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giovedì 31 luglio 2025

ADDIO MIA BELLA SIGNORA

1706_ADDIO MIA BELLA SIGNORA , Italia 1954. Regia di Fernando Cerchio

Il titolo del film del bravo Fernando Cerchio Addio mia bella signora, riecheggia la famosa canzone risorgimentale Addio mia bella addio (1848, di Carlo Alberto Bosi) che, in effetti, nella pellicola viene intonata un paio di volte. Il racconto filmico è, infatti, ambientato durante la Prima Guerra Mondiale e i temi patriottici erano quindi pertinenti; una scelta condivisibile, visto che, al cinema, non c’è niente di meglio della musica per creare la giusta atmosfera. Per altro quello di Cerchio è un melodramma, di quelli tosti degli anni cinquanta, e quindi, ecco che ancora più importante del pezzo patriottico citato è la canzone Addio mia bella signora (a volte indicata come Addio signora, in questo caso cantata da Giacomo Rondinella stando ai titoli di testa del film o da Elio Mauro secondo il sito IMDb). La questione della canzone non è secondaria in quanto il pezzo divenne celeberrimo (riproposto, tra gli altri, nel corso degli anni da Gino Tajoli e da Claudio Villa) e nel film è usato magistralmente da Cerchio come effetto trainante. Sulle struggenti note della canzone melodica, le scene romantiche tra Cristina (un’elegante Alba Arnova) e Guido (Armando Francioli) sono girate con stile calligrafico impeccabile dal regista, quasi un videoclip dal sapore impressionista, ma il nocciolo della questione è altrove. Cristina, infatti, è già sposata con il colonnello Riccardo Salluzzo (un monumentale Gino Cervi), uomo decisamente più attempato della giovane moglie. La Grande Guerra è scoppiata e il colonnello è partito per il fronte; a badare alla lussuosa magione è rimasto il suo attendente Giuseppe (un altrettanto monumentale Nino Pavese) troppo anziano per svolgere il suo ruolo in prima linea. Guido aveva adocchiato Cristina prima che questa si sposasse ma aveva dovuto desistere di fronte al matrimonio della ragazza. Ora però, col marito assente, complice alcune amicizie comuni (tra cui val la pena citare Marco interpretato da un già pimpante Franco Fabrizi), il giovanotto poteva tornare a fare il cascamorto con la giovane sposa. Qui c’è un passaggio cruciale nell’economia della disputa morale che scaturirà dalla torbida storia (del resto si tratta di un melò strappalacrime): Clara (Laura Gore) invita Cristina ad una festa in onore dei volontari universitari quando il colonnello non è ancora partito per la guerra. Alla festa la ragazza incontra nuovamente Guido che subito coglie al volo l’occasione per corteggiarla; ben sapendo che questa è una donna sposata. 

Poi, certamente quello tra Cristina e il colonnello non era un matrimonio di cuore, diciamo così, e la ragazza non era felicemente innamorata del marito; ma la scorrettezza di Guido, il suo tempismo opportunista, rimane evidente. Anche perché, pur proclamandosi volontario universitario, mentre il colonnello è in prima linea il giovane si guarda bene dall’arruolarsi e pensa a fare la bella vita con Cristina e gli amici. La situazione di idillio temporaneo, in quanto è evidente che prima o poi lo spasso finirà, è interrotta da un colpo di scena: dal fronte arriva la notizia che il colonnello è morto. Cristina, dimostrando un certo spessore morale, è turbata dai suoi sentimenti, dalla sua irrefrenabile gioia che sovrasta il pur timido dispiacere per la morte di un marito che, seppur sia sempre stato buono nei suoi confronti, non ha mai amato. Di ben altra pasta è fatto Guido che invece minimizza gli scrupoli e la sprona ad un deciso cambio di passo, ora che è libera dai precedenti vincoli. Per festeggiare il natale e la decisione di sposarsi, niente di meglio che andare in campagna con gli amici: quando giunge un’altra notizia dal fronte, che ribalta nuovamente la situazione. Il colonnello non è morto, è tornato mutilato agli arti inferiori. Cristina, sentendosi colpevole, rivede i suoi programmi ma Guido non molla e minaccia di rivelare al marito della loro tresca se non ci penserà la ragazza a chiarire la questione. Il torbido drammone è ben strutturato con i giusti incastri narrativi e il colonnello arriva a conoscere la verità e gioca d’anticipo mettendo sotto muto ricatto morale la moglie, in una situazione che si fa sempre più tesa. Guido scalpita, Cristina è insofferente, il colonnello istiga sornione: notevole la condotta in regia di Cerchio. Poi, quando la tensione arriva all’acme, è il vecchio militare a fare un passo indietro. Mentre Guido si è finalmente deciso ad arruolarsi pur di smuovere Cristina dal suo stallo, e la ragazza ormai ha ceduto, il colonnello medita il suicidio per farsi da parte. Giuseppe, figura sempre presente e incaricata di facilitare gli snodi della trama, se ne accorge per tempo e avverte Cristina. La donna, vedendo che l’anziano marito è pronto a togliersi la vita pur di non ostacolarne la felicità, decide di dare corpo alle parole della canzone che dà il titolo al film, lasciando Guido ad attenderla inutilmente al solito appuntamento. Il melodramma, genere che spesso ha una forte matrice morale, è quindi compiuto: i personaggi, in un modo o nell’altro, finiscono per fare il proprio dovere. Il colonnello ha lasciato le gambe, per compierlo; Cristina rinuncia all’amore, per rispettare il suo legame col marito. E Guido, sebbene è legittimo dubitare del suo reale intento, partirà con i bersaglieri. Poco male; sentito o meno che sia, dovrà farlo di corsa.    




