805_IL VALZER DELL'IMPERATORE (The Emperor Waltz). Stati Uniti; 1948. Regia di Billy Wilder.
“Meno tempo si perde a cercare di analizzare «Il Valzer dell’Imperatore», meglio è”. Billy Wilder è categorico, a proposito di quello che è uno dei suoi film di cui parlava sempre meno volentieri. Avendo visto il lungometraggio, viene anche facile accontentarlo per la verità ma, come al solito quando c’è di mezzo Wilder, qualcosa stuzzica più della voglia di cambiare argomento. Intanto perché l’autore di un’opera spesso la valuta facendo una sorta di rapporto tra le aspettative e il risultato e, se il quoziente è scarso, la delusione è comprensibile. E, stando alle cronache, l’approccio produttivo a Il Valzer dell’Imperatore non fu affatto quello prevedibile per il film disimpegnato di cui parla Wilder, almeno da un punto di vista dello scrupolo dello stesso autore: il quale spese 20.000 dollari, negli anni Quaranta, per trapiantare pini californiani nelle montagne canadesi, per cercare di renderle simili al Tirolo, importò 4000 margherite bianche, poi dipinte di blu per migliorare la coreografia e fece costruire un’isola artificiale in mezzo al lago Leach. Insomma, quando il regista sostiene che il film fu “una sorta di improvvisazione” sembra piuttosto cercare di minimizzare un risultato insoddisfacente. Il che è anche comprensibile, visto che Il Valzer dell’Imperatore è solo un’opera godibile ma Wilder forse aveva qualche ambizione in più e quindi c’è una punta di rammarico sotterraneo che condiziona il suo giudizio. Per cui, se dal punto di vista della generale resa sullo schermo potremmo archiviare Il Valzer dell’Imperatore come un film anche divertente ma, in ogni caso, come un passaggio sottotono nella carriera del regista, è invece interessante cercare di intuire quello che avrebbe dovuto e potuto essere il lungometraggio se fosse un lavoro riuscito. E non si tratta di cogliere le trovate geniali che sbucano qua e là nel corso del film, come ad esempio la scena in cui il dottore psicanalizza uno dei cani della storia: Wilder era geniale e brillante e lo era sempre, anche nei film meno riusciti. Difficile pensare che il regista nato nell’Impero Austro-Ungarico possa essere deluso perché quelle sue scene gustose siano finite sprecate in un film che non ha funzionato.
A proposito, Wilder nacque proprio in quell’Impero in cui si reca il protagonista de Il Valzer dell’Imperatore, Virgil Smith (Bing Crosby), accompagnato dal suo fido cane Buttons, per cercare di ottenere da Francesco Giuseppe (Richard Haydn) l’approvazione per vendere grammofoni da quelle parti. L’agente di commercio è americano al cento per cento, del resto fa Smith di cognome, ma ha il nome del sommo poeta dell’antichità e, quindi, porta con sé qualcosa di europeo; e poi ha una vaga somiglianza, taglia, parlantina, simpatia, proprio con Wilder. Il film, stando proprio al regista, fu girato nel ’46 (sebbene uscì solo due anni dopo); appena finita
Wilder, che come detto era cittadino austriaco, emigrò negli Stati Uniti a causa del nazismo e divenne solo in seguito americano: la condizione umana dell’autore, finita la guerra, era quella di un uomo in un certo senso diviso, come tutti gli emigranti, del resto. Nonostante Wilder abbia finito per incarnare, con le sue commedie brillanti, lo spirito americano del tempo, il passato doveva avere il suo peso se pensiamo che successivamente dirigerà Scandalo Internazionale e Stalag 17- L’inferno dei vivi, due film che testimoniano il legame con la sua terra d’origine. Un conflitto che, se vogliamo, è ben rappresentato dal nome del protagonista del film: un comune americano ma con qualcosa ancora d’europeo. Centroeuropeo, per la precisione: ed è facile immaginare che Wilder trovasse un maggiore riscontro delle sue radici con l’Austria degli Asburgo piuttosto che con
E’ forse per questo che Virgil è un venditore dei primi anni del secolo, l’era del tramonto della dinastia asburgica. E visto quello che è successo nel frattempo, rispetto a quel
Non solo: anche il cane Buttons riesce a spuntarla nei confronti del barboncino reale e, alla fine di una serie comica di peripezie, conquista la cagnolina della Contessa. Del resto la presenza di Buttons e del grammofono non servivano certo solo per imbastire qualche gag strampalata: la scena in cui, ad un certo punto, il cane guarda nella tromba del giradischi era un efficace logo di un’etichetta discografica. Wilder utilizza la musica, quindi, come terreno di contesa tra passato, l’Austria, e il presente, gli Stati Uniti e, in effetti, Il Valzer dell’Imperatore ha, già nel titolo, le pretese di un musical (peraltro poi non propriamente corrisposte). D’altra parte dici Vienna e pensi subito alla musica, tanti sono i celebri musicisti austriaci: mandando Bing Croby come protagonista della sua storia, a vendere grammofoni poi, si comprende come Wilder non voglia però lasciare campo libero alla sua vecchia squadra. E lo sguardo bonario e vagamente nostalgico era forse legato al fatto che l’autore, come americano, sapeva bene di avere già partita vinta. La casa discografica del cagnolino col grammofono era
Appendice storica.
QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.
