Translate

martedì 31 gennaio 2023

I GIOCHI DEL DIAVOLO: LA MANO INDEMONIATA

1213_I GIOCHI DEL DIAVOLO: LA MANO INDEMONIATA Italia, 1981; Regia di Marcello Aliprandi. 

17 giugno 1981. A volte si usa prendere una data precisa per sancire la fine di un’epoca, anche solo a modo simbolico. Si pensi a Odoacre che depose l’ultimo imperatore, Romolo Augusto, per sancire la caduta dell’Impero Romano d’Occidente oppure alla scoperta dell’America che chiuse il Medioevo. Come detto si tratta di riferimenti presi simbolicamente: allo stesso modo possiamo prendere la data di messa in onda di La mano indemoniata come fine dell’era gloriosa degli sceneggiati Rai. Il film televisivo di Marcello Aliprandi faceva parte del ciclo I giochi del Diavolo, ovvero Storie fantastiche dell’Ottocento come chiarito dal sottotitolo. In quegli anni, a cavallo dei Settanta e Ottanta, la Rai aveva messo in cantiere numerosi cicli di film con argomenti fantastici, in genere con risultati sempre lusinghieri. A dare un punto d’appoggio privilegiato erano già i soggetti letterari scelti per le trasposizioni e, per non perdere questo vantaggio, per I giochi del Diavolo viene ingaggiato Italo Calvino come consulente alla selezione dei soggetti. Nello specifico La mano indemoniata è tratta da un racconto di Gérard de Nerval, scrittore francese poco noto appartenente alla corrente del romanticismo ottocentesco. E fin qui, tutto bene, perché una nota di merito dell’emittente nazionale in queste sue produzioni era anche quella di far conoscere autori meno noti affiancandoli alle trasposizioni dei più grandi della letteratura. A mandare all’aria tutto quanto, e a rendere manifesta la fine di quel lungo e fecondo periodo della televisione italiana, sono gli interpreti chiamati per i ruoli principali di questo sceneggiato. Cochi Ponzoni (è Eustachio), Veronica Lario (sua moglie Javotte) e Massimo Boldi (l’archibugiere Giuseppe) sono letteralmente disastrosi. In genere, negli sceneggiati gli attori di stampo teatrale ingaggiati dalla Rai, smorzavano la loro verve interpretativa, pur lasciandola ben presente. Serviva un equilibrio: non si era a teatro, qui il mezzo televisivo comunque aiutava, però bisognava pur compensare la mancanza dei set e delle location cinematografiche a cui il pubblico si era ormai abituato. Gli eccezionali interpreti trovarono presto la giusta misura contribuendo in modo consistente alla funzionalità dei lavori prodotti. Ponzoni, Lario e Boldi quell’equilibrio non lo troveranno mai: alzando il tono di voce, come si può fare nei teatri per farsi sentire fino all’ultima fila della platea, provano a mascherare le carenze interpretative. Sorprende, in questo senso Ponzoni, che non riesce ad uscire dal suo cliché cabarettistico; stupisce anche Boldi, che fa peggio di quanto prevedibile, chiamato ad una prova più impegnativa rispetto a cinema e Tv. Delude in modo totale anche Veronica Lario che non riesce neppure ad essere un utile abbellimento di scena. Insomma, in queste condizioni, difficile salvare qualcosa.


  Veronica Lario 

lunedì 30 gennaio 2023

I GIOCHI DEL DIAVOLO: LA PRESENZA PERFETTA

1212_I GIOCHI DEL DIAVOLO: LA PRESENZA PERFETTA Italia, 1981; Regia di Piero Nelli.

