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sabato 31 dicembre 2022

ENIGMA FRANJU_6: MONSIEUR ET MADAME CURIE

1192_MONSIEUR ET MADAME CURIE Francia 1952; Regia di Georges Franju.

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Sempre nel 1952 il bretone gira Monsieur et Madame Curie, un’altra biografia dedicata a personaggi illustri francesi. Il documentario sulla coppia di scienziati è di soli 16 minuti e anche in questo caso è una ricostruzione di alcuni momenti, quelli più salienti, della vita dei Curie, in sostanza una sorta di film biografico. Ad interpretare Marie Curie è chiamata Nicole Stephane mentre nel ruolo del marito Pierre troviamo Lucien Hubert e lo apprendiamo naturalmente dai titoli di testa dai quali possiamo notare già una sorta di anomalia tipica di Franju. Innanzitutto va sottolineato che, poco galantemente, il cortometraggio si intitola Monsieur et Madame Curie con la precedenza data a Pierre e la sua signora in seconda battuta. Del resto sarà Monsieur Curie a ricevere i riconoscimenti ufficiali unitamente all’elogio della stessa Marie, che ribadisce nel finale l’elevata statura scientifica ed umana del consorte. Il testo che la voce narrante recita è infatti tratto dalla biografia Pierre Curie scritta appunto dalla consorte. Franju, quindi, si premura di mettere Pierre apparentemente in piena luce, come è lecito attendersi in una società patriarcale; il fatto che la voce fuori campo reciti parole della moglie, potrebbe essere anche una scelta per ribadire l’importanza dell’uomo, elogiato dalla sua stessa compagna. I titoli di testa ci mettono però subito un dubbio: se il film è intitolato comunque alla coppia, perché la prima schermata vede il nome della sola Marie mentre Pierre è relegato alla successiva insieme al professor Becquerel (interpretato da Lucien Bargeon) che nel film ha uno spazio esiguo? La risposta è nel proseguo del corto, incentrato assai prevalentemente sull’attività della sola Marie. 

Ad un certo punto si sottolinea anche lo sforzo fisico del trasporto del materiale da analizzare, svolto dalla sola donna, mentre il consorte si limita a quello che sembra un lavoro di supervisione. In sostanza, guardando il film di Franju, è chiaro che i meriti di Marie siano nettamente superiori a quelli di Pierre che, in compenso, si prende maggiormente le luci della ribalta. Il regista bretone non è però mai banale e la figura di Marie che tratteggia il suo cortometraggio non ha niente di quelle tendenze femministe che forse in Francia, all’alba degli anni Cinquanta, potevano già circolare. La sua Marie Curie è una bella signora, molto femminile e convenzionale nel suo atteggiarsi a donna di casa anche se, in luogo dei mestieri da casalinga, si adopera in esperimenti scientifici che cambieranno la Storia dell’umanità. La stessa dedizione al marito, peraltro fondata sulle parole del libro scritto dalla stessa donna, ribadisce che il ruolo di Marie è quello tradizionale della moglie nella classica famiglia francese del XIX secolo, non poi così diversa dai tempi di Franju, per la verità. Quello che preme al regista è ribadire che, al netto del ruolo ufficiale e delle convenzioni, una donna può tranquillamente essere migliore, da un punto di vista delle capacità specifiche, di un uomo e non ci si dovrebbe sorprendere più di tanto. Insomma, la solita capacità di Franju, forse la sua poetica più autentica, di cogliere l’essenza delle cose e lasciar perdere gli strali eccessivi e le polemiche pretestuose. 
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Nicole Stephane

venerdì 30 dicembre 2022

ENIGMA FRANJU_5: LE GRAND MÉLIÈS

1191_LE GRAND MÉLIÈS Francia 1952; Regia di Georges Franju.

