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venerdì 30 aprile 2021

IL VALZER DELL'IMPERATORE (a seguire QUANDO LA STORIA...)

805_IL VALZER DELL'IMPERATORE (The Emperor Waltz). Stati Uniti1948. Regia di Billy Wilder.

“Meno tempo si perde a cercare di analizzare «Il Valzer dell’Imperatore», meglio è”. Billy Wilder è categorico, a proposito di quello che è uno dei suoi film di cui parlava sempre meno volentieri. Avendo visto il lungometraggio, viene anche facile accontentarlo per la verità ma, come al solito quando c’è di mezzo Wilder, qualcosa stuzzica più della voglia di cambiare argomento. Intanto perché l’autore di un’opera spesso la valuta facendo una sorta di rapporto tra le aspettative e il risultato e, se il quoziente è scarso, la delusione è comprensibile. E, stando alle cronache, l’approccio produttivo a Il Valzer dell’Imperatore non fu affatto quello prevedibile per il film disimpegnato di cui parla Wilder, almeno da un punto di vista dello scrupolo dello stesso autore: il quale spese 20.000 dollari, negli anni Quaranta, per trapiantare pini californiani nelle montagne canadesi, per cercare di renderle simili al Tirolo, importò 4000 margherite bianche, poi dipinte di blu per migliorare la coreografia e fece costruire un’isola artificiale in mezzo al lago Leach. Insomma, quando il regista sostiene che il film fu “una sorta di improvvisazione” sembra piuttosto cercare di minimizzare un risultato insoddisfacente. Il che è anche comprensibile, visto che Il Valzer dell’Imperatore è solo un’opera godibile ma Wilder forse aveva qualche ambizione in più e quindi c’è una punta di rammarico sotterraneo che condiziona il suo giudizio. Per cui, se dal punto di vista della generale resa sullo schermo potremmo archiviare Il Valzer dell’Imperatore come un film anche divertente ma, in ogni caso, come un passaggio sottotono nella carriera del regista, è invece interessante cercare di intuire quello che avrebbe dovuto e potuto essere il lungometraggio se fosse un lavoro riuscito. E non si tratta di cogliere le trovate geniali che sbucano qua e là nel corso del film, come ad esempio la scena in cui il dottore psicanalizza uno dei cani della storia: Wilder era geniale e brillante e lo era sempre, anche nei film meno riusciti. Difficile pensare che il regista nato nell’Impero Austro-Ungarico possa essere deluso perché quelle sue scene gustose siano finite sprecate in un film che non ha funzionato. 


A proposito, Wilder nacque proprio in quell’Impero in cui si reca il protagonista de Il Valzer dell’Imperatore, Virgil Smith (Bing Crosby), accompagnato dal suo fido cane Buttons, per cercare di ottenere da Francesco Giuseppe (Richard Haydn) l’approvazione per vendere grammofoni da quelle parti. L’agente di commercio è americano al cento per cento, del resto fa Smith di cognome, ma ha il nome del sommo poeta dell’antichità e, quindi, porta con sé qualcosa di europeo; e poi ha una vaga somiglianza, taglia, parlantina, simpatia, proprio con Wilder. Il film, stando proprio al regista, fu girato nel ’46 (sebbene uscì solo due anni dopo); appena finita la Seconda Guerra Mondiale

Wilder, che come detto era cittadino austriaco, emigrò negli Stati Uniti a causa del nazismo e divenne solo in seguito americano: la condizione umana dell’autore, finita la guerra, era quella di un uomo in un certo senso diviso, come tutti gli emigranti, del resto. Nonostante Wilder abbia finito per incarnare, con le sue commedie brillanti, lo spirito americano del tempo, il passato doveva avere il suo peso se pensiamo che successivamente dirigerà Scandalo Internazionale e Stalag 17- L’inferno dei vivi, due film che testimoniano il legame con la sua terra d’origine. Un conflitto che, se vogliamo, è ben rappresentato dal nome del protagonista del film: un comune americano ma con qualcosa ancora d’europeo. Centroeuropeo, per la precisione: ed è facile immaginare che Wilder trovasse un maggiore riscontro delle sue radici con l’Austria degli Asburgo piuttosto che con la Germania di Hitler. 

