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giovedì 29 novembre 2018

IL LUNGO ADDIO

248_IL LUNGO ADDIO (The Long Goodbye); Stati Uniti 1973; Regia di Robert Altman.

“Il vero mistero è dove sia finito il gatto”. Ovviamente Robert Altman, il regista dello splendido Il lungo addio stava scherzando. E ovviamente (coerentemente con sé stesso e la sua poetica) ci dava al contempo la chiave di lettura del suo film. O una delle, se vogliamo non rischiare di contraddirlo troppo. Comunque, torniamo al gatto, che è una buona traccia: all’inizio del film, Philip Marlowe (Elliott Gould) è svegliato in piena notte dal suo gatto, che ha fame. Non ha però in casa il cibo per gatti a cui l’animale è abituato e prova con qualcos’altro, ma il micio rifiuta; così esce in piena notte e si reca in un tipico market aperto 24 ore al giorno, ma compra il cibo di un’altra marca visto che non trova il prodotto giusto. Una volta a casa, prima di versare il cibo nella ciotola, siccome sospetta che il gatto venga scoraggiato dalla vista di una lattina diversa, ne prende una vuota del solito alimento e opera uno scambio per ingannare il felino: l’animale però si accorge del trucco e rifiuta anche questa proposta. In sostanza, Marlowe tradisce la fiducia dell’amico animale (non dandogli da mangiare il solito cibo) e cerca anche di imbrogliarlo (spacciando per il solito cibo uno diverso), confidando che sia la vista il senso cruciale; dopodiché il felino sparisce e nessuno lo vede più. Ovvero, la trama in sintesi de Il lungo addio: il tradimento di un amico e la sua conseguente scomparsa. 
Nel racconto, ispirato all’omonimo romanzo di Raymond Chandler, il tradimento è operato da Terry Lennox che inganna l’amico Marlowe e si defila in Messico, per poi sparire; nello specifico inscenando un suicidio per potersi godere una nuova vita con Eileen (una fulgida Nina Van Pallandt), la sua ricchissima amante. La trama, come da prassi per il genere hard boiled, è parecchio ingarbugliata: Terry era l’amante di Eileen, ma si diffonde la voce che fossero i rispettivi consorti ad avere la tresca. 
Roger Wade (Sterling Hayden, notevole) il marito della donna, è uno scrittore in crisi e ormai psicologicamente malato; di Sylvia, la moglie di Terry, si sa ben poco, se non che è bella e ricca e che viene assassinata. E i sospetti puntano su Terry, che è fuggito in Messico, aiutato da Marlowe, che viene così messo sotto torchio dalla polizia prima e ingaggiato da Eileen poi, finendo coinvolto nell’intrigo. Se nel genere noir dei tempi d’oro questi intrecci ripetuti servivano per comunicare l’idea di un mondo come un labirinto confuso e senza apparente via di uscita, Altman aggiorna il genere lasciandoli un po’ sullo sfondo e concentrandosi su un altro aspetto. 
A essere messo in discussione è l’importanza data al senso della vista, che forse si potrebbe interpretare in senso politico/sociale con una critica al culto dell’apparenza: d’altra parte il film è ambientato per lo più nella società ricca e ben più che benestante di Los Angeles e Malibu. In ogni caso, nel film si ripetono i tentativi di confondere la vista con la presenza di superfici riflesse: nell’interrogatorio della polizia attraverso il vetro a specchio; sulla vetrata di casa Wade in riva al mare durante il litigio tra Eileen e Roger, confuso dal riflesso di Marlowe, e ben più gravemente quando lo scrittore annega senza essere visto attraverso il vetro. Oppure anche tramite l’uso manipolato di immagini, come le fotografie probabilmente preparate dal coroner messicano sul presunto suicidio di Terry. 
