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lunedì 31 maggio 2021

IL COLONNELLO REDL (a seguire QUANDO LA STORIA... )

824_IL COLONNELLO REDL (Redl ezredes)Ungheria, Austria, Germania Ovest, 1985; Regia di Istvàn Szabò. 

Dopo i titoli di testa, che arrivano in seguito ad un’immagine dell’obiettivo della macchina da presa, il film comincia con una insistita soggettiva: al cinema questo è un chiaro intento di far immedesimare lo spettatore con il protagonista dell’opera. Ma, vedendo l’incipit de Il colonnello Redl di István Szabó, possiamo notare anche un’altra cosa: se è vero che la visione in soggettiva ci permette di vivere la scena con gli occhi di un personaggio, in questo caso l’uso è un po’ diverso dal solito. Abitualmente, uno o più passaggi in soggettiva alternati alla normale visuale, aumentano il grado di comprensibilità delle immagini, dal momento che si offre un punto di vista ulteriore e diverso. Szabó per il suo inizio lavora in modo differente: abbiamo solo la soggettiva del piccolo Redl per quasi cinque minuti (in pratica tutta la fase ambientata al suo villaggio) e null’altro e allora, seppure le immagini possono essere coinvolgenti, il quadro generale non è del tutto chiaro, potendo vedere noi unicamente ciò che vede il protagonista ma ignorando il contesto. In questo caso, quindi, la soggettiva limita la visione generale anche se mantiene, e forse amplifica da un punto di vista sensoriale, quella personale. E, parlando di un film biografico, non è un particolare trascurabile. Alfred Redl era un colonnello dell’esercito austro-ungarico e al contempo una delle più preziose spie al soldo dei russi. Non è facile indagare sulle motivazioni che spinsero questo ambizioso ufficiale a tradire, anche perché il caso fu gestito con non poche difficoltà e imbarazzi da parte delle autorità: invece di torchiarlo per bene si pensò di spingerlo al suicidio, nel tentativo di lasciar intendere un suo ravvedimento che potesse in qualche modo contenere lo scandalo. Senza riuscirci, per altro ma, in ogni caso, non sembra che questo interessi più di tanto Szabó. Non è infatti una ricostruzione fedele che ci serva sul piatto d’argento le motivazioni che spinsero Redl al tradimento, quello che si trova nel film del regista ungherese. Il chiaro incipit in soggettiva, che come detto termina quando comincia la sua scalata nelle file dell’esercito, sembra dirci che Redl si senta estraneo al suo mondo che infatti vede senza sentirsene parte (di fatto, non compare mai nelle inquadrature). 


Questo speciale rapporto tra il protagonista e la macchina presa era stato addirittura anticipato prima dei titoli di testa quando, alla citata primissima immagine della lente dell’obbiettivo della macchina da presa era accostata quella di Klaus Maria Brandauer (l’attore che impersona in modo straordinario il colonnello Redl adulto), una scelta di montaggio irrealistica che, svelando l’artificio della finzione, preannunciava la didascalia successiva dove si prendevano le distanze da una possibile lettura in chiave documentaristica dell’opera. Svincolatosi dai paletti di una biografia troppo fedele, Szabó si concentra sugli aspetti emozionali fortemente contrastanti che albergavano in Redl e che ben sintetizzavano quelli più generali della società multietnica che viveva nell’Impero. 

Redl, pur provenendo da una famiglia umile, riuscì ad entrare nella Scuola Militare per ufficiali, frequentata solo da figli di famiglie nobili; inoltre le sue origini erano rutene, una popolazione sostanzialmente senza una vera patria, ma si sospettava avesse anche sangue ebreo nelle vene. Questa situazione generale lo metteva in difficoltà al cospetto di compagni che erano tutti aristocratici; a questo si aggiungeranno poi le tendenze omosessuali, al tempo assolutamente vietate, che cercava di mascherare alla meno peggio partecipando alla vita mondana degli altri cadetti. Un episodio a suo modo cruciale fu, ai suoi primi tempi alla Scuola Militare, quando si trovò costretto a fare la spia presso il superiore denunciando uno dei suoi compagni, per evitare di far ricadere la colpa su Kristóf von Kubinyi (Jan Niklas) suo amico del cuore. 