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Il successivo cortometraggio del regista bretone è Le grand Méliès, un tributo al geniale pioniere della Settima Arte. Nel 1952 George Méliès era già morto ma Franju decide di impostare il suo documentario con alcune scene con il cineasta ancora in vita. Viene così ingaggiato André Méliès che, a parte una piccola scena nel suo effettivo ruolo, nel cortometraggio interpreta il proprio padre. Insieme al figlio anche la signora Méliès, Jehanne d’Alcy, è chiamata per questa celebrazione alla quale va aggiunta anche la voce fuori campo femminile sempre prelevata dall’alveo famigliare dello storico regista. Già da questi brevi cenni è evidente che stavolta l’idea di documentario è diversa, rispetto alle precedenti, in quanto le parti ricostruite rendono Le grand Méliès assimilabile ad un film di finzione di genere biografico. Franju aveva già peraltro dimostrato di avere il senso del ritmo narrativo, riuscendo a rendere appassionanti anche documentari ambientati in un impianto siderurgico o in un macello e in questo caso si trova altrettanto a suo agio potendo scegliere i tempi del racconto a suo piacimento. Nel film fa la sua comparsa anche Lumière, che rifiuta tenacemente di vendere la sua invenzione a Méliès: è interessante notare come nella contrapposizione di questi due geni del cinema pionieristico francese ci siano altre tracce per svelare, o almeno provare, l’enigma Franju. In genere, il cinema dei fratelli Lumiére era considerato naturalista, realistico, mentre quello di Méliès era evidentemente pura fantasia, basti l’immagine simbolo de Viaggio nella Luna (1902), con il missile che acceca in un occhio il nostro satellite per capirsi. La Ince, nel suo già citato Georges Franju (pag. 118) fa notare come anche i film di Auguste e Louis Lumiére erano spesso di carattere teatrale e fittizio, ma certamente in modo meno smaccato rispetto a Méliès. Potremmo dire che la scelta di Franju per il corto Le grand Méliès ricorda un po’ lo stile dei fratelli Lumiére, con una ricostruzione fittizia atta a riproporre la realtà storica, almeno come la intendeva il regista. Ed è un fatto curioso, visto che Franju ammetteva di amare Méliès che, come da titolo del corto, era grande, forse addirittura il più grande; anche se poi specificava: “Méliès sogna per me. I Lumiére mi fanno sognare”. (Kate Ince, Georges Franju, pag. 118). Ancora una volta Franju riesce a rimanere in equilibrio, ammettendo la sua passione per Méliès ma, allo stesso tempo, riconoscendo una superiorità nella scelta poetica dei Lumière. Al punto da omaggiare la grandezza del primo con un cortometraggio nello stile dei secondi: la capacità di far quadrare il cerchio di Franju non ha praticamente eguali. 
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giovedì 29 dicembre 2022

ENIGMA FRANJU_4: HÔTEL DES INVALIDES

1190_HÔTEL DES INVALIDES Francia 1951; Regia di Georges Franju.

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Il successivo cortometraggio è prodotto ancora dalla Forces et voix de la France come i due precedenti a cui si affianca per l’occasione il Ministero degli Affari Esteri. L’idea è un documentario culturale in linea con En Passant par la Lorraine ma il soggetto Franju lo sceglie un po’ casualmente guardando fuori dalla finestra dell’ufficio di Henri Cludel, responsabile del progetto presso il Ministero. Quando Henri capisce che il cortometraggio sarà dedicato all’Hôtel des Invalides, ricordando Le Sang des Bêtes, tradisce la sua preoccupazione: “Ah! Già ti vedo arrivare coi tuoi moncherini!”. Franju però assicura: il film sarà pacifista ma non ci saranno scene scabrose o traumatizzanti, né tantomeno critiche alla politica dell’allora governo in carica (Kate Ince, Georges Franju pag. 28). Nella pellicola le intenzioni del regista sono chiarite sin da subito: una didascalia ci informa infatti che l’oggetto del documentario è l’annesso museo in quanto le questioni riferite agli invalidi di guerra sono troppo delicate per essere affrontate in un unico cortometraggio. Una volta tranquillizzato i committenti istituzionali e toltosi il peso morale di spettacolarizzare la sofferenza altrui, Franju può cominciare il suo film. L’inizio è abbastanza convenzionale, con alcune scene che illustrano l’architettura dell’imponente edificio; poi, con la scusa che sui tetti dell’Hôtel des Invalides sono presenti semplici piccionaie, Franju si – e ci – distrae inseguendo uno stormo di uccelli che volteggia con grazia sotto il cielo nuvoloso. Ma questa lieve divagazione non fa che mettere in risalto la mole dell’edificio incombente e completamente in ombra a cui va aggiunta anche la presenza degli alberi spogli, per una sensazione generale non particolarmente rassicurante. 

Il regista torna quindi ad illustrare le decorazioni dell’edificio; una panoramica su una Parigi, con tanto di Torre Eiffel, scura come la pece non migliora l’umore del
corto. Prima di virare sui surrealistici giochi figurativi con le decorazioni grottesche dei cannoni e delle armi in generale, c’è il tempo per una veloce inquadratura su un invalido di guerra: Franju non vuole metterli al centro del suo film ma non può mica fare finta che non ci siano. Intanto una giovane coppia si diverte e la scena è messa in contrapposizione con le immagini di uno scoppio di una bomba atomica: considerato i rischi che si è deciso di correre, con l’escalation nucleare, c’è poco da ridere, ci informa il regista tramite il commento fuori campo e, in questo senso, impossibile dargli torto. 