E’ forse per questo che Virgil è un venditore dei primi anni del secolo, l’era del tramonto della dinastia asburgica. E visto quello che è successo nel frattempo, rispetto a quel 1946 in cui si girava il film, è un po’ come se Wilder, nei panni di Virgil, tornasse alle sue origini, nell’Austria imperiale, per chiedere conto a quel Francesco Giuseppe che, con la sua ottusità, in un certo senso, aveva scatenato la Prima Guerra Mondiale e, di conseguenza, la seconda. E lo fa nelle vesti di un americano: ovvero rinnegando, ma non fino in fondo, le proprie origini. Non fino in fondo perché Wilder riconosce il fascino della società viennese, incarnato dalla Contessa Johanna (un’incerta Joan Fontaine), e anche dalla luce tutto sommato bonaria in cui è visto l’imperatore. In ogni caso c’è una disputa esplicita in tal senso, sulla questione di differenza di sangue, e all’americano spetta l’ultima parola. 

Non solo: anche il cane Buttons riesce a spuntarla nei confronti del barboncino reale e, alla fine di una serie comica di peripezie, conquista la cagnolina della Contessa. Del resto la presenza di Buttons e del grammofono non servivano certo solo per imbastire qualche gag strampalata: la scena in cui, ad un certo punto, il cane guarda nella tromba del giradischi era un efficace logo di un’etichetta discografica. Wilder utilizza la musica, quindi, come terreno di contesa tra passato, l’Austria, e il presente, gli Stati Uniti e, in effetti, Il Valzer dell’Imperatore ha, già nel titolo, le pretese di un musical (peraltro poi non propriamente corrisposte). D’altra parte dici Vienna e pensi subito alla musica, tanti sono i celebri musicisti austriaci: mandando Bing Croby come protagonista della sua storia, a vendere grammofoni poi, si comprende come Wilder non voglia però lasciare campo libero alla sua vecchia squadra. E lo sguardo bonario e vagamente nostalgico era forse legato al fatto che l’autore, come americano, sapeva bene di avere già partita vinta. La casa discografica del cagnolino col grammofono era la His master’s voice, [la voce del (suo) padrone], ed era la sintesi perfetta di come, d’ora in avanti, l’America si sarebbe rivolta non solo all’Austria ma a tutta quanta l’Europa. 

Al termine della galleria fotografica del film QUANDO LA STORIA... l'appendice storica di Antonio Gatti: 
LA CAVALCATA DI FRANCESCO GIUSEPPE.






Joan Fontaine





Appendice storica.
QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.

LA CAVALCATA DI FRANCESCO GIUSEPPE

Tutto ebbe inizio il 12 gennaio a Palermo. L’insurrezione cittadina, che presto si estese a tutta la Sicilia, costrinse in breve le truppe del regno di Napoli a sgomberare l’isola clamorosamente sconfitte. Il 22 febbraio fu il turno del cuore d’Europa: a Parigi infatti una crisi politica sfocia in una protesta di massa e presto le strade della capitale francese si riempiono di barricate. Il re Luigi Filippo lasciò due giorni dopo la città, fuggendo come un ladro sotto le mentite spoglie di un certo “mr. Smith”. A Milano i cittadini insorsero contro le truppe del maresciallo Radetzky costringendo gli austriaci a sgomberare la città. Venezia risponde con altrettanta forza. Tutta Europa, dalla Sicilia alla Polonia, viene scossa da un’ondata rivoluzionaria in quel fatidico 1848. In nessun luogo essa fu così clamorosa come nel centro del potere conservatore di quegli anni: Vienna. Gli studenti che nel Marzo occuparono le strade pretesero -e ottennero – le dimissioni del cancelliere Klemens von Metternich. Con la fuga rocambolesca di quest’ultimo da Vienna finisce quella che è appunto chiamata “l’età di Metternich” o Vormaerz in tedesco (ossia, “prima di Marzo”), il periodo compreso tra il Congresso di Vienna (1815) e il Marzo 1848 e caratterizzato da una forte ondata reazionaria che aveva il suo fulcro proprio nel cancellierato di Metternich e nella sua attività diplomatica, ondata che catalizzò lo scontento sia delle classi che avevano sostenuto la rivoluzione francese (grande e media borghesia, intellettuali illuminati) sia del proletariato urbano delle grandi città e che sfociò nelle rivoluzioni del 1848. L’Europa si risvegliava e reclamava un futuro dinamico, dove giustizia sociale, prosperità economica e diritto di autodeterminarsi fossero pane comune di tutti i cittadini e di tutte le nazioni.