Nientemeno che Henry James è l’autore che la serie di film televisivi I giochi del Diavolo prende ora a soggetto, mettendo il suo racconto Il fantasma di Edmund Orme nelle mani di Pietro Nelli. Il versatile ma poco prolifico autore toscano si prende una bella gatta da pelare, perché la poetica di James e la natura della sua profonda inquietudine sono tra le cose più difficili da rendere su uno schermo. E La presenza perfetta, il risultato di questa riduzione televisiva, non è entusiasmante, questo va detto. Che vi sia una narrazione fondamentalmente statica è anche prevedibile, il problema è far correre sotto di essa le inquietudini e i turbamenti che James era capace di suggerire, indurre, lentamente ma inesorabilmente. Nelli ci prova con giudizio, con un’impostazione tutto sommato fedele alla prosa dello scrittore; ma uno sceneggiato televisivo non è un romanzo e i tempi di fruizione sono diversi. Nella versione Rai, il soggetto di James fatica eccessivamente. Eppure l’impianto scenico e narrativo è notevole, la storia e i personaggi hanno un respiro degno del romanticismo ottocentesco. William Berger è un eccellente Henry Vawdrey e, nelle eleganti ambientazioni d’epoca, riesce con la sola maschera facciale a creare la giusta atmosfera. Rada Rassimov nel ruolo di Annie Marden è un’attrice invece forse troppo legata agli anni Settanta, per essere davvero convincente. Più delicata e sfumata, ma forse più credibile nel contesto proprio per questo, Emanuela Barattolo nel ruolo della figlia di Annie, Charlotte. Nella storia d’amore che si sviluppa tra Henry, noto scrittore, misantropo e scapolo impenitente, e la giovane Charlotte, si inserisce il fantasma di Edmund Orme, nella lugubre figura interpretata con rara efficacia da Franco Ressel. Le sue angosciose apparizioni sono accompagnate dai rintocchi della suggestiva di musica di Piero Piccioni e quando il finale a sorpresa sembra dissolverle per sempre, un nuovo dubbio ci attanaglia. Lo spettro di Edmund Orme era un morto non del tutto morto, Henry, nonostante l’amore di Charlotte, si sente un vivo non del tutto vivo. Ma allora, forse, seppur non del tutto trascinante, questo La presenza perfetta, è comunque evocativo della poetica di James. Niente male, quindi.    



Rada Rassimov 



Emanuela Barattolo 

domenica 29 gennaio 2023

I GIOCHI DEL DIAVOLO: LA VENERE D'ILLE

1211_I GIOCHI DEL DIAVOLO: LA VENERE D'ILLE Italia, 1981; Regia di Mario e Lamberto Bava.

Il secondo appuntamento con i film televisivi della serie I Giochi del Diavolo si inserisce nel solco dell’esordio, sia per qualità media del prodotto che per temi specifici. Ovviamente una certa attinenza è scontata, essendo tutti i film della serie Storie fantastiche dell’Ottocento, come recita la tag-line introduttiva del programma, ma tra gli autori dei soggetti, e i soggetti stessi, di questi due primi film si va al di là della generale affinità legata all’appartenere allo stesso genere. La Venere d’Ille, prima che film di Mario e Lamberto Bava, è un racconto di Prosper Mérimée, autore misconosciuto ma almeno da ricordare anche per Il vaso etrusco oltre che per Carmen, il testo reso celeberrimo nella versione musicata da Georges Bizet. Non è, quindi, un autore relativamente importante che la RAI, con la sua trasposizione televisiva, vuole riscoprire giusto per darsi un tono, con quel vezzo un po’ snob che contraddistingue spesso questo genere di operazioni. Mérimée è uno scrittore interessante, seppure non particolarmente prolifico, e bene ha fatto l’ente televisivo nazionale a metterlo al centro dell’attenzione. Volendo guardare, anche questo è un elemento che accomuna i primi due film del ciclo I Giochi del Diavolo, visto che neppure E.T.A. Hoffman, di cui era stata tradotto sul video L’uomo della sabbia (per la regia di Giulio Questi), ha una fama che renda merito al suo valore. 

Ma le analogie tra Mérimée e Hoffman, e di conseguenza dei due film citati, vanno al di là della loro scarsa popolarità, e di cui la principale si può condensare nella capacità di far coesistere l’elemento fantastico con una prosa realistica e impersonale. Fu davvero troppo severo il grande Victor Hugo quando chiuse una sua poesia con il tranciante verso “il paesaggio è piatto come Mérimée”, perché l’autore de La Venere d’Ille quando si dilunga nelle questioni archeologiche legate all’origine greca della statua ci mette passione e competenza e accresce la credibilità del racconto, sebbene forse a danno di una maggiore scorrevolezza (annoiando di conseguenza Hugo). I Bava, padre e figlio, sono bravi perché nella trasposizione televisiva, realizzata peraltro con mezzi cinematografici, sfumano questi aspetti del racconto, lasciando in maggiore risalto l’enigmatica figura della statua e la sua vera o presunta capacità di animarsi in qualche modo. 