Le armature medioevali danno modo a Franju di scatenare la sua fantasia surrealista, condita da una sorta di gag umoristica che smentisce lo stesso testo nel passaggio di poco precedente, dove appunto si rifletteva sul fatto che non fosse il caso scherzare. Ecco un tipico assaggio della poetica contradditoria dell’autore francese, in questo caso sarebbe interessante capire quanto consapevole. Le ombre dei visitatori agevolano il lavoro evocativo di Franju che ripercorre la Storia di Francia attraverso il museo, c’è Napoleone e le sue battaglie, le sue reliquie, poi si arriva alla Grande Guerra. Un dipinto rappresenta un’improvvisata orchestra in una trincea: la musica di Maurice Jarre tace; appena la ripresa stacca sull’intenso primo piano di un soldato francese, con labbra serrate a significare la muta determinazione contro il nemico tedesco, il commento sonoro attacca, quasi rovesciando le aspettative in quanto il silenzio in questo caso sarebbe sembrato più opportuno. Ma non c’è tempo per stupirsi in quanto la ripresa intorno alla testa in bronzo del generale Mangin ci ricorda che siamo
Hôtel des Invalides: infatti la riproduzione del capo dell’ufficiale è pesantemente ammaccata. Molto più bella la testa della ragazza che ricompare e si specchia per un attimo in un telescopio da trincea: ma ecco che arrivano, non si sa bene come, immagini della Prima Guerra Mondiale a cui segue un rendiconto sulle perdite umane del conflitto. Ma è tempo per Franju di arrivare al dunque, portandoci nella cappella Saint Louis des Invalides dove gli invalidi di guerra assistono alla funzione: vestiti nelle loro alte uniformi i soldati mostrano impietosamente gli effetti subiti durante le battaglie. Franju raggiunge il suo scopo non filmando i mutilati nei loro momenti di maggior difficoltà ma piuttosto quando questi sono vestiti a festa: come al suo solito, il bretone coglie l’obiettivo arrivando dalla strada meno attesa. Nel frattempo, il cielo su Parigi non è per niente migliorato: lo stormo di uccelli si libra di nuovo in volo. Difficile dire se il loro volteggiare sia un saluto benaugurante o se piuttosto ci lasci un filo di inquietudine. Forse tutte due le cose, del resto Hôtel des Invalides è un film di Georges Franju.
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mercoledì 28 dicembre 2022

ENIGMA FRANJU_3: EN PASSANT PAR LA LORRAINE

1189_EN PASSANT PAR LA LORRAINE Francia 1950; Regia di Georges Franju.

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Il cortometraggio Le sang des betes ha una certa eco, e non è difficile immaginare il perché, visto la forza sconvolgente delle immagini. Per fortuna di Franju Le Sang des Bêtes è particolarmente apprezzato dal versatile artista Jean Cocteau che ne scrive una recensione positiva: per il regista bretone si aprono nuove possibilità la prima delle quali è un documentario sulla Lorena. Visto l’esiguo tempo a disposizione e considerata l’importanza storica della regione in questione, sottolineata sin dal font scelto per le scritte nei credits di testa, Franju intitola il suo film En passant per la Lorraine, a ribadire lo sguardo di sfuggita che è nelle possibilità di un corto. La precedenza è giustamente data alla tradizione e all’aspetto storico con le statue dei vari personaggi locali, tra cui Giovanna D’Arco, e poi un salto nella città di Nancy e a seguire le anonime pianure sotto cieli perennemente imbronciati, caratteristica dell’intero cortometraggio, famose per essere i luoghi di celebri battaglie, valga per tutti la piana di Verdun. Poi la cattedrale di Metz e le celebrazioni popolari per il 14 luglio, festa nazionale francese: con le immagini di ragazze coi vestiti che la voce narrante ci informa essere colorati – il film è in bianco e nero – tra un ballo e l’altro c’è un fermo immagine di un ragazzino elegantemente vestito. Pare sia un sopravvissuto alla strage di Oradour-sur-Glane, dove i nazisti uccisero 643 civili inermi nel 1944: al solito, Franju, inserisce almeno un elemento contrastante, in questo caso un rimando al terribile evento in un contesto di segno opposto, come appunto la festa nazionale. Oltretutto con una scelta tecnica forte come l’arresto del flusso delle immagini, in contraddizione con quello che ci si aspetta da una visione neutrale che dovrebbe avere un documentario. 

