma la mostra per quello che è. Nella foresta ci sono mille pericoli, come il puma, o il fiume noto come quello da cui non si torna, o gli indiani in perenne agguato: la violenza è stata necessaria all’uomo per sopravvivere in questa terra selvaggia, e lo sarà ancora. La trama scarna ed essenziale permette allo splendido scenario naturale di prendersi tutto il suo spazio: il formato CinemaScope e i colori Technicolor rendono giustizia ai superbi panorami dello stato dell’Alberta, in Canada. 
Questi elementi erano già più che sufficienti a girare un grande film western, ma non abbiamo ancora accennato ai due ingredienti più importanti della ricetta: Marilyn Monroe e la colonna sonora, cruciali anche se presi singolarmente, ma nello sviluppo strettamente connessi tra loro. Marilyn pare sia rimasta poco convinta dal film (se è per questo anche Otto Preminger non ne fu entusiasta), ed è un vero peccato, perché si tratta di una delle sue migliori interpretazioni e una assoluta prova di eccellenza in senso generale. La Monroe non è certamente un’attrice di scuola teatrale, ma sullo schermo è semplicemente e assolutamente perfetta, attraversa tutta la storia senza sembrare mai fuori posto, in quanto è piuttosto tutto il resto che gira intorno a lei, vero centro di gravità naturale dell’attenzione.


Marilyn è il Cinema: anche se non ha mai fatto western, anche se non è certo il tipo che puoi incontrare in mezzo ad una foresta, lei, in un grande film, ci sta sempre alla grandissima, western compresi. E in La magnifica preda è anzi il valore aggiunto, quella che trasforma un ottimo western in un capolavoro: oltre alla indiscutibile presenza scenica, la bionda attrice si esibisce in quattro canzoni. La colonna sonora è fondamentale in ogni film western che si rispetti, e quella di La magnifica preda è eccellente, le canzoni cantate Marilyn sono tra i momenti piacevoli del film, "I'm gonna file my claim", "One Silver Dollar", "Down in the Meadow" sono molto belle, ma il vero punto dal quale non sembra possibile far ritorno è il finale, quando la divina intona "River of no return". 
Tutto il Cinema, in poco più di due minuti.


Marilyn Monroe














giovedì 28 dicembre 2017

NOTTI DI TERRORE

75_NOTTI DI TERRORE (The Devil Bat) Stati Uniti, 1940;  Regia di Jean Yarborough.

Essendo un film dell’orrore e vedendo la partecipazione di Bela Lugosi nel ruolo dello scienziato pazzo (il dottor Carruthers), l’opera assume un minimo di interesse. Ma l’eventuale successiva visione della pellicola, ne aggiunge davvero poco: ritmo fiacco, effetti speciali di scarso rilievo, divertimento sopraffatto dalla noia. Ci sono alcuni passaggi narrativi che, per la loro assurdità, contribuiscono perlomeno a rendere originale il film: per indirizzare i suoi pipistrelli giganti, assassini animali che il dottore crea in laboratorio, il buon medico regala alle vittime una speciale lozione che, con il suo profumo, permetterà alle spietate creature notturne di compiere la propria missione.
Che dire, il film è considerato uno degli esempi più eloquenti degli studios appartenenti al 'Powerty Row', ovvero produzioni a bassissimo budget.
E non è che sia una nota di grande merito.







Suzanne Kaaren




mercoledì 27 dicembre 2017

FACCIAMO L'AMORE

74_FACCIAMO L'AMORE (Let's make Love) Stati Uniti, 1960;  Regia di George Cukor.

Indubbiamente Facciamo l’amore non è l’opera migliore di Marilyn Monroe ne’ del regista George Cukor. E nemmeno di Yves Mountand. Però sia Cukor che Mountand se la cavano col mestiere, e Marilyn, beh Marilyn è comunque adorabile anche se non raggiunge i vertici artistici di A qualcuno piace caldo. D’altra parte se Facciamo l’amore non vale il capolavoro di Billy Wilder, la colpa non è certo della Monroe. La diva parte a cannone, con una interpretazione straordinaria di My hearts belongs to daddy  in calzamaglia nera e maglioncino, e mette subito a segno un altro passaggio che rimarrà memorabile nella Storia del Cinema. Assolutamente indimenticabile. Nel proseguimento della vicenda, la Monroe gioca un po’ con la sua icona di oca tutta curve e poco cervello, ma ha sempre un lato ambiguo che lascia intuire che la sua frivolezza sia comunque un po’ di maniera. In ogni caso in questo film è in grado di reggere benissimo i due registri recitativi, della bella un po’ svampita, nelle parti recitate, e dell’animale da palcoscenico quando sale sul palco del teatro, dove sfodera una serie di numeri musicali di grande impatto. 

La storia in sé non è niente di che, una commedia degli equivoci, sebbene abbia ritmo e sia sicuramente gradevole. Volendo ci si possono leggere metafore sul valore del denaro, ma più che altro Cukor è abbastanza onesto da ammettere candidamente che il denaro è potere e col potere, in un modo o nell’altro, si arriva ad ottenere quello che si vuole. Non una grande morale, è vero, ma da un prodotto del genere sarebbe anche sciocco pretenderlo. Anzi, il film può essere apprezzabile per la sincerità con cui ammette quelli che sono i valori vigenti ad Hollywood. Che si sa, è lo specchio del mondo. 
Comunque, Marilyn rende imperdibile anche questo film.



Marilyn Monroe