Il diciottenne Francesco Giuseppe ascese al trono in questa situazione caotica e rivoluzionaria, con Metternich cacciato da Vienna tra gli insulti, la corte imperiale stessa costretta a lasciare Schoenbrunn e a cercare rifugio a Omoluc dove Francesco Giuseppe accetterà la successione imperiale; mentre l’esercito bombardava la rivoltosa Vienna, le rivoluzioni nazionali in Italia e Ungheria stavano marciando alla grande: non si dice “è un ’48” per niente, insomma! Il ricordo di questi eventi rimarrà indelebile nel cuore di Francesco Giuseppe, e contribuirà a formarne il carattere e a dirigerne la politica. Grazie anche alla sua energia, oltre che all’indispensabile appoggio della Russia zarista, l’altra grande potenza conservatrice dell’epoca, presto la situazione torna ad essere sotto controllo: nel 1849 il riflusso è chiaro, le rivoluzioni si fermano o, come nel caso delle guerre d’indipendenza italiana e ungherese, falliscono. Il trionfo delle potenze conservatrici sembra generale. Francesco Giuseppe assume sin da subito un ruolo guida del movimento controrivoluzionario: lo fa anche simbolicamente e propagandisticamente, presentandosi non certo come un tiranno o come il successore di Metternich, ma come un sovrano paterno, che ama i suoi diversi popoli con bonarietà; insomma il garante del buon vecchio ordine di una volta contro il caos e la violenza rivoluzionarie. 

In un certo senso, film come Il Valzer dell’Imperatore sono una eco lontana di questa immagine paternalistica, che spogliava l’imperatore d’Austria di una reale consistenza politica, per relegarlo nel campo del folklore, di quel folklore che però -si sperava- potesse tenere uniti i popoli. Immagine altamente idealizzate di Francesco Giuseppe le abbiamo anche in alcune opere letterarie: un’eco importante la si trova in Radetzkymarsch di Joseph Roth, romanzo capolavoro del 1932 nel quale l’autore segue il declino dell’impero asburgico da Solferino alla Grande Guerra attraverso il prisma di una famiglia, i Trotta, che vede i propri valori etici e morali sgretolarsi di fronte allo spirito dei tempi. Solo lui, Francesco Giuseppe, evocato in qualche pagina del romanzo, rimane fedele a sé stesso, rappresentazione iconica di un mondo che è perduto per sempre. 
Francesco Giuseppe incoraggiava questa rappresentazione di sé perché, tutto sommato, credeva in quei valori... Il duplice spirito d’Europa, eternamente tentennante tra conservazione e rivoluzione, si riassume nel suo lungo regno. In fondo la sua storia è quella di un continuo scontro tra il mondo che fu e quello che è, o che verrà. Le tragedie e le sconfitte che costellano la vita di Francesco Giuseppe sembrano quasi volergli ricordare di continuo che, sotto la crosta, lo spirito della nuova era sta fermentando e, profeticamente, lo fa con una violenza distruttrice. L’emergere delle nazioni del Nuovo Mondo e la loro crescente indipendenza rispetto alla vecchia Europa saranno alla base della tragedia della morte del fratello Massimiliano in Messico; il terrorismo anarchico costerà la vita alla moglie Sissi, il nazionalismo al nipote Francesco Ferdinando; ma è soprattutto la morte del figlio Rodolfo il dramma che segnerà la sua vita, un dramma che sembra riassumere tutto lo spirito dell’Ottocento con le sue contraddizioni, il suo romanticismo estremo che stride con quel realismo decadente così brillantemente evocato nel dipinto Le Suicidé di Manet.

