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mercoledì 12 dicembre 2018

ROCKY

260_ROCKY ; Stati Uniti, 1976;  Regia di Jhon G. Avildsen.

Il primo capitolo della saga dedicata al pugile più famoso della storia del cinema non è un film che mette il mondo della boxe in primissimo piano. Certo, in Rocky di John G. Advildsen, il pugilato è il tramite, lo strumento, una sorta di media all’interno del media, se vogliamo; il cinema (il media esterno) attraverso l’ambientazione nel mondo della boxe (media interno) ci racconta una storia. Principalmente d’amore. Perché Rocky è in buona sostanza una storia sentimentale, nella quale l’aspetto sociale, il riscatto dell’individuo disagiato, la concretizzazione del sogno americano citato espressamente nel film, sono solo la prova d’amore che il protagonista Rocky Balboa (Sylvester Stallone, ovviamente) deve offrire all’amata Adriana (Talia Shire). Una parabola sociale è quindi presente, con il protagonista che dopo troppi anni di gavetta, in buona parte meritati, ha l’occasione della vita ma, per non perderla, è costretto, almeno in quell’occasione, a fare sul serio, a lavorare sodo. Ma si tratta appunto di un riscatto teso a conquistare l’amore, come è sottolineato dallo struggente finale del film. Non ci sono troppi riferimenti, nemmeno poco prima, quando ce ne sarebbe il tempo, per la cospicua borsa che andrà ad incassare il pugile; quello della ricchezza è un problema che non sembra interessare né Rocky, né il regista Advildsen e nemmeno Stallone, che la storia l’ha scritta e sceneggiata. E si tratta di una storia molto sentita, da parte dell’artista di origine italiana, visto che al protagonista riserba l’appellativo lo stallone italiano, facendo un ironico e un po’ volgare riferimento, ma finendo comunque per sovrapporre la sua figura personale a quella del personaggio del film.
In ogni caso non è quello sociale l’argomento che preme agli autori: Rocky è un bullo di periferia, ma in quella periferia degradata in fondo non se la passa troppo male. Per farlo si arrangia con un lavoro non certo regolare ne edificante: riscuote i crediti per un boss malavitoso. Ma è pur vero che si pone qualche scrupolo, non rompe il dito al debitore del boss, prova a fungere da educatore con la ragazzina del quartiere; si arrangia, insomma. I punti veramente dolenti sono quelli che efficacemente lo stesso Rocky definisce i vuoti presenti nella vita dell’uomo, e che Adriana potrebbe colmare.
Ma, e qui sta una delle parti più interessanti del film, solo la realizzazione completa, pulita, senza trucchi o scorciatoie, senza amicizie influenti (come quella del boss), può metterlo in condizione di dichiarare il suo amore per la donna amata. Se la degradata ambientazione sociale della storia è mostrata senza autoindulgenza ma anche senza retorica, in modo tutto sommato naturale, è nella storia sentimentale che regista ed interpreti indovinano la giusta delicatezza, una sobrietà che permette alla trama di percorrere apparentemente sottotraccia, ma in realtà essendone la spina dorsale, tutto il lungometraggio. Bravo Stallone ma soprattutto molto brava la Shire, nel ruolo di una donna timida e titubante ma che nasconde una personalità tutt’altro che insipida.
Chiaramente nel film si parla anche di pugilato. Dal punto di vista tecnico, alcuni passaggi sono interessanti, come il trucco della corda per tenere i piedi alla giusta distanza o la questione dell’essere mancino. In generale il mondo della boxe è ben rappresentato, con il campione del mondo Apollo Creed (Carl Weathers), il classico pugile di colore spaccone e sempre sopra le righe, o Mickey (Burgess Meredith), il secondo di Rocky, pieno di rancore per una vita che lo ha privato dell’occasione buona e ora speranzoso (ma in modo opportunistico) nel possibile riscatto del suo protetto. L’incontro in se è principalmente utile per mostrare, anche e soprattutto nell’attimo in cui ci si scopre a tifare per Rocky con gli occhi fuori dalle orbite, come la boxe porti alla luce la componente animalesca presente in ognuno, e non solo negli atleti; resta da capire se si tratti di una cosa positiva (in senso catartico) o negativa (normalizzando un comportamento violento). Certamente a livello spettacolare il match è entusiasmante e, se anche si discosta probabilmente da una possibile dinamica pugilistica, ottiene certamente lo scopo di infiammare la platea.
Curiosamente, il film ha la sua perfetta quadratura nell’essere unico, cioè con la storia che finisce con l’abbraccio tra Rocky e Adriana sul ring, dopo la fine dell’incontro. L’ultimo scambio di battute tra Apollo e Rocky è, infatti: “Non ci sarà la rivincita” dice il campione; “E chi la vuole” risponde lo sfidante. Quello che Rocky vuole è potersi dichiarare ad Adriana, non gli interessa più la boxe e nemmeno il denaro, in quel momento, l’unica cosa che conta è poter abbracciare l’amata. E questo è il finale perfetto di un film che lasciava sia la traccia sociale che quella sportiva in secondo piano rispetto a quella sentimentale. Il fatto curioso, a cui ci si riferiva prima, è che poi i produttori e lo stesso Stallone abbiano rinnegato questo aspetto per portare avanti la storia praticamente all’infinito, a quel punto sorreggendola più che altro sull’asse sportivo. Niente di male, la maggior parte dei sequel ha questa caratteristica, casomai in modo meno smaccatamente evidente che in questo caso. Per chiudere, non possiamo tralasciare un altro aspetto di grande potenza del film, ovvero la dirompente colonna sonora, opera di Bill Conti e divenuta leggendaria. Come del resto il protagonista del film. 



Talia Shire






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