E poi non dimentichiamoci che già Marlowe aveva tentato di imbrogliare il gatto cercando di rifilare al micio non il solito cibo per gatti. Tra l’altro, il tema degli animali è usato da Altman con la consueta ironia: se il rapporto tra Marlowe e il suo gatto, in parte è e in parte rispecchia (nel senso che si rovesciano le parti) quello tra l’uomo e il suo amico Terry (tradimento, sparizione), il doberman feroce ma in fin della fiera innocuo ricorda Roger, mentre in Messico, prima vediamo due cani che si accoppiano (Terry e Eileen) e poi un cane che si riposa pigramente (Terry). Ma questo tema per prima cosa ci dice che non dobbiamo fidarci unicamente dei nostri occhi, visto che col fiuto il gatto di Marlowe scopre l’inganno del suo padrone; il quale farà tesoro di questa lezione quando, ricevendo in dono dal compagno di letto d’ospedale un’armonica, simbolicamente si svincola dalla sua stretta dipendenza dall’organo visivo (tra l’altro è un investigatore, un occhio privato) cedendo, in cambio di una nuova propria identità, quella vcchia e legata all’apparenza. Infatti, all’infermiera che cerca il signor Marlowe, Philip indica il vicino di letto, quello tutto bendato come una mummia, anzi, come l’uomo invisibile, mentre ne approfitta per uscire dall’ospedale. A quel punto Marlowe smette così di essere invisibile: "Non sapevamo neanche avesse un gatto, Mr. Marlowe", gli aveva detto una delle simpatiche vicine, sovrapponendo l’indifferenza verso l’uomo a quella verso il suo piccolo animale, ribadendo la metafora. Ma è naturalmente la doppia scena con Eileen in auto e Marlowe a piedi, una sorta di scena specchiata tra gli Stati Uniti e il Messico, tra prima e dopo il dono dell’armonica, a rendere esplicita questa trasformazione nell’uomo. Prima della scena dell’ospedale, Marlowe sta camminando e vede Eileen in auto, la chiama, la insegue a lungo, ma lei non lo vede mai, non si accorge minimamente delle grida e della rincorsa dell’uomo. 
Uomo che a sua volta non si accorge di un’altra auto e finisce investito, e di lì all’ospedale. Quando, nel finale, la scena si ripete, in Messico, l’uomo cammina indifferente, e la donna lo guarda sorpresa con insistenza, stupendosi probabilmente di cosa ci faccia in quel luogo; fatto sta che lo vede e lo riconosce. Si tratta di una scena simile ma di fatto opposta alla precedente. Poi l’uomo suona un po’ l’armonica, la gente del posto sente la musica e una signora si mette a ballare con lui, per la strada. Ed è chiaro che è la musica, e quindi il senso dell'udito, a stabilire il contatto socievole tra i due. Ma prima di questo consolatorio finale, Marlowe aveva chiuso il conto al suo amico Terry, colpendolo a sangue freddo, facendolo finire nella piscina, rompendo finalmente lo specchio (d’acqua). E nella versione originale americana, all’amico, prima di ammazzarlo, quando questi gli dice ‘Tu non impari mai. Sei un perdente nato’, risponde amareggiato: ‘Si, ho perfino perso il mio gatto’.
Quello che credeva un amico.