Le tragedie personali e la figura che l’imperatore diede di sé non devono, però, farci dimenticare che Francesco Giuseppe fu innanzitutto un attore politico di prima importanza in un momento nevralgico della storia d’Europa. Salito al trono durante la prima guerra d’indipendenza italiana, morirà nel 1916, durante la grande guerra.
In mezzo, ci furono l’ascesa della Prussia, il compromesso con l’Ungheria (per cui l’impero d’Austria divenne l’Austria-Ungheria) , l’unificazione italiana, il crollo del secondo impero francese, l’unificazione tedesca, la fine del potere temporale dei Papi, le guerre balcaniche, l’annessione della Bosnia-Erzegovina.
In tutti questi avvenimenti Francesco Giuseppe giocò un ruolo. Un ruolo prevalentemente conservatore, anche se non ciecamente reazionario. Diversamente dall’altra dinastia, i Romanov di Russia, accettò svariate forme di compromesso in fatto di politica interna. In politica estera, fu presto travolto dall’ondata dei nazionalismi e si dovette infine legare proprio al più promettente degli stati nazionali, la Germania guglielmina. Tuttavia, sarebbe sbagliato vedere nell’Austria di inizio ‘900 solo una forza passiva che lottava per la mera sopravvivenza in un mondo profondamente cambiato. Le guerre balcaniche diedero infatti all’Austria un nuovo fronte di espansione, a compensare la perdita dell’egemonia centro-europea. L’aggressiva politica asburgica nei Balcani non sarebbe stata possibile senza il consenso attivo dell’imperatore Francesco Giuseppe e il suo appoggio entusiasta alle scelte dell’entourage politico-militare.
L’ultima di queste scelte avvallate, fatta all’indomani dell’attentato di Sarajevo, fu fatale per l’impero e per l’Europa.


Prologo: LA CORONA TRAGICA

Quando la città dorme presenta:

QUANDO TUONA IL CANNONE

IL KOLOSSAL DOSSIER

 

Prologo: LA CORONA TRAGICA

A maggio:

_Francesco Giuseppe d'Austria ne: 

IL VALZER DELL'IMPERATORE (1948)

in appendice: La marcia di Francesco Giuseppe

_Massimiliano d'Asburgo -Lorena ne:

IL CONQUISTATORE DEL MESSICO (1939)

in appendice: Da Santiago a Funchal 

_Elisabetta di Baviera ne:

LA PRINCIPESSA SISSI (1955) 

in appendice: Sissi e il vagabondo

SISSI - LA GIOVANE IMPERATRICE (1956)

SISSI - DESTINO DI UN'IMPERATRICE   (1957)

_Rodolfo d'Asburgo-Lorena ne:

MAYERLING (1936)

in appendice: Mayerling, i dolori del giovane Rodolfo

MAYERLING (1968)

VIZI PRIVATI, PUBBLICHE VIRTU'

_Francesco Ferdinando d'Austria -Este ne:

DA MAYERLING A SARAJEVO (1940)

in appendice: Francesco Ferdinando, l'erede scomodo


Buona lettura.

 

QUANDO TUONA IL CANNONE

Quando la città dorme presenta:

QUANDO TUONA IL CANNONE

FINALMENTE IL KOLOSSAL DOSSIER

 




 


mercoledì 28 aprile 2021

LA POLIZIA ACCUSA: IL SERVIZIO SEGRETO UCCIDE

804_LA POLIZIA ACCUSA: IL SERVIZIO SEGRETO UCCIDE . Italia1975. Regia di Sergio Martino.

Il regista Sergio Martino ritorna a calcare i sentieri del poliziesco italiano e due anni dopo Milano trema: la polizia vuole giustizia, si sposta a Roma per La polizia accusa: il servizio segreto uccide. L’idea di coinvolgere i servizi segreti in un intrigo eversivo è sostanzialmente il passo successivo al film del 1973 e Martino, per questo suo approfondimento in tema, imbastisce una trama piuttosto complessa che però si dipana man mano che la pellicola scorre, in modo comprensibile. Ci sono forse alcuni passaggi strettamente narrativi poco credibili (ad esempio il rapimento della testimone per influenzarne la deposizione una volta liberata, non sembra troppo plausibile), ma il regista si aiuta con le scene di azione, tra cui un inseguimento senza quartiere in un cascinale, per convincere lo spettatore a seguire la storia. Gli interpreti mostrano luci e ombre ma, nel complesso, il bilancio è positivo: sebbene poco espressivo, Luc Merenda ha il phisique du role, ma pare poco opportuno l’accostamento a Mel Ferrer che, seppur reciti un po’ stancamente, sembra attore di altra caratura. Tomas Milian ha in dote una parte trattenuta e se la cava senza sbavature; Delia Boccardo, relegata un po’ troppo in disparte, è brava e graziosa. I migliori risultano i personaggi di contorno: Michele Gammino, ottimo vicecommissario, Gianfranco Barra spassoso Maresciallo, e Arturo Dominici credibilissimo questore. Tra l’altro, Gammino e Dominici erano presenti in Confessioni di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica di Damiano Damiani, che può essere preso come riferimento per il lato impegnato del film di Martino. Tra gli altri film del fiorente genere poliziottesco, si nota qualche debito anche verso La polizia ringrazia, per il rapporto tra il commissario di polizia e il magistrato ma, soprattutto, per l’organizzazione eversiva che proviene dall’interno dello Stato e per il tradimento del vice-commissario di turno. Persino eccessive le scene di azione al campo di addestramento dei sovversivi, con i poliziotti impegnati in un attacco con gli elicotteri più consono ad un film di guerra che ad un poliziesco, ma si tratta di dettagli.
Finale pessimista come raramente se ne vedono al cinema. 