Inopportune
questioni di cuore, a quel tempo in fase solo embrionale (che successivamente si svilupperanno in modo più concreto), si intrecciavano a senso del dovere (denunciare il colpevole) ma anche ad azioni disonorevoli (fare la spia). In quel breve passaggio ci sono tutti gli elementi della vita del colonnello Redl: la sua attrazione omosessuale per l’aristocratico amico, la fedeltà ai superiori e la capacità di farsi delatore e spia senza porsi troppi scrupoli. L’abilità nell’orchestrare al meglio questi elementi, evitando di alimentare le voci sulla sua omosessualità ma mostrando particolare zelo nell’applicazione dei regolamenti o nell’indagare sulla condotta dei suoi sottoposti, lo portarono presto, di promozione in promozione, ai vertici dell’esercito. Il maggiore generale von Roden (Hans Christian Blech) lo aveva ormai scelto come suo pupillo: infatti le umili origini di Redl erano viste come un vantaggio, dal vecchio gerarca. Se non bastava ritenere la gratitudine per i progressi sociali fatti dal giovane grazie alla carriera militare, si poteva osservare come sull’arrivista ufficiale pendesse moralmente la possibilità di essere ricattabile. Che Redl non avesse il sangue blu di nobile famiglia, che lo tutelasse a fronte di qualsivoglia sventura, era perciò per Roden una sorta di garanzia. E, in una storia in cui tutto sembra andare contromano, è proprio la possibilità di essere ricattabile che spinse Redl al tradimento: facendo leva sulla sua omosessualità gli si tese un tranello, in cui l’ufficiale cascò in pieno. 


Anche perché a presentarglielo, il tranello (nella veste di un giovane omosessuale), era stata Katalin (Gudrum  Langrebe), sorella di Kristóf e sua intima amica (molto intima, altro elemento che depone in favore dell’ambiguità del protagonista), forse l’unica persona che non avesse ragioni di rimostranza dei confronti di Redl. D’incanto, almeno agli occhi del Redl protagonista del film di Szabó, il mondo si rovesciò: l’Impero, per il quale aveva ripetutamente rinnegato la sua famiglia e per il quale aveva più volte tradito, lo tradiva a sua volta con una manovra subdola che lo feriva rivelandone tutte le debolezze. Qui la distanza tra la realtà storica appare evidente eppure, coerentemente al registro narrativo del film, è in questo momento che l’opera di Szabó mostra il lato più autentico: raramente si è visto la scena di un suicidio tanto sofferta e disperata. Beffardamente, il film termina con un’allegra rappresentazione dell’attentato di Sarajevo ai danni dell’Arciduca Francesco Ferdinando (Armin Mueller-Stahl) e delle entusiaste truppe austroungariche in marcia allo scoppio delle agognate ostilità. Non sospettando, evidentemente, che Redl li aveva traditi davvero. 

Al termine della galleria fotografica del film QUANDO LA STORIA... l'appendice storica di Antonio Gatti: 
GLI UFFICIALI DELL'AUSTRIA-UNGHERIA E IL CASO REDL




Gudrum  Langrebe



Appendice storica.
QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.

GLI UFFICIALI DELL'AUSTRIA-UNGHERIA E IL CASO REDL

Considerare l’Austria-Ungheria come un “relitto del medioevo” (Liddell-Hart), o definirla “l’altro malato d’Europa” (il primo essendo l’impero Ottomano) significa leggere la storia di quegli anni secondo il paradigma di valori appartenenti a epoche successive, ma soprattutto vuol dire trascurare o ignorare la politica dell’impero asburgico alla vigilia della Grande Guerra. Politica non certo refrattaria e timida, ma al contrario, aggressiva ed espansionistica; l’Austria aveva approfittato delle guerre balcaniche, questo autentico prologo del conflitto europeo, per annettere la Bosnia e imporsi come attore politico nella vita degli slavi del Sud, arrivando a un inevitabile scontro col nazionalismo slavo, che in quegli anni sostituì quello italiano come nemico giurato del grande impero multietnico. Questa politica estera aggressiva fu soprattutto dovuta al corpo ufficiali dell’esercito; non è questo il luogo per affrontare l’argomento nel dettaglio, ma giova ricordare come tra il 1796 e il 1945, l’età d’oro del militarismo europeo, con eserciti composti di svariate centinaia di migliaia di soldati, poi diventati milioni, con compiti di mantenimento dell’ordine interno dal pericolo rosso, di sicurezza da, ed espansione verso, l’estero, i militari occupavano un ruolo di primo piano nella politica degli stati; la loro influenza era paragonabile a quella che i grandi istituti finanziari e le principali banche private esercitano sui governi ai giorni nostri. 

E il corpo ufficiali dell’Austria-Ungheria non era certo timido nell’esercitare questa influenza, anzi; la sua composizione era eterogenea, sia etnicamente che a livello sociale, ma la sua compattezza era notevole, specie se si tiene conto, per contrasto, dei problemi etnici e sociali che travagliavano l’impero e se si tiene conto, oltretutto, che l’esercito austro-ungarico erano in realtà tre eserciti: uno per così dire imperiale, chiamato “Esercito comune” , e altri due eserciti territoriali corrispondenti alla parte tedesca e ungherese dell’impero. Lo stato maggiore che guidava e delineava le idee e il comportamento del corpo ufficiali tutto, fu a partire dal 1906 presieduto da Franz Conrad von Hotzendorf; personaggio complesso, egli è la dimostrazione di quanto sia sbagliato vedere nell’Austria-Ungheria e nelle ideologie che ne guidavano la politica dell’epoca solo una blanda lotta per la sopravvivenza nascosta dietro il paravento di un conservatorismo di facciata. Conrad era ateo; ammiratore di Darwin, tendeva a trasporre alla società le scoperte scientifiche di quest’ultimo, banalizzandole. Per Conrad, la natura stessa era la dimostrazione che solo i forti potevano vincere nella vita; studioso di Lee e “Stonewall” Jackson, generali confederati nella guerra di secessione americana, fu un tattico teorico rinomato ai suoi tempi e cercò di rafforzare l’esercito asburgico in più settori. Italiani e serbi erano oggetto di un odio viscerale, atavico, da parte di Conrad, il quale più volte cercò di convincere l’arciduca ereditario Francesco Ferdinando ad autorizzare un attacco preventivo nei confronti di queste due nazioni. 