Nina Van Pallandt






martedì 27 novembre 2018

VOGLIAMO I COLONNELLI

247_VOGLIAMO I COLONNELLI   Italia 1973; Regia di Mario Monicelli.

La situazione politica italiana degli anni settanta era (già) tanto surreale che ad un esperto della commedia come Mario Monicelli (Guardie e ladri e I soliti ignoti, giusto per fare due titoli) serviva davvero poca fatica per imbastire una satira tanto calzante alla realtà dello stivale come Vogliamo i colonnelli. Ovviamente i protagonisti, a partire da Ugo Tognazzi nella parte dell’onorevole Tritoni, sono tutti personaggi sopra le righe, ma il fatto sconfortante è che sono fin troppo corrispondenti ai personaggi reali del tempo (e non): una considerazione che poté (e può) fare ognuno nella vita di tutti i giorni, vivendo la propria realtà nel paese. Per quanto, guardando il film oggi, si possono prendere le figure politiche dell’epoca per verificarne la similitudine con i vari individui della storia di Monicelli. Un esempio lampante è il riferimento, nella figura del capo di stato, al Presidente della Repubblica Antonio Segni, ma anche come Mazzante, nel film leader della Grande Destra, ricordi il politico Giorgio Almirante del Movimento Sociale Italiano Destra Nazionale, e così via in una serie di analogie in cui è difficile scorgere quanto ci sia di effettiva satira e quanto di reale e sconsolante scarso senso della realtà (ad essere gentili) dei nostri politici. A livello strettamente cinematografico, purtroppo (ma giustamente), Monicelli vuole, in un certo senso, mettere in guardia i suoi concittadini, come è lecito attendersi da un’opera satirica: soltanto che, in questo modo, (e qui sta il purtroppo, che ha addirittura un doppio significato) il tracciato del suo film risulta quasi scontato (e in questo va riconosciuta l’onestà dell’autore) con la situazione tragicomica del paese che nel film è destinata inevitabilmente a peggiorare. Finale sconsolante ma narrativamente senza alternative; il che finisce per annoiare un poco la visione del film. E questo sarebbe, dei due significati attribuibili al citato purtroppo, quello meno grave.
L’altro è che la satira di Monicelli è, per assurdo, un quadro poco satirico e fin troppo realistico.



      

domenica 25 novembre 2018

MARK IL POLIZIOTTO

246_MARK IL POLIZIOTTO   Italia 1975; Regia di Stelvio Massi.

Nel 1975 Stelvio Massi era un discreto direttore della fotografia appena approdato alla regia e, con Mark il poliziotto, suo quarto lungometraggio, centra il bersaglio grosso al botteghino con un prodotto nel complesso apprezzabile. Il film è un poliziottesco neppure troppo diverso dal consueto, giocato sui contrasti tra il protagonista, il commissario Terzi (Franco Gasparri), un tipo che va per le spicce, e i suoi superiori (tra cui il questore, interpretato addirittura da Giorgio Albertazzi) che lo invitano a rimanere nei limiti consentiti dalla legge. Il cattivo è, sempre come da prassi, un personaggio dall’apparenza rispettabile (l’avvocato Benzi, nientemeno che Lee J. Cobb) e da sottolineare anche la presenza di un formidabile caratterista come Giampiero Albertini nei panni del brigadiere Bonetti. Per completare il discorso su un cast per niente disprezzabile, se Sara Sperati (è Irene, la ragazza drogata che Terzi aiuta) non lascia particolari emozioni, più interessante, sebbene per un ruolo certamente minore, è la figura di Gruber, lo scagnozzo criminale di turno, interpretato con una sua efficacia dall’ex pugile italo argentino, campione italiano ed europeo, Juan Carlos Duran. E va detto che proprio nella scelta del cast c’è probabilmente l’intuizione che permise a Massi di ottenere un sorprendente successo di pubblico con il suo Mark il poliziotto. In particolare fu indovinata l’idea di puntare su Franco Gasparri, divo dei fotoromanzi e famosissimo presso le ragazze italiane. Il poliziottesco, più ancora del poliziesco, era un filone prettamente maschile, anche perché nella corrente italiana del genere la violenza era portata all’eccesso, sia nel linguaggio che nelle scene di azione.
La presenza di Gasparri finì quindi per allargare la platea del pubblico interessato al film all’altra metà del cielo, sebbene poi, nel rispetto degli stilemi della corrente cinematografica del poliziesco all’italiana, la trama rosa o sentimentale, non è sviluppata. Ci sono però alcune attenzioni che Massi probabilmente opera: il linguaggio nei dialoghi meno violento e scurrile, o l’attenzione per il problema della droga (comune anche alle giovani) rendono Mark il poliziotto un prodotto un po’ defilato, meno crudo, rispetto ad altri tipici esempi di poliziesco di casa nostra.
Alcune scene, come quella finale, sembrano poi omaggiare la carriera dell’attore protagonista, che si produce in alcune pose che sarebbero ideali in un ipotetico fotoromanzo poliziesco. Unica nota veramente dolente, la morte del brigadiere Bonetti: il mitico Giampiero Albertini, tolto di mezzo troppo presto, è un delitto che non si può accettare. Nemmeno in un poliziottesco.   