E qui salta all’occhio un’altra analogia con L’uomo della sabbia, visto che in entrambi i casi abbiamo una figura inanimata di donna che prende misteriosamente vita. La regia dei Bava, non potendo e forse non volendo, ricorrere ad effetti speciali per animare la statua della Venere ricorre alla suggestione, in parte quella di cui vediamo gli effetti sui personaggi del racconto, in parte quella provocata negli spettatori direttamente dal film. Ovviamente questi ultimi sono i passaggi migliori, si veda ad esempio quello del riflesso della statua sul vetro della finestra, ma va riconosciuto che La Venere d’Ille, pur essendo un testo interessante, in quest’ottica non si può certo dire l’opera migliore di Mario Bava e nemmeno del figlio Lamberto. Tra gli attori Daria Nicolodi (è Clara) aiuta a creare la giusta indefinita atmosfera per alimentare la traccia fantastica, mentre Marc Porel (è Matthieu) assiste in modo impersonale allo sviluppo della trama, interpretando perfino in modo eccessivo lo scetticismo di un certo tipo di spettatore. Fausto di Bella (è Alfonso) ha invece l’ingrato ruolo sacrificale sebbene il suo personaggio prima della tragica fine ha modo di spassarsela, attività che l’attore italiano interpreta con entusiasmo. Nel complesso il film funziona; difficile dire se la trasposizione abbia colto la poetica di Mérimée, ma certo ne ha trasmesso una parte della sua eredità. I veri valori borghesi – ben rappresentati dal matrimonio d’interesse tra Alfonso e Clara – nella prima metà dell’Ottocento cominciavano già a mostrare i loro limiti, messi in chiara evidenza nel confronto con la severa e austera bellezza della cultura classica – la Venere. Forse Mérimée, e come lui molti altri romantici ottocenteschi, non l’avrebbero mai supposto ma quasi due secoli dopo quelle criticità non si sono affatto risolte. Anzi. 


Dario Nicolodi 

sabato 28 gennaio 2023

I GIOCHI DEL DIAVOLO: L'UOMO DELLA SABBIA

1210_I GIOCHI DEL DIAVOLO: L'UOMO DELLA SABBIA Italia, 1981; Regia di Giulio Questi.

Il primo dei Giochi del Diavolo, ciclo di film televisivi targati RAI dedicati alla letteratura fantastica, si prende la briga di tradurre in immagini un testo alquanto impegnativo: L’uomo della sabbia, di E.T.A. Hoffmann. Per l’occasione la RAI mette a disposizione del regista Giulio Questi un’attrezzatura degna del cinema su grande schermo e non le tradizionali telecamere televisive che, per un testo prevalentemente intimistico, non è cosa da poco. Giulio Questi sfrutta a dovere l’opportunità realizzando una riduzione dell’opera di Hoffmann non solo rispettosa ma anche efficace. Certo, tutti i risvolti della prosa dello scrittore tedesco non sono facile da carpire e riprodurre in immagini ma lo sceneggiato conserva un malsano fascino che inquieta le convinzioni dello spettatore. Olimpia, la figlia del professor Spallanzani (Ferruccio De Ceresa) è in realtà un automa ma l’inganno che spinge Nataniele (Donato Placido) ad innamorarsene, per quanto assurdo, finisce per essere grottescamente convincente. Del resto va riconosciuto che, anche nella realtà, spesso ci si innamora di un’idealizzazione dei nostri desideri e non della persona realmente oggetto del nostro sentimento. Hoffmann enfatizza un po’ il concetto, Nataniele perde la testa per una sorta di manichino animato, per quanto fatto benissimo (nel film interpretato da una piacevole ragazza rimasta anonima nei crediti). Coppola (Mario Feliciani) è forse il personaggio migliore nell’alimentare la sensazione di viscido intreccio che pervade il racconto e finisce per imbrogliare tanto noi quanto il Nataniele protagonista dell’assurda vicenda. Quello di Giulio Questi non è forse un capolavoro, questo va detto, ma tutto sommato riesce bene nell’intento di presentarci parte della malìa della prosa di Hoffmann. E non è affatto poco.  




venerdì 27 gennaio 2023

LA TREGUA

1209_LA TREGUA Italia, Francia, Germania, Svizzera 1997; Regia di Francesco Rosi.