Sanguinoso repressore degli scioperi triestini nel 1902, con tutto il suo darwinismo sociale e la sua venerazione della legge del più forte, Conrad in realtà non aveva un carattere energico. Innamorato di una nobildonna sposata -ironicamente, italiana – egli spese lunghi giorni a compilare lettere d’amore, circa 3000, che non spedì mai per paura dello scandalo che ne sarebbe conseguito se si fossero scoperte; la sua lotta nell’arena della vita si incagliò davanti al terrore dei pettegolezzi dei salotti viennesi rivelando una debolezza di fondo che si rivelerà, in maniera ancora più tragica, durante la mobilitazione per la guerra.
Alfred Redl, in qualche maniera, era un prodotto del corpo ufficiali austriaco dell’epoca che, come si evince dal caso Conrad, si dibatteva continuamente tra modernità e convenzioni sociali sentitissime, tra ottimismo e sfiducia, pescati a metà in un mondo, quello asburgico, che stava già tramontando ma si rifiutava di andarsene senza combattere. Più giovane di Conrad, Redl proveniva da una famiglia modesta, ma si fece strada come persona intelligente e innovativa: esperto di cose militari russe, fu assegnato nel 1900 a presiedere la commissione dedicata alla Russia all’interno dei servizi segreti dello Stato Maggiore. La sua ascesa fu meteorica, anche grazie alle sue innovazioni nell’ambito dello spionaggio e controspionaggio: fotocamere nascoste, cilindri di cera per registrare le conversazioni e un archivio con le impronti digitali furono tutte cose che Redl ebbe l’accortezza di introdurre come regola d’uso dei servizi segreti austriaci. 
Redl sembrava un suddito fedele dell’imperatore ed interamente devoto alla causa dell’esercito ma, come nel caso di Conrad, la sua vicenda andò ad un certo punto ad incagliarsi tra gli scogli delle convenzioni sociali dell’epoca, in una maniera molto più drammatica e irta di conseguenze rispetto a quella del suo superiore.

Il colonnello Nikolai Batyushin, una sorta di corrispettivo russo di Redl, il quale era capo dei servizi segreti zaristi a Varsavia, venne a conoscenza, probabilmente nel 1901, dell’omosessualità di Redl che automaticamente divenne un soggetto ricattabile, visto il disgusto -almeno di facciata- con il quale erano visti gli omosessuali all’epoca in Austria. D’altra parte, è possibile che la vicenda del ricatto abbia solo fornito un primo punto di contatto tra Redl e Batyushin; le negoziazioni poi potrebbero essersi subito dirette attorno ad argomenti più concreti e piacevoli per l’austriaco, ossia le cifre che i russi erano disposti a corrispondere in cambio di informazioni segrete sull’esercito asburgico. Le cifre, come risultò alla fine, non erano di poco conto. Redl cominciò a condurre uno stile di vita incompatibile con il suo background sociale e le sue entrate, ma questo parve non insospettire i suoi superiori. Significativo della voglia di rivalsa sociale che questi parvenu provavano in un mondo dove l’ascesa era molto difficile per chi veniva dal basso, il fatto che Redl non riuscisse a contenersi ma tra vacanze, auto, case e frequentazione di salotti desse fondo a tutti gli introiti che gli giungevano dai russi, accampando poi le più fantasiosi scuse, tra cui l’immancabile eredità ricevuta per miracolo, per giustificare il suo nuovo tenore. 
Il mestiere di spia era tra i più pericolosi: infatti già nel 1902 si aprì una crisi: il servizio segreto austriaco scoprì che qualcuno aveva consegnato ai russi i piani di guerra dell’impero asburgico. Qualcuno doveva investigare e questo qualcuno fu scelto proprio nella persona di Alfred Redl che così divenne il detective incaricato di scoprire il tradimento di sé stesso. Ancora una volta, i russi accorsero in aiuto del loro alleato, consegnandogli una lista di nomi di spie zariste in Austria, sacrificate per far sì che la fiducia dei suoi superiori in Redl non venisse mai meno; “scoprendo” queste spie, anzi, Redl ottenne la direzione del contro-spionaggio militare austriaco nel 1907. La sua stella brillava più che mai: conduceva una vita agiatissima, che persino pochi aristocratici viennesi potevano permettersi, tutti si fidavano di lui.