Sara Sperati




venerdì 23 novembre 2018

GILDA

245_GILDA   Stati Uniti 1946;  Regia di Charles Vidor.

Ci sono film che indiscutibilmente costituiscono importanti capitoli della Storia del Cinema: Gilda è sicuramente uno di questi, e la protagonista della pellicola, l’atomica Rita Hayworth, il principale motivo che pone l’opera di Charles Vidor in tale evidenza. La scena, nel finale, in cui canta (doppiata da Anita Ellis) e soprattutto balla, Put the blame on Mame improvvisando un mini spogliarello levandosi i lunghissimi guanti, è un momento di grandissimo cinema, tutto sommato semplice ma di grandissima efficacia scenica. E, volendo, anche con un significato ben più profondo rispetto a quanto si possa intendere a prima vista. Certo, la carica erotica della Hayworth è esplosiva: d'altronde la chiamavano atomica perché era una vera e propria sex-bomb; questo è facilmente intuibile e si capisce già fin dallo strepitoso manifesto americano. Ma la scena nel finale, con lo scarno strip-tease, in fondo si tratta solo dei guanti, infiamma il pubblico in un modo sproporzionato e ci mette bene in evidenza, in modo quanto mai credibile, come la figura femminile, intesa come oggetto del desiderio, sia manipolabile dallo star system. In questo senso Gilda potrebbe anche essere interpretato come un testo metalinguistico, visto che non solo la canzone Put the blame on Mame parla proprio di questo, ma tutto il film verte sul problema che una donna tanto desiderabile come la Gilda interpretata dalla Hayworth, crea nel protagonista maschile Johnny Farrell (Glenn Ford, ovviamente). Se ne può dedurre che il sentimento ardente di desiderio che la donna instilla nell’uomo è quindi superiore, in un certo senso, alle intenzioni della stessa e, sempre osservando la questione in modo un po’ astratto, anche alle sue responsabilità. 
Certo, è evidente che Gilda sfrutta le occasioni (lo dice apertamente, facendo un paragone con il Carnevale) che il suo aspetto le procura, ma che colpa le si può imputare se gli uomini del club impazziscono quando si leva un semplice guanto? E tutto quanto Gilda, inteso come film, è la storia di un uomo (Farrell) incapace di gestire il folle desiderio che prova per una donna bellissima; donna bellissima si, ma che rimane donna e non dea (come vorrebbe intendere anche zio Pio quando le offre il liquore: vuole un po’ di questa ambrosia, degna in tutto e per tutto di una dea? e che infatti la ragazza rifiuta), umana e perciò con debolezze ed errori da commettere legittimamente. La forza del desiderio, in questo caso è sviscerato quello maschile in ambito sessuale, è perciò un’arma a doppio taglio: è il motore che muove quasi ogni cosa, ma può anche far deragliare. O venire sfruttato in modo speculativo, e quest’ultimo aspetto può appunto essere inteso come una sorta di matrice metalinguistica dell’opera: 
perché il film approfitta esplicitamente della figura di Gilda per alimentare il proprio consenso, ma al tempo stesso mostra come in seguito ci sia, da parte dell’uomo, difficoltà ad accettare quel ruolo della donna. Come accade, in sostanza, sia a Farrell che a Ballin Mundson (George Macready), i quali scelgono Gilda per il suo aspetto, ma le rinfacciano il suo piacere a tutti quanti, come fosse una colpa. Probabilmente il regista Charles Vidor, se il parallelo tra il pubblico del suo film e quello sullo schermo nell’ultima canzone interpretata dalla Hayworth sembra evidente, aveva la speranza che poi gli stessi spettatori seguissero Farrell nel conciliante lieto fine: cercando cioè, di non riflettere i propri sensi di colpa sull’oggetto del desiderio, in questo caso Gilda. 
Seppur l’operazione, vista oggi, è decisamente lodevole, al tempo non tenne forse conto dell’enorme potere amplificante del cinema, che moltiplicò la potenza del desiderio, e proiettò Rita Hayworth nel mito, assurgendo proprio al ruolo di diva, (ovvero proprio quello di dea che aveva esplicitamente rifiutato nel film) e l’attrice, dopo Gilda, rimarrà ingabbiata in un ruolo per lei perfetto ma alla lunga anche limitante. Al netto di tutto questo, Gilda è un glaciale noir infiammato dalla traccia melodrammatica, che mette al centro del classico triangolo la figura della Hayworth. La quale è spettacolare nel ruolo di femme fatale ma, e qui ritorna il tema metalinguistico, appare quasi recitarne in modo ostentato il ruolo, quasi si trattasse di una sorta di gioco. Non è quindi una dark lady canonica, Gilda: sembra già qui subirne un po’ il ruolo, come poi ammetterà, nel corso della carriera, anche la stessa Hayworth. 
E questo sembra essere anche l’intento maggiore di Vidor, nella messa in scena del suo film, che infatti appare un po’ artificioso, nei dialoghi che spesso nascondono sottotemi, anche dovuti alla trama, o nei comportamenti, spesso estremi, basti quello di Farrell che per troppo tempo continua a confondere il risentimento con l’odio. Inoltre, il tipico espediente noir della voce narrante alimenta forse eccessivamente lo sfasamento: in questo caso, di fronte alla storia narrata, la voce ci pone nel punto di vista di Farrell, ma l’assurdità del comportamento dello stesso uomo finisce per metterci a disagio, in quanto è evidente che il centro della vicenda, e anche il punto di vista condivisibile, è quello di Gilda. Questi aspetti, probabilmente ricercati dal regista proprio per imprimere all’opera una matrice astratta con cui bilanciare la forte carica sensuale della protagonista, possono rendere la fruizione meno scorrevole, ma nel complesso Gilda è un film godibile anche dal punto strettamente narrativo.
Sebbene, è inutile girarci intorno, il suo punto di forza travolgente siano le interpretazioni dell’atomica di Amado mio e soprattutto di Put the blame on Mame.
Dopo la quale, si poteva anche chiudere con il cinema.