Tratta dall’omonimo libro di Primo Levi, La tregua di Francesco Rosi è quindi un film che racconta il viaggio di ritorno a casa dei sopravvissuti di Auschwitz, proprio come nel testo all’origine. Il tono quasi leggero del racconto, che è esplicitato sin dal titolo, voleva evidenziare uno stato di pausa, nella condizione terribile di Levi e degli altri reclusi del campo di concentramento; ma prima o poi ci si aspettava risuonasse ancora il perentorio Wstawac, il comando della sveglia che invitava i prigionieri ad alzarsi. Perché, come ripete anche nel film il greco, la guerra non è mai finita, guerra è sempre! Rosi quindi prova ad interpretare sullo schermo questa sospensione del dramma ma non sembra cogliere appieno la valenza del discorso di Levi. Per quanto si professasse sospettoso (tregua, come concetto da utilizzare per definire una liberazione, è emblematico), lo scrittore raccontava di un suo ritorno alla vita; Rosi fatica un po’ di più, (molto di più?) e i suoi personaggi in questo intento forse paiono anche eccessivamente pittoreschi. John Turturro è un intenso (forse troppo di maniera?) Primo Levi accompagnato da una combriccola di guasconi: il romano Cesare (Massimo Ghini), il ladro di professione Ferrari (Claudio Bisio), il violinista Unverdorben (Roberto Citran), il siciliano D’Agata (Andy Luotto), il bel Daniele (Stefano Dionisi) e il citato filibustiere greco Mordo Nahum (Rade Serbedzija), simpatico come una multa. Con questi elementi il ricordo del lager quasi sbiadisce e pare lieve anche l’assurdo peregrinare che porta i reduci, prima del ritorno casa, fino in Bielorussia – cioè a nordest rispetto ad Auschwitz, ovvero la direzione completamente opposta alla destinazione finale – con un viaggio più lungo del necessario di un qualche migliaio di chilometri, molti dei quali fatti a piedi. Una simile odissea dopo una lunga detenzione in un campo di concentramento nazista, questo giova sempre ricordalo; e se Levi l'assoluta disperazione dei reduci riusciva a sospenderla in ossequio a quella tregua di cui parla già nel titolo della sua opera, con il film di Rosi si rischia di dimenticarla per davvero. E questo è forse il limite maggiore di un film che, va riconosciuto senza indugio, si prende un rischio enorme, come portare sullo schermo un testo tanto delicato e, nel complesso, riesce anche ad essere una buona prova d’autore.
Ma il paragone col libro, in questo caso nemmeno troppo fuori luogo, pesa come un macigno.     




Lorenza Indovina

Galleria di manifesti 




giovedì 26 gennaio 2023

FREE CHOL SOO LEE

1208_FREE CHOL SOO LEE Stati Uniti 2022; Regia di Julie Ha e Eugene Yi.

La cosa più avvilente, guardando Free Chol Soo Lee, documentario di Julie Ha e Eugene Yi, è che dai fatti narrati sono passati quasi cinquant’anni. Quando la polizia di San Francisco arresta l’immigrato coreano Chol Soo Lee è infatti il 7 giugno 1973: le circostanze che lo porteranno alla condanna sono molto generiche e, anche senza voler necessariamente prestare fede alla tesi sposata dal documentario, sarà poi la stessa Giustizia americana a ribadirlo. Tuttavia per Chol Soo Lee da quel giorno di inizio giugno comincia un vero e proprio inferno: condannato ingiustamente per l’omicidio di Yip Yee Tak, finisce all’ergastolo. Durante il soggiorno in carcere rimane coinvolto in un altro omicidio e, considerata la sua già grave posizione, viene ulteriormente condannato alla pena capitale. Prima di essere definitivamente assolto saranno dieci gli anni di prigione per il nostro povero immigrato coreano, di cui otto nel braccio della morte e con la prospettiva di essere giustiziato. Il tutto per un errore giudiziario. E no, troppo comodo. Il tutto per un errore giudiziario dovuto al pregiudizio e alla scarsa considerazione non solo dei diritti umani degli immigrati asiatici ma della loro stessa vita. Negli Stati Uniti d’America; non in qualche sperduto angolo di mondo. E, purtroppo, non possiamo dire, ‘e solo quasi cinquant’anni fa’ perché se il documentario di Julie Ha e Eugene Yi ha ancora questo mordente, è perché i problemi che pone sono ancora attuali. Ed è questo che mette perfino più tristezza del vedere la vita di un uomo ingiustamente rovinata dalle istituzioni che dovrebbero tutelari i diritti di tutti.
Il fatto che sia stato inutile.