Delia Boccardo


lunedì 26 aprile 2021

TOTO', PEPPINO E LA... MALAFEMMINA

803_TOTO', PEPPINO E LA... MALAFEMMINA . Italia1956. Regia di Camillo Mastrocinque.

Strepitoso esempio di commedia virata al comico, Totò, Peppino e la… malafemmina è giustamente uno dei lungometraggi più ricordati nella filmografia del principe della risata. E, in senso assoluto, è un autentico cult. Il film, all’epoca dell'uscita nelle sale, ottenne un lusinghiero risultato al botteghino; ben più tiepida la critica che arrivò anche a stroncare l’opera. In realtà Totò, Peppino e la… malafemmina è un film godibilissimo, questo è sicuro, ma offre anche alcuni spunti di interesse nient’affatto banali. Certo, oggi viene prevalentemente ricordato per i tanti passaggi spassosi e perfettamente riusciti di Totò e Peppino, che sono divenuti autentici tormentoni senza-tempo. La scena della lettera, l’arrivo a Milano, vestiti da cosacchi a discutere sulla visibilità/invisibilità della nebbia, il dialogo con il ghisa, il vigile urbano…sono tutti momenti del film arcinoti che non perderanno mai l’efficacia umoristica che, anzi, sembra consolidarsi ad ogni passaggio. Ma già viene da citare qualche altra scena, magari meno memorabile ma comunque interessante, come quella in cui i nostri lanciano sassi contro le finestre di Mezzacapa (Mario Castellani). Perché l’aspetto più interessante dell’opera è forse proprio che il tanto venerato ideale bucolico, rappresentato dalla figura dei due campagnoli (nella fattispecie Totò e Peppino), in genere osannato dalla cultura italiana, fa una figura barbina al cospetto del mondo dello spettacolo, diversamente ben poco considerato nella comune opinione pubblica. 

La malafemmina (nome indicativo proprio di questo pregiudizio) del film, Marisa (una Dorian Gray a dir poco sontuosa) si rivela al contrario personaggio di statura morale superiore: l’opera ribalta quindi il classico rapporto che vede la sana e tradizionale vita legata alla campagna contrapposta alla decadenza del mondo dello spettacolo. Pare che il film fosse stato pensato per lanciare Teddy Reno (è Gianni, il fidanzato di Marisa) che nell’opera canta, tra le altre, Malafemmina, famosissima canzone scritta da Totò. Vuoi per l’esuberanza di Totò e Peppino, che improvvisavano modificando a loro piacimento le gag, vuoi per la capacità e l’esperienza del regista Camillo Mastrocinque, l’opera trovò poi il giusto equilibrio tra le varie componenti, che forse è addirittura l’aspetto migliore di Totò, Peppino e la… malafemmina

D’accordo, la storia d’amore non è niente di che, ma propone almeno due argomenti decisamente a suo favore: uno è la scintillante presenza scenica della protagonista, la malafemmina, a cui Dorian Gray presta le notevoli grazie. L’altro è il citato ribaltamento delle convenzioni, con un interessante riscatto morale per la donna di spettacolo (due termini troppo spesso accostati in chiave etica poco edificante). A questo tessuto si innestano con naturalezza, visto il tema del racconto, i momenti canori che Reno sa interpretare a dovere. E, su questo già spesso imbastito, che sarebbe già autonomo per un film degno di interesse, si abbattono Totò e Peppino. L’affiatato duo, analogamente all’ascesa a Milano raccontata nella storia, irrompe, metalinguisticamente parlando, sulla commedia sentimentale canora trasformandola nel cult movie che tutti conosciamo. Ma va ricordato che Mastrocinque è l’abile chef (coadiuvato da Ettore Scola in seconda unità di regia) che, con assoluta naturalezza, orchestra il tutto.
Il cinema italiano nella sua forma più alta.







Dorian Gray