Rita Hayworth












mercoledì 21 novembre 2018

LE SCHIAVE DI CARTAGINE

244_LE SCHIAVE DI CARTAGINE Italia, Messico, Spagna 1956;  Regia di Guido Brignone.

Classico peplum adatto al circuito parrocchiale del tempo per via del messaggio cristiano, Le schiave di Cartagine di Guido Brignone merita di essere ricordato per la fulgida interpretazione di una bellissima Gianna Maria Canale. La ventinovenne Miss Calabria 1947 è all’apice della forma, non solo fisica, e il suo fascino domina la scena relegando tutti gli altri interpreti a ruoli di contorno. Nonostante questo suo stato di particolare grazia, il copione le affida la parte della perfida Giulia Marzia, figlia del proconsole romano di Tarso, in Cilicia; innamorata, ma non corrisposta, del tribuno Marco Valerio (Jorge Mistral), un semplice ufficiale militare. Per la verità il ruolo di cattiva le si addice e nella splendente malvagità risulta sullo schermo particolarmente affascinante: non si spiega, però, lo scarso risultato ottenuto poi nella vicenda. E per la donna la questione si complica quando Marco Valerio si innamora di Lea, una schiava cristiana di proprietà proprio di Giulia Marzia, mentre Publio Cornelio (il bravo Luigi Pavese, l’unico a reggere la scena oltre alla Canale) trama in Senato per conquistare il potere. Questi induce lo smidollato Flavio Metello (Ruben Rojo) ad uccidere il proconsole (padre di Giulia Marzia), facendo ricadere la colpa sui cristiani: in questo modo la rottura tra Giulia Marzia e Marco Valerio diverrà insanabile, aprendo uno spiraglio allo stesso Flavio Metello nelle grazie della donna e al titolo di proconsole, assecondando appunto i piani dell’infido Publio Cornelio. Trame ingarbugliata, d'accordo, ma tanto poi il tutto andrà a gambe all’aria come da prevedibile copione; non prima di aver assistito alcuni cristiani, indomiti nella loro fede, sopportare il martirio. 
Ma, seppur potenzialmente interessante, non è certo quello della fede un tema approfondito da quello che rimane un film di avventura con venature sentimentali, come già detto memorabile solo per la presenza di una sontuosa Gianna Maria Canale. E, occorre ribadirlo, se sorprende veder recitare un ruolo negativo in cui il suo innegabile fascino non trova il riscontro sperato, non rimedia neppure riscatto nella banale e truculenta morte che il copione le riserva. Misteri del cinema italiano.  