Nel 1913, però, gli venne assegnato un altro incarico e il contro-spionaggio finì nelle mani del maggiore Maximilian Ronge: questo apparentemente insignificante cambio di uffici all’interno dei servizi segreti, segnò la fine per Redl a causa di una serie di incredibili coincidenze. I russi, pagavano Redl ovviamente in contanti e le buste arrivavano all’ufficio postale centrale di Vienna dopo una lunga e tortuosa peregrinazione per Polonia e Germania, al fine di renderne più ardua la tracciabilità (ai tempi non c’era amazon!). A Vienna, un personaggio chiamato Nikon Nizetas andava a ritirare la busta e la portava a Redl. Nel 1913, Nizetas per qualche motivo non si presentò a ritirare la busta: è possibile che, vista l’eventualità di una guerra europea sempre più vicina, Redl cominciasse a prendere più precauzioni del solito, visto anche che Ronge, il suo successore era piuttosto attivo e intelligente. Sia come sia, la busta non ritirata viene aperta dalla posta e dentro vi si trova una straordinaria somma di denaro contante, che viene immediatamente consegnata a Ronge, dal momento che risulta evidente la possibilità che si tratta del compenso di una qualche spia. Ronge fa installare un pulsante elettrico nell’ufficio postale, che deve essere premuto nel momento in cui qualcuno viene a ritirare la busta. Possiamo immaginare l’ansia con la quale i servizi segreti aspettarono che quel bottone venisse premuto, la loro frenesia quando questo infine accadde; frenesia tale che persero di vista il raccoglitore della busta che salì su un taxi parcheggiato fuori dalla posta e si allontanò. Redl sembrava averla scampata ancora una volta e senza neanche l’aiuto dei russi! Gli agenti del controspionaggio austriaco rimasero a interrogarsi sul da farsi, certi di aver mancato una grossa occasione; stavano già per allontanarsi quando videro tornare lo stesso taxi sul quale era salito l’uomo della busta. Frenetici, chiesero all’autista dove avesse accompagnato il passeggero: egli rispose che lo aveva portato al vicino Hotel Klomser. Salendo sul taxi, gli agenti trovarono la fodera di un coltellino; arrivati all’hotel, chiesero al proprietario di cercare a chi appartenesse quell’oggetto.

Così fu scoperto Alfred Redl, che comparve sorridente a ritirare la sua fodera perduta; Ronge si affrettò ad arrivare all’albergo, dove concesse a Redl il suicidio, incredibilmente fidandosi della parola del traditore, secondo la quale avrebbe trovato tutti i documenti riguardanti i suoi contatti coi russi nella villa di Praga che Redl aveva comprato con la paga di Giuda. Ronge fu molto criticato – e giustamente- per aver permesso il suicidio di Redl; si difese dicendo di averlo fatto per evitare lo scandalo, ma questa sembra più una scusa inventata su due piedi che non una reale motivazione: come sperava Ronge che la scoperta del tradimento di un alto ufficiale e il suo conseguente suicidio, potessero rimanere nascosti dal momento che si erano svolti in un albergo nel centro di una capitale europea? Nella famosa villa di Praga andò pure peggio; gli agenti trovarono una cassaforte nell’abitazione, e chiamarono un fabbro per forzarla. Era una domenica e sfortuna volle che il fabbro fosse anche un giocatore di calcio molto noto a Praga; dopo l’apertura della cassaforte, un giornalista sportivo interrogò il fabbro pallonaro chiedendogli perché avesse saltato la partita e il nostro candidamente disse che non aveva potuto giocare perché stava forzando una cassetta segreta a casa di Alfred Redl. Il bubbone scoppiò. Nella cassaforte, oltre a diversi documenti segreti, furono trovate fotografie di ufficiali austriaci vestiti da donna, o in atti inequivocabilmente omosessuali.

Nella storia ci sono molti punti oscuri, il primo fra i quali è la fiducia costantemente accordata a Redl dai suoi superiori, nonostante la continua fuga di notizie verso la Russia fosse direttamente proporzionale all’aumento delle sue ricchezze. Non credo si debba adombrare un complotto (e cioè che l’estensione del tradimento fosse molto maggiore); a mio parere questo corpo ufficiali così unito, non contemplava l’ipotesi di un tradimento così esteso. E ancora, psicologicamente c’era una certa esitazione a raschiare sotto la superficie dell’apparenza sociale di un individuo; c’era sempre infatti la possibilità di trovare, come nel caso di Redl e dei suoi amanti, qualcosa di particolarmente ripugnante, qualcosa che avrebbe fatto crollare tutta la costruzione morale sulla quale si basava allora la società. Redl, negli anni, comprò una tenuta e diversi appartamenti a Vienna, la villa di Praga, molte automobili. Erano acquisti fatti col sangue di spie austriache in Russia tradite dalle sue soffiate e giustiziate senza pietà. Rimane da appurare l’impatto del tradimento di Redl sulla guerra, un argomento molto dibattuto. Alcuni ritengono Redl l’artefice delle sconfitte iniziali dell’Austria, dal momento che i russi avevano a disposizione i loro piani di guerra. Ipotesi debole: al contrario della Germania e, soprattutto, dei russi stessi, l’Austria-Ungheria aveva poche possibilità di un piano di guerra diverso da quello che infine attuò contro la Russia, ovverosia l’offensiva in Galizia. Riguardo l’estensione dell’esercito asburgico, era un calcolo che i russi potevano facilmente fare da soli sulla base della popolazione dell’impero. Credo che l’apporto principale di Redl , dal punto di vista zarista, sia dovuto soprattutto al suo rivelare il nome delle spie austriache in Russia mentre le sconfitte militari dell’Austria nel 1914 sono principalmente dovute alle incertezze di Conrad, il darwinista sociale. 