Galleria di manifesti 



mercoledì 25 gennaio 2023

ARIAFERMA

1207_ARIAFERMA Italia. Svizzera 2021; Regia di Leonardo Di Costanzo.

Se ci sono stati periodi storici in cui il mondo sembrava andare a tavoletta, ad esempio gli anni Ottanta quando si cambiava un’auto ogni tre anni, altri momenti sembrano scorrere più lentamente. Oggi, tra lockdown più o meno ferrei, siamo fermi; in attesa perenne. Un’attesa che ci rende impazienti, nervosi, timorosi, sospettosi: Ariaferma, e già il titolo è abbastanza esplicativo, arriva a cristallizzare perfettamente questa situazione. In equilibrio tra Aspettando Godot di Samuel Beckett e Il Deserto dei Tartari, romanzo di Dino Buzzati e film di Valerio Zurlini, in perfetta sintonia con la sua filmografia – L’intervallo (2012) e L’intrusa (2017) – Leonardo Di Costanzo ci tiene per due ore su una corda tesa. Arriverà finalmente l’ordine di trasferimento? O scatterà prima la rivolta carceraria? Mortara, un carcere fatiscente di un’imprecisata area sperduta italiana è in dismissione quando arriva la comunicazione che per l’ultima dozzina di reclusi non c’è più posto e devono attendere nuove disposizioni. Un manipolo di guardie carcerarie rimarrà a sorvegliarli. Il geniale impianto narrativo organizzato da Di Costanzo, Bruno Oliviero e Valia Santella è servito. Per controllare meglio i detenuti, vengono spostati nell’area centrale, con le celle disposte in cerchio intorno ad un piazzale di forma circolare. Tutte le attività sono sospese, la cucina è chiusa – dall’esterno arriveranno alimenti già preparati – si attende unicamente l’ordine di trasferimento anche per questi ultimi prigionieri. Ma l’ordine non arriva. L’inattività, il cibo scadente, l’incertezza sul proprio destino, fanno salire sempre più la tensione. Di Costanzo è maestro, in questo, con un sapiente uso della regia da un punto di vista tecnico. 

Le riprese passano dal campo-controcampo al progressivo utilizzo di inquadrature più ampie: in un primo momento si sottolinea la distanza tra gli schieramenti – guardie e detenuti – in seguito si evidenzia la comune situazione di disagio. Ma il regista si dimostra all’altezza anche nella direzione di quegli attori che in Ariaferma fanno la differenza. Toni Servillo (è Gaetano Gargiulo, la guardia che assume il comando per anzianità di servizio) e Silvio Orlando (è Carmine Lagioia, terribile bosso mafioso) sono due figure ingombranti che, in una situazione del genere, potrebbero rovinare tutto proprio con la loro straripante personalità. Che potrebbe rompere l’equilibrio e far collassare il castello di dubbi e incertezze creato da Di Costanzo. Così non è. Servillo è magistrale nel tratteggiare Gargiulo: la guardia, soprattutto rispetto ad altri suoi colleghi, ha un lato tenero, umano; ma non può permettersi di mostrarlo. 