Le immagini della festa riprendono e poi le succedono i paesaggi rurali della Lorena; ad un certo punto, un traliccio in ferro di una linea elettrica compare come elemento stonato sulla scena bucolica. E’ l’anticipo al piatto forte del documentario: l’attività mineraria e siderurgica della Lorena. Qui Franju si supera, accompagnandoci in un viaggio fin dentro le miniere, le acciaierie e le fonderie con una serie di inquadrature tanto divulgative quanto tecnicamente valide da poter essere definite senza timore perfino artistiche. Siamo nell’immediato dopoguerra e miniere e impianti siderurgici non sono certo il luogo ideale da portare come esempio di sicurezza sul lavoro eppure il regista francese riesce a cogliere tanto la maestosità dell’attività quanto i rischi connessi, senza scadere nella retorica né di protesta né tantomeno celebrativa. 

E’ un film su commissione, giova ricordarlo, e l’idea delle istituzioni è alimentare il sentimento patriottico e la fiducia nel paese; Franju svolge questo compito con estremo equilibrio, appassionandosi agli aspetti tecnici del lavoro e mantenendo un profilo discreto, come si conviene ad un documentario. Ma, come detto, la sagacia dell’autore bretone è sempre in agguato: ‘la moderna miniera di Faulquemont’, recita ad un certo punto la voce narrante, mentre le immagini mostrano un edificio industriale moderno e dalle linee semplici e pulite. Mentre veniamo informati che l’impianto è anche ‘silenzioso come un ospedale’ Franju concentra il suo obiettivo sull’altissima ciminiera: nella sinistra assenza di commento sonoro un fumo nero sembra scendere, grazie alla prospettiva della macchina da presa, subdolamente lungo la colonna di cemento, quasi di soppiatto. A questo punto l’essere silenzioso che era stato presentato come un pregio dell’impianto, diventa quasi un elemento ingannevole e inquietante. Il fumo è nero e denso, e su questo non ci possono essere fraintendimenti. Il viaggio all’interno della siderurgia, tra il carbone coke e i lingotti di acciaio fuso, prosegue ed è la parte più consistente del documentario, oltre che la più interessante. Poi, prima di chiudere, Franju ripresenta gli scenari con cui ha aperto: la campagna, le bellezze architettoniche e infine la festa paesana: pochi minuti, giusto come all’inizio, quasi a simboleggiare che l’industria pesante abbia fatto incursione nella vita della Lorena e si sia piazzata in posizione centrale e dominante, relegando natura, storia e tradizione ai margini. Come si è ormai capito, Franju arriva sempre dove deve arrivare anche quando apparentemente si contiene.
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martedì 27 dicembre 2022

ENIGMA FRANJU_2: LE SANG DES BÊTES

1188_LE SANG DES BÊTESFrancia 1948; Regia di Georges Franju.

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Il 1948 segna così il ritorno dietro alla macchina da presa di Franju, stavolta da solo, e il  documentario risultato di questo suo secondo esordio è sconvolgente: Le Sang des Bêtes è un pugno allo stomaco in grado di mettere KO lo spettatore più scafato ancora oggi, dopo oltre settant’anni. Franju ci accompagna nei macelli alla periferia di Parigi, mostrandoci in modo quanto mai realistico come i poveri animali vengano uccisi. Le scene sono strazianti e, dato che il documentario è di soli 22 minuti, ben difficilmente si ha il tempo di superare lo choc dell’uccisione, quasi in apertura, del cavallo bianco che stramazza al suolo dopo essere stato colpito alla testa dall’apposito strumento. Tra le scene a cui non sarà più possibile sfuggire vanno segnalate la decapitazione dei vitelli, con gli occhi terrorizzati degli animali, l’agitarsi delle zampe delle pecore e il feto ritrovato tra le interiora di una vacca. Franju filma con apparente distacco, avendo cura di mostrarci anche l’abilità dei macellai che lavorano sodo in condizioni difficili e alle prese con un’attività certo pericolosa. E c’è del rispetto, profondo rispetto, del regista per questi lavoratori, nonostante il risultato della loro opera ci metta a dir poco a disagio. Ed è in questo equilibrio, nella capacità di mostrare senza enfasi né retorica l’inaccettabile attività dei macelli a danno degli animali e il contemporaneo sguardo solidale con questi umili lavoratori, si può scorgere fin da questo suo precoce lavoro la vera poetica di Franju. Lo stile compassato, documentaristico – d'altronde il corto in questione è un documentario – forse sottintende qualcosa; anche l’ironia, che si fa esplicita quando viene presentata l’edifico della casa d’aste del macellaio – che potrebbe essere scambiata per la cappella a San Giovanni Battista, patrono dei macellai – sembra utilizzata quasi a fingere che non si stia mostrando nulla di particolare

"È la cattiva combinazione, è la sintesi sbagliata, costantemente fatta dall'occhio mentre si guarda intorno, che ci impedisce di vedere tutto come strano"
sosteneva il regista francese stigmatizzando la borghesia dello sguardo a cui ci siamo assuefatti. La carne arriva sulle nostre tavole, oggi come allora, e non dovremmo essere poi così stupiti se ci capita di vedere come inizia questo processo. Il trauma che subiamo nel vedere Le Sang des Bêtes dovrebbe essere quello di tutti i giorni, visto che queste scene avvengono, tra l’approvazione generale, quotidianamente. Questo non succede per via della citata sintesi sbagliata – che più che l’occhio fa il nostro cervello, interpretando in modo estremamente efficiente il credo borghese del quieto vivere – e ci illude il nostro sia un mondo migliore, frutto del progresso e dell’emancipazione della moderna società. 