domenica 30 maggio 2021

JOHNNY ORO

823_JOHNNY ORO Italia, 1966; Regia di Sergio Corbucci.

Spaghetti-western di ‘cassetta’ allo stato puro, Jhonny Oro di Sergio Corbucci è un film certamente divertente ma che si eleva ben poco oltre l’offerta di puro svago. I presupposti della storia sono labili e la messa in scena è tanto eccessiva da risultare posticcia; per esempio, il protagonista, Johnny Oro, appunto, ha una pistola interamente nel metallo pregiato di cui ha preso il nome. Insomma, un tizio che va in giro nel selvaggio west con una pistola d’oro zecchino sembra quasi una barzelletta, ma tant’è. Il contributo di Sergio Corbucci al western all’italiana è certamente riconosciuto per altre opere (viene subito in mente Django), mentre questo Johnny Oro, il cui protagonista è interpretato da Mark Damon, non aggiunge molto. Le idee, per quanto bizzarre (perlomeno quella della pistola) non sono poi molte e il lungometraggio prevede duelli e infinite sparatorie per rimpolpare una storia un pochetto povera.
La vena ironica all’interno del genere, già esplorata in modo più efficace da altri (ad esempio i due film con Ringo di Duccio Tessari interpretati da Giuliano Gemma), è qui tenuta maggiormente sotto controllo, bilanciata dal look completamente in nero del protagonista, che prova a rendere carismatico il protagonista con una tipica mise da bounty killer. Uno stratagemma che sembra preso di peso dai fumetti popolari italiani, che possono considerarsi i parenti più prossimi di questo film, a tratti gradevole ma in altri perfino quasi imbarazzante. Ad esempio quando attaccano con la canzone che presenta il protagonista, musicalmente anche gradevole, ma con testi da gita parrocchiale. La colonna sonora, per la verità, opera di Carlo Savina, non è affatto male nel suo complesso, sebbene non sia certo niente di particolarmente originale. Tuttavia svolge il suo ruolo evocativo con indubbia efficacia e ha anche il merito di introdurre una delle note più liete del lungometraggio. Quando Johnny entra nel saloon, nella fase iniziale del film, c'è Margie (la bella Valeria Fabrizi) che sta cantando una tipica melodia romantica resa, dalla brava interprete, uno dei momenti più intensi della pellicola. 




Valeria Fabrizi


Giulia Rubini

sabato 29 maggio 2021

QUANDO TUONA IL CANNONE: capitolo 1_GIUGNO FATALE

Quando la città dorme presenta:

QUANDO TUONA IL CANNONE

IL KOLOSSAL DOSSIER

Capitolo 1

GIUGNO FATALE

1 Giugno

IL COLONNELLO REDL

(a seguire QUANDO LA STORIA)

2 Giugno

QUEL ROSSO MATTINO DI GIUGNO

 (a seguire QUANDO LA STORIA)

3 Giugno

L'ATTENTATO - SARAJEVO 1914

 (a seguire QUANDO LA STORIA)

4 Giugno

HO DIFESO LA GIOVANE BOSNIA

5 Giugno

1914- GLI ULTIMI GIORNI PRIMA DELLA GUERRA

(a seguire QUANDO LA STORIA)


venerdì 28 maggio 2021

I DUE VOLTI DELLA VENDETTA

822_I DUE VOLTI DELLA VENDETTA (One-Eyed Jacks)Stati Uniti, 1961; Regia di Marlon Brando.