D’altra parte una condotta troppo rigorosa potrebbe avere conseguenze spiacevoli, con i carcerati già esasperati dalle circostanze in cui sono costretti. E’ qui che Servillo si supera: sempre guardingo e riflessivo, pondera bene le sue decisioni cercando di tenere nascosti i propri sentimenti di umanità per i detenuti costretti in condizioni disumane. Davanti a sé, Lagioia è sempre sul punto di cogliere l’occasione; o forse è solo un’impressione, fatto sta che Silvio Orlando è altrettanto straordinario a tratteggiare una diversa ambiguità. Ma è davvero ambiguo, Lagioia? E’ davvero pericoloso, è davvero sul punto di scatenare una rivolta? E’ un dubbio legittimo perché il mafioso è scaltro ad approfittare della propria nomea per avere ogni minimo vantaggio ma il racconto ci dice che è a fine pena e quindi non ha alcun interesse a creare problemi. E allora com’è che quando vediamo ripetutamente l’armadio coi coltelli della cucina aperto da Gargiulo, pensiamo che la svolta narrativa decisiva sia vicina? Si tratta di meccanismi narrativi e cinematografici di cui Ariaferma è intriso: se ci sono le condizioni perché un evento accada, prima o poi dovrà accadere, siamo naturalmente propensi a pensare. Evidentemente la lezione di Beckett non è servita. Ma questo vale non tanto al cinema; piuttosto anche al cinema. E quel ‘anche’ presuppone un pregiudizio pericoloso che si è ormai radicato anche nella nostra vita quotidiana. Provare a estirparlo, come fa Ariaferma, è un’operazione dura e difficile, ma più che mai necessaria.




Galleria di manifesti 


lunedì 23 gennaio 2023

IL MALE NON ESISTE

1206_IL MALE NON ESISTE (Sheytān vojud nadārad). Iran, Germania, Rep. Ceca 2020; Regia di Mohammad Rasoulof.

“L’Iran da solo è il Paese che ha contribuito di più all’aumento del numero globale delle pene capitali” con queste parole il sito internet Osservatorio Diritti fotografava nel 2021 la tragica situazione del paese mediorientale. Come sua abitudine, il cinema, in queste condizioni sociali difficili, diventa uno strumento cruciale: e oltretutto il cinema iraniano non è certo un cinema qualsiasi ma semmai l’espressione di un movimento vitale e più che mai deciso a far sentire la sua voce nonostante la pesante censura di regime. Tra l’altro il tema ha preso particolarmente vigore, non che ce ne fosse bisogno, in tempi successivi a quell’analisi. Il Male non esiste film di Mohammad Rasoulof Orso d’oro a Berlino 2020 diventa quindi un testo indispensabile. Diviso in quattro episodi, il lungometraggio di Rasoulof si apre con Il Diavolo non esiste che, dopo una lunga fase di studio, sfodera un finale che mette lo spettatore totalmente KO. Da un punto sportivo il film andrebbe sospeso per dar tempo al malcapitato di riprendersi ma naturalmente non sarà così. E dire che l’approccio era stato tranquillo: nel corso di questo primo capitolo, infatti, assistiamo alla quotidiana vita di Heshmat (Ehsan Mirhosseini) e della sua famiglia. L'uomo è un bravo marito; aiuta la moglie nelle faccende di casa, va con lei a fare la spesa, a prendere la figlioletta a scuola e ad assistere l’anziana madre. La macchina da presa di Rasoulof rimane stretta sulla coppia, soprattutto nei tragitti in auto: l’Iran, dai finestrini della macchina, oppure all’interno del supermercato, sembra in tutto e per tutto un paese occidentale. 

Non è un posto poi così terribile, viene da pensare. Ma poter vivere una vita tranquilla come un normale cittadino del mondo libero, in Iran, ha un prezzo. E lo scopriamo nel traumatizzante finale del primo episodio, quando tornato al suo lavoro, quasi distrattamente Heshmat abbassa una grossa leva. I piedi che si agitano per alcuni lunghissimi secondi, mentre sullo sfondo da uno dei cadaveri appesi sgocciola anche dell’urina, sono ben oltre la soglia di sopportazione, vuoi per drammaticità in sé, per la sorpresa della scena inaspettata e, soprattutto, per la consapevolezza che non si tratta di fantasie astratte dell’autore. Come detto Il Male non esiste non concede pause e ci troviamo già nel secondo capitolo, Lei ha detto: lo puoi fare. Intanto salta all’occhio subito come Rasoulof faccia notare che le donne iraniane non sono figure di secondo piano, come vorrebbe l’attuale regime, perché il titolo del capitolo fa esplicito riferimento ad un permesso che una lei ha concesso e che autorizza il protagonista del racconto Pouya (Kaveh Ahangar) a fare qualcosa. 