Una realtà da sogno che, in effetti, non esiste ma che noi percepiamo costantemente come nostra e che per interpretare la quale Franju ricorrerà agli stilemi del surrealismo, successivamente con esempi più clamorosi ed espliciti ma già presenti fin da questo suo cortometraggio. Il che potrebbe essere difficile da accettare, essendo Le Sang des Bêtes un documentario e il surrealismo in linea teorica una corrente molto poco adatta ma Franju, sagacemente, utilizza la vena onirica della corrente per documentare lo stato ovattato nel quale siamo abituati a vivere. Quindi cogliendo in pieno lo spirito del documentario come descrizione del vero. A partire dalla fotografia in bianco e nero – di Marcel Fradetal già operatore per il Vampyr (1932) di Carl Theodor Dreyer – morbida e densa, allo spiazzante incipit che, dopo averci informato di essere ‘alle porte di Parigi’, non entra in città ma rimane nella desolata periferia mostrando una serie di immagini sconclusionate eppure plausibilissime nel contesto. A corredo, una voce femminile fuori campo sussurra poeticamente introducendoci nella soave, benché spoglia, atmosfera del cortometraggio; una dolce melodia e il bacio di una giovane coppia lascia infine posto all’inquadratura sinistramente inclinata di un convoglio ferroviario e all’andirivieni di alcuni assai prosaici camion. La voce femminile ci accompagna fino all’ingresso del macello; poi, nel momento di descrivere gli attrezzi del mestiere, ne subentra una maschile. La cosa è lievemente spiazzante, perché ci si aspetta un unico narratore; in realtà Franju vuole forse solo dimostrare quanto sia convenzionale il nostro modo di intendere il cinema e, di conseguenza, il mondo. Il documentario è girato in diversi macelli e negli intermezzi tornano tanto le immagini della città immersa nella sua ipnotica vita quotidiana, quanto la voce della ragazza che, a questo punto, risulta doppiamente straniante. La conclusione, sulle struggenti note della melodia di Jospeh Kosma, lascia le pecore – ancora sconvolte dopo aver visto le loro compagne uccise brutalmente – addormentarsi in silenzio, mentre Parigi, la fuori, continua la sua serena e quotidianità. Serena ma ipocrita: e questo lo possiamo cogliere proprio grazie alla poetica del cinema di Franju che riesce in modo sublime a far coesistere nel suo cinema elementi contrapposti.
 
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lunedì 26 dicembre 2022

ENIGMA FRANJU_1: I CORTOMETRAGGI DI GEORGES FRANJU

1187_I CORTOMETRAGGI DI GEORGES FRANJUFrancia 1935; Regia di Georges Franju.

Ha ragione Kate Ince (autrice di Georges Franju, 2005): per comprendere il cinema di Georges Franju, occorre innanzitutto cominciare dai suoi cortometraggi. Che, leggendo le note a corredo dei vari corti, potrebbero al contrario sembrare assai poco significativi. Innanzitutto si tratta di opere di breve durata, e questo è ovvio, il che lascerebbe intendere che il regista non abbia avuto il tempo necessario per sviluppare la propria poetica in modo compiuto. O almeno non come nei successivi lungometraggi e questo è anche vero, per la verità. Inoltre, i cortometraggi di Georges Franju sono perlopiù documentari in genere commissionati da questo o quell’ente che intendeva attraverso questi filmati divulgare un po’ di sana propaganda di governo o quantomeno istituzionale. E anche questo è un dato di fatto: quando non era il Ministero degli Affari Interni o l’Istituto delle Acque e delle Foreste a richiedere un cortometraggio che illustrasse una determinata situazione del paese, era il senso civico dello stesso regista – ad esempio la sua attenzione agli animali – o il tributo ai personaggi celebri nazionali con le veloci biografie. La Francia, nel secondo dopoguerra, andava trasformandosi in chiave moderna e industrializzata e il cinema era lo strumento consono a celebrarne i progressi e a divulgare consapevolezza culturale allo stesso tempo. Qui occorre entrare in uno specifico della particolare situazione nel paese transalpino, che favorì il proliferare dell’uso del cortometraggio in genere poco frequentato dal cinema, ma tutto questo ci porterebbe già sul finire degli anni Quaranta, mentre l’esordio dietro alla Macchina da Presa di Franju è del 1935 con Le Métro