Marlon Brando è un attore naturale e non un regista, nonostante per questo suo sentito film, I due volti della vendetta, si cimenti anche dietro alla macchina da presa. Questo traspare in maniera evidente dalla pellicola: non solo è palese l’inesperienza, essendo la sua prima (e unica) regia, ma si avverte, da parte di Brando, anche una certa indisposizione ad assumere un ruolo particolare come quello della direzione di un film. Non per questo il lungometraggio risulti poi brutto, tutt’altro. I due volti della vendetta è un film atipico, di cui si possono apprezzare alcuni passaggi in cui l’autore rinuncia alla tentazione di dare spiegazioni superflue: ad esempio quando Rio (lo stesso Brando, nel film) prende due pallottole, una in ciascuna mano, per decidere chi andrà a cercare aiuto. La scelta di Dad (il solito, grande, ambiguo, Karl Malden) è quindi ininfluente, visto che in ogni caso troverà una pallottola; Rio quindi salva l’amico senza fargli capire che il suo sacrificio è volontario, mascherandolo dalla scelta del caso. E’ una bella scena, discreta, e da lì partirà poi il tradimento dell’amico Dad di cui in seguito Rio cercherà (e alla fine troverà) vendetta. Ma la strada per arrivarci non è affatto lineare, scontata o comunque sulla falsariga delle classiche storie western. No, Brando sembra proseguire un po’ a braccio, ma poi non è nemmeno detto perché quella a cui assistiamo è una versione pesantemente monca dell’opera pensata dall’artista. Nonostante il film sia infatti della ragguardevole lunghezza di 141 minuti, pare che in origine la pellicola avesse una lunghezza di quasi 5 ore! Difficile quindi farsi un’opinione degli intenti dell’autore, visto che quello che è rimasto sullo schermo è metà di quanto previsto. In ogni caso l’attore si prende il centro della scena, recita la parte del bandito affascinante, sornione e forse, nel computo delle complessive cinque ore, anche le scene sentimentali con la figliastra del rivale, sarebbero state più armoniose con lo sviluppo della trama. Il risultato attuale le vede un po’ forzate, sebbene potrebbe anche essere una scelta per rendere più fiammeggiante il tono melodrammatico. L’opera ha comunque un suo fascino, anche per merito della presenza scenica di Brando, ben spalleggiato dal solido Malden e dal resto del valido cast (Ben Johnson, Katy Jurado).





Katy Jurado

Pina Pellicer


mercoledì 26 maggio 2021

LIGABUE (1977)

821_LIGABUE . Italia, 1977; Regia di Salvatore Nocita.

Alla fine dello sceneggiato Rai del 1977, il pittore Ligabue (uno straordinario Flavio Bucci) muore prima di aver fatto anche un solo quadro per il suo amico Cachi (Alessandro Haber). E dire che questi era stato forse l’unico ad essergli stato veramente amico, a rimanergli accanto sin dal suo arrivo dalla Svizzera a Gualtieri, in Emilia Romagna. Ma Ligabue era diffidente e quando, tempo prima, Cachi gli aveva timidamente chiesto un dipinto, l’aveva presa male, aveva creduto che la sua amicizia fosse interessata. Anche Cachi, come tutti gli altri, voleva semplicemente approfittarsi di lui. Non era vero. Cachi era un vero amico, almeno quello dello sceneggiato di Salvatore Nocita e nell’incapacità di capire anche la semplice e sincera amicizia di un altro uomo, che si era peraltro mostrata in più di un’occasione, c’era forse una delle chiavi per capire da dove arrivava la forza che spigionava il Ligabue pittore nella sua opera. Certo, una lettura più ovvia potrebbe ricondurre la potente espressività dell’arte del bizzarro pittore proprio alla sua diversità, alla sua asocialità, ai problemi legati al non essere accettato dalla collettività. Ma, fosse così, per quale motivo rifiutare un misero dipinto all’unico che ti si è sempre dimostrato amico? Certamente la visione personalissima e primaria, quasi primitiva (più che ingenua), che nella sua arte si manifestava facendolo accostare a volte ai pittori naif, era anche legata alle sue bizzarre particolarità e alla sua incapacità di socializzare. Ma, almeno stando allo sceneggiato, l’idea che sorge è che la potenza della sua pittura nasca da un devastante contrasto. 

Quello tra la sua sfrenata autostima e la costante frustrazione nel non vedersi riconosciuto come grande artista e forse anche come grande uomo. Nell’ingenuità con cui si presenta, elegantemente vestito e con la macchina, pensando di impalmare facilmente Cesarina (Andréa Ferréol) c’è tutta l’incapacità di Ligabue di comprendere il mondo e le sue dinamiche; per quanto questo, per via della sua infatuazione per la donna, sia uno dei momenti in cui ci sia un’attenuante davvero rilevante o oggettiva. Meno facile credere che, anche una persona ingenua, possa non rendersi conto dell’amicizia di un uomo semplice come Cachi; anzi, a ben vedere è proprio questo che lascia perplessi. Un ingenuo è una persona che si fida: Ligabue era la quintessenza della diffidenza. Diffidare di un vero amico è un fatto grave, come l’incapacità di perdonare il padre, un uomo ormai anziano; figuriamoci negarli il perdono dopo che questi era morto. 