LA CAVALCATA DI FRANCESCO GIUSEPPE
Tutto ebbe inizio il 12 gennaio a Palermo.
L’insurrezione cittadina, che presto si estese a tutta la Sicilia, costrinse in
breve le truppe del regno di Napoli a sgomberare l’isola clamorosamente
sconfitte. Il 22 febbraio fu il turno del cuore d’Europa: a Parigi infatti una
crisi politica sfocia in una protesta di massa e presto le strade della
capitale francese si riempiono di barricate. Il re Luigi Filippo lasciò due
giorni dopo la città, fuggendo come un ladro sotto le mentite spoglie di un
certo “mr. Smith”. A Milano i cittadini insorsero contro le truppe del
maresciallo Radetzky costringendo gli austriaci a sgomberare la città. Venezia
risponde con altrettanta forza. Tutta Europa, dalla Sicilia alla Polonia, viene
scossa da un’ondata rivoluzionaria in quel fatidico 1848. In nessun luogo essa
fu così clamorosa come nel centro del potere conservatore di quegli anni:
Vienna. Gli studenti che nel Marzo occuparono le strade pretesero -e ottennero
– le dimissioni del cancelliere Klemens von Metternich. Con la fuga
rocambolesca di quest’ultimo da Vienna finisce quella che è appunto chiamata
“l’età di Metternich” o Vormaerz in tedesco (ossia, “prima di Marzo”), il
periodo compreso tra il Congresso di Vienna (1815) e il Marzo 1848 e
caratterizzato da una forte ondata reazionaria che aveva il suo fulcro proprio
nel cancellierato di Metternich e nella sua attività diplomatica, ondata che
catalizzò lo scontento sia delle classi che avevano sostenuto la rivoluzione
francese (grande e media borghesia, intellettuali illuminati) sia del
proletariato urbano delle grandi città e che sfociò nelle rivoluzioni del 1848.
L’Europa si risvegliava e reclamava un futuro dinamico, dove giustizia sociale,
prosperità economica e diritto di autodeterminarsi fossero pane comune di tutti
i cittadini e di tutte le nazioni.
Il diciottenne Francesco Giuseppe ascese al trono in questa situazione caotica e rivoluzionaria, con Metternich cacciato da Vienna tra gli insulti, la corte imperiale stessa costretta a lasciare Schoenbrunn e a cercare rifugio a Omoluc dove Francesco Giuseppe accetterà la successione imperiale; mentre l’esercito bombardava la rivoltosa Vienna, le rivoluzioni nazionali in Italia e Ungheria stavano marciando alla grande: non si dice “è un ’48” per niente, insomma! Il ricordo di questi eventi rimarrà indelebile nel cuore di Francesco Giuseppe, e contribuirà a formarne il carattere e a dirigerne la politica. Grazie anche alla sua energia, oltre che all’indispensabile appoggio della Russia zarista, l’altra grande potenza conservatrice dell’epoca, presto la situazione torna ad essere sotto controllo: nel 1849 il riflusso è chiaro, le rivoluzioni si fermano o, come nel caso delle guerre d’indipendenza italiana e ungherese, falliscono. Il trionfo delle potenze conservatrici sembra generale. Francesco Giuseppe assume sin da subito un ruolo guida del movimento controrivoluzionario: lo fa anche simbolicamente e propagandisticamente, presentandosi non certo come un tiranno o come il successore di Metternich, ma come un sovrano paterno, che ama i suoi diversi popoli con bonarietà; insomma il garante del buon vecchio ordine di una volta contro il caos e la violenza rivoluzionarie.
Le tragedie personali e la figura che l’imperatore diede di sé non devono, però, farci dimenticare che Francesco Giuseppe fu innanzitutto un attore politico di prima importanza in un momento nevralgico della storia d’Europa. Salito al trono durante la prima guerra d’indipendenza italiana, morirà nel 1916, durante la grande guerra.
In mezzo, ci furono l’ascesa della Prussia, il compromesso con l’Ungheria (per cui l’impero d’Austria divenne l’Austria-Ungheria) , l’unificazione italiana, il crollo del secondo impero francese, l’unificazione tedesca, la fine del potere temporale dei Papi, le guerre balcaniche, l’annessione della Bosnia-Erzegovina.
In tutti questi avvenimenti Francesco Giuseppe giocò un ruolo. Un ruolo prevalentemente conservatore, anche se non ciecamente reazionario. Diversamente dall’altra dinastia, i Romanov di Russia, accettò svariate forme di compromesso in fatto di politica interna. In politica estera, fu presto travolto dall’ondata dei nazionalismi e si dovette infine legare proprio al più promettente degli stati nazionali, la Germania guglielmina. Tuttavia, sarebbe sbagliato vedere nell’Austria di inizio ‘900 solo una forza passiva che lottava per la mera sopravvivenza in un mondo profondamente cambiato. Le guerre balcaniche diedero infatti all’Austria un nuovo fronte di espansione, a compensare la perdita dell’egemonia centro-europea. L’aggressiva politica asburgica nei Balcani non sarebbe stata possibile senza il consenso attivo dell’imperatore Francesco Giuseppe e il suo appoggio entusiasta alle scelte dell’entourage politico-militare.
L’ultima di queste scelte avvallate, fatta all’indomani dell’attentato di Sarajevo, fu fatale per l’impero e per l’Europa.