Va detto, onestamente, che gli otto minuti che costituiscono questo primo approccio alla regia di Franju, unitamente dietro alla macchina da presa all’amico Henri Langlois, non è che siano entusiasmanti. A posteriori, Franju giustificò la mancata riuscita del corto con il differente approccio dei due giovanissimi autori: “io volevo un montaggio di idee, lui [Langlois] di ritmo”. In questa semplice frase, ci sono già tracce di quello che Kate Ince nel suo libro di critica cinematografica uscito nel 2005 sul regista francese definisce acutamente l’enigma Franju. Per quale motivo Franju è sempre stato sottovalutato? Perché la sua poetica è stata sempre poco compresa – e secondo la Ince anche equivocata – e quindi poco apprezzata? Prendiamo le parole del regista a proposito di Le Métro: a naso, sembrerebbe che il suo amico Langlois fosse nel giusto, il fondo il montaggio è l’essenza stessa del cinema. 

E, di contro, cosa vuol dire Franju con ‘montaggio di idee’? Troppo generico, in fondo anche le scelte in sala taglio sono idee; a pensarci bene sembra quasi che lo stesso Franju faticasse a trovare una definizione per ciò che lo guidava dietro alla macchina da presa. Tornando a Le Métro, in realtà, come fa notare la stessa Ince nel suo puntualissimo libro, l’utilizzo di un montaggio serrato è controproducente, nel cortometraggio, perché ingenera delle aspettative che poi risultano vane. Il breve documentario si segnala per l’atmosfera generale tutt’altro che rassicurante e – se voleva essere un tributo ai successi dell’era moderna, insieme all’innegabile dimostrazione di efficienza dei treni e dell’indaffaramento delle persone che salgono e scendono le scale per tuti gli otto minuti – Le Métro si lascia ricordare forse maggiormente per le ombre che caratterizzano il bianco e nero della pellicola. Come detto, siamo ancora a metà degli anni Trenta e la svolta nella carriera di Franju è molto di là da venire. Prima di ciò, con l’amico Langlois fonda un cineclub, Le Cercle du Cinema, dove si proiettano film muti con dibattito a seguire e nel 1936 è la volta del suo impegno nella Cinématheque Française, un archivio che vedrà la collaborazione di Franju giusto per un paio d’anni. 

La Cinématheque Française è il frutto di un lavoro collettivo che trova il gradimento del regista bretone, a cui sempre, nel suo lavoro, piacerà fare squadra con i propri collaboratori. La passione cinefila di Franju e Langlois partorisce la rivista CINEMAthographe, un esperimento di solo due di numeri. Nonostante l’esigua storia editoriale, sulla rivista compare un articolo di Franju sul cinema di Fritz Lang, che apprezzerà e ringrazierà tramite lettera; in effetti l’influenza del geniale autore nato a Vienna sarà evidente nel cinema del bretone. La cui attività nel campo cinefilo è inarrestabile: nel 1940 è nominato segretario generale della FIAF (archivi internazionali di film), a cui segue la breve ma significativa esperienza con il Circolo Cinematografico delle Arti e delle Scienze insieme alla futura moglie Dominique Johansen. La quale troverà impiego nella successiva Accademia del Cinema, mentre il marito diviene nel 1953 segretario generale dell’Istituto di Cinematografia Scientifica

Tutte queste note biografiche, che si possono trovare nel prezioso libro della Ince, non sono solo nozionismo atto a giustificare qualche sporadica curiosità sulla vita dell’autore. Ci servono innanzitutto per coglierne l’inclinazione scientifica, presente in due istituti in cui presta servizio il futuro regista, che sarà evidente nei suoi successivi cortometraggi ma verrà anche chiamata in causa dalla definizione che storicamente è attribuita al cinema di Georges Franju. Realismo fantastico: Claire Clouzot trovò questa descrizione per la poetica del regista bretone in relazione ai suoi lungometraggi e la definizione realismo si fonda, effettivamente, sullo sguardo attento alla rappresentazione formale del mondo che lo circondava. Il che era evidente già nei cortometraggi che Franju diresse dal 1948 al 1958 e ci sarebbe anche da essere tentati di dire che il tema fantastico entri in gioco solo nell’ultimo corto e con maggiore vigore coi successivi lungometraggi ma le cose, con il regista francese, non sono mai così lineari come possono apparire. Intanto occorre descrivere almeno vagamente la situazione in Francia nel dopoguerra in ambito cinematografico perché servirà a capire le influenze che subirà Franju nella scelta del suo approccio all’attività di regista di cortometraggi. 