Naturalmente ci si riferisce all’immagine di Ligabue che traspare dallo sceneggiato Rai, dalla quale, oltre alla superficiale simpatia che si può provare per i grotteschi modi bruschi e scontrosi del pittore non si può andare. Lo sceneggiato è molto ben curato e tiene conto anche della lezione del cinema di genere italiano, si veda il tipo di umorismo che permea il racconto, dove si trovano audaci riferimenti anche scatologici che rimandano agli spaghetti western. Un personaggio come quello del pittore italiano, con le sue intemperanti stravaganze, è sfruttato a dovere da Nocita che lo rende il protagonista divertente della sua opera. Divertente, ma mica tanto simpatico, a veder bene. Non è, infatti, un tipo che suscita grande commiserazione e nemmeno stima sul piano umano, Ligabue: certo, era un pittore dotato di una indiscutibile forza espressiva. Forse un pazzo; nel qual caso, gli si potrebbe perdonare qualsiasi cosa. Ma lo sceneggiato sembra propendere, piuttosto, per un uomo che in vita aveva sofferto tanto e, di fronte alla sofferenza, c’è sempre da porsi con rispetto. Tuttavia i suoi maggiori problemi erano legati all’incapacità di quello scendere a compromessi che, in questo ambito, va sotto il nome di socializzare. Chi più chi meno tutti ci si deve adeguare mentre Ligabue tirò dritto per la sua strada e quel poco di vita sociale riuscì a ritagliarsela perché la gente lo stimava come artista. E questo, proprio per la citata autostima di Ligabue, otteneva allora la sua approvazione. Chi lo considerava semplicemente un amico, invece, rimase sostanzialmente poco considerato dal pittore e non certo per la questione del quadro, che funge solo da emblematico esempio. Chissà, forse è proprio questo il prezzo dell’arte. 

lunedì 24 maggio 2021

VIALE DEL TRAMONTO

820_VIALE DEL TRAMONTO (Sunset Boulevard)Stati Uniti, 1950; Regia di Billy Wilder.

Nella carriera di regista di Billy Wilder, Viale del tramonto è un titolo che arriva quasi all’alba di quello che è il massimo momento di splendore artistico del cineasta: lo aspettano tutti gli anni 50, sfavillanti di capolavori, e poi anche gli anni 60, sempre sulla breccia. E’ quindi curioso che, per un film su Hollywood, sul mondo del cinema come è Sunset Blvd, il regista scelga un titolo tanto triste come Viale del tramonto. Del resto il titolo rispetta il tono della pellicola, che non è certo allegra; si sorride, è vero, dell’acido sarcasmo del protagonista, Joe Gillis (William Holden, impeccabile), delle sue battute ironicamente velenose. Ma il film non ha la pretesa di far ridere: del resto l’incipit previsto in un obitorio è stato cancellato da Wilder a fronte dell’ilarità del pubblico nella sala di prova in cui venne proiettato per verificarne il risultato. No, non c’è tanto da sghignazzare, Viale del tramonto non è certo un film serioso, o come si suol dire in modo pedante impegnato, ma è un film serio, lucido, perché riflette su sé stesso, su Hollywood. Perché, come sempre, il cinema è lo specchio del mondo e quindi un film di genere, che si presenta come un semplice noir, divertente si, ma nel suo essere coerente con la sua natura apparente di film di svago, può aiutarci a capire la realtà, molto di più di quanto non si possa pensare a prima vista.
Il film si apre, accompagnato da una grave musica, con il titolo scritto sulla bordura del marciapiede: del resto Sunset Blvd è il nome di una strada di Los Angeles, l’immediata via parallela di Hollywood Boulevard, tanto per capire di che zona si tratti. Già, Hollywood, la terra dei sogni: ma abbiamo visto che il nostro film comincia molto più in basso, praticamente rasoterra, e non è certo un caso. 

Senza stacchi al montaggio, la macchina da presa rimane sull’asfalto, un lungo carrello all’indietro ci trasporta velocemente sulla strada, un nastro grigio che scorre rapido sotto i titoli di testa: alla fine l’obiettivo si alza e dal fondo arrivano le moto e le auto della polizia, che seguiamo con una violenta panoramica mentre ci superano. Anche se si tratta unicamente dei titoli di testa dell’opera, Billy Wilder ha già cominciato a girare il suo film, approfittandone per piazzare una sorta di piano sequenza proprio in avvio di pellicola. Niente montaggio e quindi niente tagli, sui titoli di testa; titoli di testa che servono, in maniera esplicita, a darci le informazioni sul film che ci apprestiamo a vedere, e spesso lo fanno anche in modo più sottile. Perché la questione del controllo sulla pellicola, sul montaggio finale, tornerà poi nella storia, quando nella casa di Norma Desmond (interpretata dalla divina Gloria Swanson), il maggiordomo Max (il mitico Erich Von Stroheim) proietterà Queen Kelly, un vecchio film muto girato dallo stesso Von Stroheim (che era un grande ed eccentrico regista), prodotto e interpretato dalla stessa Swanson, ma interrotto e martoriato al montaggio dai produttori per l’improvviso avvento del sonoro. Temi che ritornano, guarda caso, nella storia imbastita da Wilder e Charles Brackett (co-sceneggiatore) proprio per Viale del tramonto