Marisa Allasio




Gianna Maria Canale







lunedì 19 novembre 2018

BLACK SUNDAY

243_BLACK SUNDAY Stati Uniti 1977; Regia di John Frankenheimer.

Tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Harris, Black Sunday è un thriller mozzafiato girato con mano sicura da John Frankenheimer. Il regista vanta già un curriculum di tutto rispetto per quel che concerne i film di azione e, forte della sua esperienza, si prende, come location per la scena culminante di questo suo ennesimo esempio di cinema adrenalinico, un gremito stadio del Super Bowl americano, l’evento sportivo più seguito degli Stati Uniti. Il racconto di Harris si innesta sulla situazione geopolitica degli anni settanta, con la questione palestinese e i gruppi terroristici come Settembre Nero intenti a sconvolgere (a suon di morti) l’opinione pubblica mondiale per ottenere il riconoscimento delle loro ragioni. Frankenheimer non sembra troppo interessato a queste implicazioni: è vero che il maggiore israeliano Kabakov (un granitico Robert Shaw), ossia il protagonista, ad un certo punto confessa di avere qualche dubbio, ma poi la trama lo costringe a badare al sodo. In effetti, e per sua stessa ammissione, se Kabakov avesse eliminato, quando ne aveva avuto l’occasione, Dahlia Iyad (Marthe Keller), la mente che si nascondeva dietro al tentativo di fare una strage nello stadio di Miami, tutto quanto il castello narrativo sarebbe venuto meno. Ma, al di la delle questioni legate prettamente allo sviluppo della storia, la cosa comporta altre implicazioni, magari nemmeno prese in considerazione dall’autore. Infatti, Kabarov, in principio si confessa incerto sulla scelta politica israeliana di tolleranza zero nei confronti dei palestinesi; in virtù di questo, e di una certa dose di cavalleria vecchio stampo per cui uccidere una donna è poco elegante, l’ufficiale del Servizio Segreto israeliano risparmia Dahlia quando potrebbe freddarla senza problemi. 

Ma questo slancio, che in un modo o nell’altro potremmo definire umanitario, viene poi smentito nel finale, quando Kabakov è ben contento di rimediare al precedente errore e spedisce all’altro mondo la donna. Insomma, è come dire che tutto quanto il film dimostri come non si debbano avere dubbi o tentennamenti ma occorra ancora usare il pugno di ferro per risolvere i problemi. Il che è un peccato, perché l’esplosiva situazione mondiale, ben mostrata dal film, è stata appunto ottenuta per carenza di diplomazia nelle sedi e nei momenti opportuni (carenza che si somma a quella di giustizia, se mai può essercene a questo mondo). A parte questo risvolto dell’opera, forse anche involontario, Black Sunday è un buonissimo action movie, con un finale al cardiopalma in cui Robert Shaw è un credibile uomo tutto d’un pezzo e Bruce Dern è il suo rivale, un ex militare americano e folle alleato di Dahlia nella messa in atto del piano terroristico. Impressionanti le scene finali col dirigibile carico di esplosivo (e di dardi d’acciaio) che volteggia pericolosamente sopra lo stadio; Kabakov gioca il tutto per tutto dimostrandosi un degno collega di James Bond. Ovviamente la cosa si risolve, se non per il meglio, almeno senza la temuta strage: del resto, il film di azione, dopo le fasi concitate e pericolose di rito, è tipicamente rassicurante.






Marthe Keller