A livello socio economico, la situazione europea, e francese nello specifico, era drammatica e non era semplice reperire i fondi per realizzare film e si rischiava la colonizzazione da quei paesi produttori di cinema stranieri, come gli Stati Uniti, che risentivano assai meno della crisi. In precedenza, prima della guerra, la serata cinematografica prevedeva due lungometraggi e già c’era il concreto rischio di vedere monopolizzati gli spettacoli con prodotti d’importazione. Per cui, già durante il conflitto mondiale, nel tentativo di arginare questo fenomeno e tutelare la cinematografia interna, il governo francese sotto occupazione emanò, nel 1940, la Legge sugli aiuti (Kate Ince, Georges Franju pag. 14) che obbligava i gestori delle sale a proiettare un cortometraggio accanto ad un lungometraggio. La stessa legge prevedeva che parte dei ricavi venissero devoluti al finanziamento dei cortometraggi, più veloci e economici da girare oltre a non soffrire l’inesistente specifica concorrenza americana. In conseguenza a questa situazione, tra il 1940 e il 1953, la produzione di cortometraggi nel paese aumenta considerevolmente e i brevi filmati vengono spesso finanziati da istituti e organi ministeriali che, visto la predominanza del prodotto interno, utilizzano questo canale per diffondere la cultura nazionale francese. Come si è detto Franju era stato in quegli anni costantemente impiegato in quella o questa istituzione cinematografica e anche grazie alle conoscenze giuste riesce probabilmente a trovare i finanziamenti per intraprendere la carriera di regista di cortometraggi. 
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sabato 24 dicembre 2022

IL PROMONTORIO DELLA PAURA

1186_ILPROMONTORIO DELL PAURA (Cape Fear)Stati Uniti 1962; Regia di J. Lee Thompson.

In un processo, a fare la differenza, a volte sono più le cosiddette motivazioni della sentenza rispetto al verdetto in sé stesso: è infatti nella esposizione dei fatti rilevanti che stanno dietro le decisioni della giuria che si può comprendere a fondo le ragioni della questione. Ricorrere ad elementi giuridici per comprendere Il promontorio della paura ha una sua logica: innanzitutto perché è a quello che ci fanno pensare il 1962, anno di uscita del film, e Gregory Peck, che in quello stesso anno vinse l’Oscar per il ruolo dell’avvocato Atticus Finch ne Il buio oltre la siepe (regia di Robert Mulligan) dopo che, in precedenza, aveva vestito la toga anche ne Il caso Paradine (1947, di Alfred Hitchcock). E, molto più concretamente, perché Peck anche ne Il promontorio della paura interpreta un avvocato, Sam Bowden. Insomma, l’attore statunitense aveva il phisique du role per incarnare la faccia pulita e legale dell’America. Anche troppo, a dir la verità. Quello che mancò a Peck, per essere davvero un eroe a tutto tondo, era un filo di ambiguità. Intendiamoci: l’attore vanta una serie di ruoli discutibili, a cominciare dal capitano Achab ne Moby Dick, la balena bianca (1956, di John Huston) passando per il sergente Dawson in Cielo Giallo (1948, di William A. Wellman) per arrivare al capitano Lance ne L’avamposto degli uomini perduti (1951, di Gordon Douglas), giusto per fare tre esempi. Ma sono uomini tutti d’un pezzo, senza cedimenti e comunque Peck non è quasi mai riuscito a mettere in mostra un suo lato debole in modo da dare maggiore spessore alla sua figura. Perfino il monumentale John Wayne, che era l’eroe granitico per definizione, ha in più d’un occasione mostrato qualche crepa. Per non parlare di Gary Cooper o James Stewart che al proprio lato oscuro fecero ricorso più volte. 

Per un certo tipo di ruolo, che si imponesse anche fisicamente in drammi seri e avventurosi, questi erano i nomi da cui si poté attingere per decenni e Peck non fu mai all’altezza degli altri proprio per questa sua mancanza di tridimensionalità. Meglio di lui, molto meglio di lui, fu in effetti Robert Mitchum che aveva il problema opposto: Mitch, ambiguo lo era anche troppo ma certo da quella condizione era più semplice poi interpretare eventualmente l’eroe positivo sfumando lo sguardo inquietante. In pratica, una parata disposta in chiave pseudo-politica degli attori alti e imponenti – per capirci, Humphrey Bogart era troppo basso e Cary Grant troppo tenero – si apriva a sinistra con Mitchum – forse eccessivamente inquietante – poi Cooper, Stewart e Wayne al centro – i più equilibrati – infine Peck a destra – troppo rassicurante. 