Ma torniamo all’inizio del film, perché ancora non abbiamo accennato ad uno dei colpi di scena più clamorosi della storia del cinema, e pensare che è addirittura in avvio di pellicola. In effetti Viale del tramonto è famoso prevalentemente per essere una storia raccontata in flashback da un morto, che i poliziotti di cui si diceva prima finiscono per trovare a faccia in giù dentro la piscina di Norma Desmond. L’idea di una voce narrante che appartenga ad un defunto è spiazzante, perché in genere il fatto che ci sia qualcuno a raccontarci una qualche storia, simboleggia un minimo di lieto fine concretizzato dalla sopravvivenza di chi ci sta parlando. Sovvertendo questo canone, il film rischia quindi di deragliare nel surreale, ma qui subentra la superba capacità narrativa di Wilder. In poco tempo organizza una serrata classica storia noir: uno scrittore fallito che cerca di piazzare qualche soggetto, alle calcagna due scagnozzi inviati dai creditori, il produttore cinico che non gli concede né credito né fiducia, la correttrice di bozze che sembra saper tutto e sputa sentenze, l’agente che lo scarica mentre gioca beatamente a golf… 


Qui siamo in piena Hollywood, intesa come luogo geografico e non della fantasia, uno scenario che abbiamo imparato a conoscere in decine di film che si muovono in questo ambiente alquanto cinicamente reale. Poi, il caso, una gomma bucata durante la fuga da un inseguimento degli scagnozzi di prima, e Joe finisce a casa di Norma, una villa decadente di una decadente diva del cinema muto. Ormai Wilder ci ha tranquillizzato con la breve e realistica storia dello sceneggiatore fallito e può quindi ora continuare con il suo film, quello macabro raccontato da un morto. E infatti Joe viene subito scambiato per l’addetto alle pompe funebri e, in seguito, assisterà al funerale, nel giardino della villa, dello scimpanzé che viveva con la diva. Siamo di nuovo in territorio surreale, con i topi che scorazzano nella piscina vuota, ma ormai Wilder ci ha preso per il collo, non ci sono più rischi di perdere lo spettatore; al massimo si potrà sentire spiazzato, a fronte delle stranezze di casa Desmond, ma sarà lo stesso spaesamento di Joe. 

E di stranezze ce ne sono tante, di cui molte concordi nel riesumare i tempi d’oro della diva che, dal punto di vista della donna, in verità, non sono mai passati. Lei stessa è un fantasma del passato, ma lo è anche il maggiordomo, Max, primo marito e regista dei suoi vecchi film, che oggi si occupa dell’amata scrivendole ogni giorno decine di false lettere dei fan, mentre la donna sta preparando un assurdo copione per il suo ritorno in grande stile sullo schermo. E poi ci sono gli amici del bridge, tra cui spicca Buster Keaton nel ruolo di sé stesso nell’efficace interpretazione di una sorta di mummia incartapecorita. Eccola, la grande Hollywood; e quando Norma scopre che Joe è uno sceneggiatore, subito lo accalappia, per farlo lavorare al suo copione. L’uomo, a fronte della generosa offerta dell’ancora ricchissima donna, accetta, e danna la sua anima. 
E’ questo il Viale del tramonto di cui parla il titolo del film, quello che imbocca Joe nel momento in cui prostituisce la sua arte, la sua creatività per mero denaro, finendo per alimentare e sorreggere il baraccone di bugie che, esattamente come il cinema di Hollywood, è la vita di Norma Desmond.

Il film è ricordato anche per la folgorante battuta della diva, appena incontra Joe, all’inizio del lungometraggio. “Io sono sempre grande. E’ in cinema che è diventato piccolo.”  Ma non è vero, e Wilder in prima persona lo sa, anche se si rende forse conto, o probabilmente più che altro ne ha il timore, che per lui sia già troppo tardi, e che sia sceso troppo in profondità nei patti con Hollywood. Betty (Nacy Olson), la ragazza acqua e sapone, la correttrice di bozze di cui si accennava prima, con la quale Joe scopre come sia possibile scrivere per il cinema e conservare la propria dignità, ci mostra la retta via della settima arte. E’ sempre una strada dei Paramont Studio, una strada finta, posticcia, ma che può essere teatro di storie vere, sentite, oneste, come quelle che lei e Joe scrivono a quattro mani.
Ma Joe, quando Betty gli offre di cambiare vita, lasciando la Desmond e i suoi fantasmi, non può accettare, perché sa che, anche se non resterà con Norma, ormai ha perso la sua innocenza.
Nella finzione filmica, Norma Desmond ha un ultimo sussulto quando spara a Joe, uccidendolo, per poi prendersi, supportata dal fedele Max, ancora una volta la scena. Lo spettacolo deve continuare, d’accordo, ma il fuoco di Wilder è altrove, l’immagine finale sulla diva infatti si sfoca.
Il finale tragico è infatti un altro: davvero è impossibile fare cinema a Hollywood, senza imboccare il Viale del tramonto?    








Gloria Swanson











Nancy Olson