Pouya è un soldato di leva e apprendiamo così che anche i militari non di professione devono assolvere l’incarico di giustiziare i condannati a morte. Il ragazzo non sembra però in grado di compiere un simile abominio e tentenna, si dispera in preda ad un’angoscia tale da sembrare lui ad essere destinato alla pena capitale. La scena è claustrofobica con il nostro attorniato dai commilitoni nella stretta stanza della caserma che provano a convincerlo che si tratta di un’esperienza comune a tutti loro. E poi non hanno responsabilità dirette, che compete invece al tribunale; e se il condannato è stato giudicato colpevole, non sarà poi questo stinco di santo, e via di questo passo con tutte le attenuanti che i giovani si sono a loro volta dati quando è stato il loro momento. Ma Pouya non è affatto d’accordo e, per questo, si era messo d’accordo con la sua ragazza, da cui arriva appunto il via libera, per scappare come da piano concordato. 

La fuga del militare certifica che l’impressione avuta era esatta: la pena di morte è una condanna che affligge non solo i quali vengono giustiziati. Il successivo capitolo Compleanno, ribalta questo assunto: il soldato di leva Javad (Mohammad Valizadegan) il suo dovere nella sala delle esecuzioni l’ha fatto. Ora è in licenza premio e sta per recarsi al compleanno di Na’na (Mahthb Servati) per chiederle ufficialmente, nell’occasione, di fidanzarsi con lui. A casa di Na’na ci sono tutti e la situazione sembra propizia, con la ragazza consenziente e i famigliari di lei ben disposti verso il ragazzo. Peccato ci sia un funerale proprio in quei giorni: un caro amico di famiglia è stato giustiziato dal regime. Quando Javad vede la foto dell’uomo a lui in teoria sconosciuto – e drammaticamente lo riconosce – crolla il suo mondo. Il tuffo nel torrente stavolta sembra un tentativo estremo; nel film il tema del lavarsi è invece ripetuto più volte, quasi che sia necessario a tutti quanti di mondarsi da un peccato tanto grave compiuto effettivamente nel nome del popolo.

Baciami, il quarto e ultimo capitolo, ci propone una prospettiva ancora diversa. Darya (Baran Rasoulof, star della pellicola e figlia del regista) è una ragazza che torna in Iran dalla Germania, dove era andata a vivere dopo la morte del padre. Ad attenderlo c’è suo zio Bahram (Mohammad Seddighimehr) che, a sorpresa, rivelerà alla giovane di essere il suo vero genitore. Al tempo l’uomo rifiutò il ruolo di boia, finendo ai margini della società civile iraniana, dove tutt’ora vive; da quell’indigenza la necessità di spedire la figlia all’estero. In una landa desolata e spoglia, peraltro bellissima, va in scena un astioso dramma famigliare con Darya che accusa suo padre di averle precluso, con i suoi scrupoli di natura personale, la possibilità di una vita normale. La ragazza, prima della rivelazione sul suo passato, era stata a caccia con Bahram ma si era rifiutata di sparare ad una volpe. All’apice dello scontro dialettico, l’uomo rinfaccia alla figlia la sua stessa debolezza, nel risparmiare l’animale. Ma Darya non sente ragioni: nessuno avrebbe sofferto per questa sua scelta a differenza del caso in cui era stato Bahram a rifiutarsi di dispensare la morte. Il film si chiude così: Rasoulof (il regista) lascia in sospeso il giudizio anche se il fatto che ad interpretare il ruolo di Darya sia sua figlia Baran può essere un indizio. Il cineasta è, come molti altri suoi colleghi, inviso al regime e sua figlia è dalla sua parte, partecipando appunto alla realizzazione del film. Si tratta quindi più che altro di un’assunzione di responsabilità, la presa di consapevolezza che ribellarsi all’ingiustizia istituzionale avrà spiacevoli ripercussioni. In ogni caso, la volpe che fa capolino nel finale, guardando una Darya ancora furiosa più che dubbiosa, sembra quasi volerle dire che si sbaglia e che risparmiare una vita è un dovere morale al di là delle conseguenze che la cosa può avere.   




Baran Rasoulof



Galleria di manifesti