Per questo ne Il promontorio della paura, fotografato in un quanto mai adeguato ed efficace bianco e nero, pescando in questa ipotetica galleria di interpreti, i protagonisti sono i due agli opposti: uno è lo specchio, uguale e contrario, dell’altro. Mitch, nel ruolo di Max Cady si supera, esagerando forse un po’ nelle fasi iniziali ma centrando perfettamente il personaggio, e dubbi non ce n’erano, a lungo andare. Nonostante la trama si sforzi di renderlo odioso, le molestie alla piccola Nancy (Lori Martin) o a qualunque altra gonnella incontri, la violenza gratuita ed esplicita nei confronti di Diane (una fulgida Barrie Chase) e perfino l’uccisione del cane dei Bowden, Cady è l’(anti)eroe del film. 

Certo più di Bowden che risulta particolarmente antipatico pur non avendo colpe specifiche nella contesa con Cady, visto che nel primo loro incontro, quello che spedirà quest’ultimo in gabbia, si era comportato da cittadino modello, salvando una fanciulla dalle grinfie del delinquente e testimoniando al successivo processo. Anzi, l’avvocato Bowden, uomo di legge, benestante, fedele marito, premuroso padre, è l’incarnazione dell’obiettivo che si pone il Sogno Americano. Eppure, qualcosa non torna. Perché, per essere un uomo di successo, Bowden dimostra le sue qualità migliori, quelle che fanno di lui una persona per bene, solo quando le cose gli girano per il verso giusto. Facile fare il fenomeno quando hai tutti gli assi in mano: con un lavoro sicuro, una bella casa, una famiglia felice, il nostro avvocato può infatti permettersi di essere un uomo davvero a modo. Ma, quando arriva qualcuno a turbare la sua quiete, ecco che il nostro civilissimo uomo di legge mostra la sua vera natura. Non esita a chiedere favori personali all’ispettore di polizia Dutton (Martin Balsam), ingaggia un detective privato (Telly Savalas) che arriverà addirittura ad assoldare tre braccianti per picchiare duramente Cady. 

E qui che Peck mostra il suo limite, in campo recitativo, ma in questo caso la lacuna risulta funzionale al film. Bowden, infatti, anche quando esce dal seminato non perde la pazienza, non si lascia andare in preda all’ira, come potrebbe fare un protagonista di un film di Anthony Mann. L’avvocato è sempre convinto di essere nel giusto: anche quando deciderà di tendere una trappola per uccidere Cady rimarrà imperturbabile nella sua arrogante certezza della ragione. Tant’è che per imbastire tale trappola chiede assurdamente aiuto al suo amico ispettore di polizia; oltre ad usare come esca la figlioletta e la moglie Peggy (Polly Bergen) dimostrando una bella dose di pelo sullo stomaco. A proposito della Bergen, l’attrice, pur non essendo una bellezza di grido ad Hollywood, è uno degli elementi di spicco del film soprattutto grazie all’espressività degli occhi che sono, forse, l’effetto speciale più funzionale alla suspense. Una trappola prevede di tracciare una pista che la preda deve poi seguire: in effetti il film arriverà al momento cruciale in modo ormai prevedibile. Cady semina la strada di atti criminali che lo predestinano alla sconfitta e il dubbio diviene quindi inevitabilmente su come saprà chiudere la partita Bowden, dato sicuro vincente da qualsiasi allibratore. 

Ucciderà davvero il rivale, rivelandosi della stessa pasta? O riuscirà a trattenersi, dimostrandosi migliore e salvando quindi il Sogno Americano? Non siamo in uno spaghetti-western e neppure in poliziottesco, gli anni Sessanta sono appena agli inizi e Il promontorio della paura è ancora cinema americano classico: la scelta cade sulla seconda opzione. Ma, attenzione, in certi casi, come si diceva in apertura, le motivazioni sono cruciali. Quando ascoltiamo le parole dell’avvocato Bowden, la sua arringa in cui sadicamente illustra il futuro che attende Cady in prigione, si capisce che non siamo affatto di fronte ad un lieto fine. Bowden ripaga il criminale con la sua stessa moneta, non uccidendolo ma cercando la maniera per farlo soffrire maggiormente, allo stesso modo in cui Cady minacciava la figlia dell’avvocato piuttosto che prendersela con lui. E’ questo freddo calcolo che sprona Bowden a non premere il grilletto: Cady soffrirà di più e più a lungo in prigione. Neppure Fritz Lang, che nelle sue storie distingueva tra cattivi e meno cattivi – chiamando per convenzione cattivi i primi e buoni i secondi – sarebbe in grado di trovare la differenza tra Cady e Bowden. Il Sogno Americano non aveva un lato oscuro: era direttamente un incubo. Specialmente se avevi solo otto dollari in tasca e ti pescavano gli sbirri a passeggiare per strada.   








 
Polly Bergen





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