Alba Arnova 



Galleria 








sabato 19 luglio 2025

FRATELLI D'ITALIA

1700_FRATELLI D'ITALIA , Italia 1952. Regia di Fausto Saraceni

Ingiustamente relegato in quel limbo dell’anonimato in cui l’intellighenzia italiana del dopoguerra segregò tutti i riferimenti patriottici italiani, Fratelli d’Italia è un onesto film che racconta una fase importante della nostra nazione. Per nazione, letteralmente, si intende quella comunità che ha in comune origine, lingua e storia e, quindi, il fenomeno dell’irredentismo istriano, oltre a non essere campato in aria, appartiene di diritto al nostro vissuto. Era evidente che, nel 1952, a Seconda Guerra Mondiale appena conclusa, la questione fosse spinosa, visto che a liberare l’Italia pochi anni prima erano stati quegli stessi americani che, per mano del presidente Wilson, avevano arbitrariamente deluso le nostre più o meno fondate istanze sulla questione istriana. In Italia, si sa, c’è sempre la mania di essere più realisti del re, ed ecco quindi che l’élite politico culturale del nostro paese troverà il modo di compiacere i nuovi alleati (in cambio di copiosi aiuti e finanziamenti, questo va riconosciuto) andando a epurare dalla nostra tradizione popolare tutti quei riferimenti scomodi alle nuove esigenze. La figura di Nazario Sauro fu tra quelle che pagò questo scotto così come quella di Enrico Toti o di Francesco Baracca. Per decenni, in Italia, i ragazzini conosceranno a menadito le imprese di Davy Crockett e del colonnello Custer, mentre le figure storiche di eroi italiani come Toti, Sauro, Cesare Battisti (il patriota, non il terrorista) e compagnia resteranno completamente ignote. Certamente il cinema fece la fortuna degli Stati Uniti, della sua storia e della sua cultura ma non è che in Italia non conoscessimo la settima arte. Purtroppo, come si è detto, l’élite artistica sposò in toto una linea diversa, dando vita a fenomeni cinematografici di primo livello (ad esempio il neorealismo) ma raramente qualcuno si prese la briga di ribadire il valore e l’eroismo di certi nostri compatrioti. Anche perché, l’intellighenzia (ovvero l’élite intellettuale non artistica) operò in modo sistematico tacciando di anacronismo (nel migliore dei casi) questi argomenti sbandierando continuamente lo spettro del fascismo. In realtà, oggettivamente, per quel che riguarda i temi della Prima Guerra Mondiale, il fatto che il regime del Ventennio avesse utilizzato tutta la retorica possibile inerente alla Vittoria (e ancor più alla Vittoria mutilata), questo non rendeva questa materia necessariamente di loro esclusiva competenza. I Toti o i Baracca erano stati e continuano tutt’ora ad essere eroi italiani. A quel tempo l’Italia, giuste o sbagliate che fossero le scelte che prese il governo in carica, chiese a questi uomini di combattere e questi uomini fecero ben più di quello che erano chiamati a fare, ovvero il loro dovere, tanto da meritarsi pienamente l’appellativo di eroi, per quanto si possa, oggi, pensare che sia desueto. All’epoca non lo era: e Nazario Sauro, protagonista di Fratelli d’Italia, eroe lo fu di sicuro. Nel film, Sauro (interpretato efficacemente da uno statuario Ettore Manni), irredentista istriano, fugge in Italia per arruolarsi nella Regia Marina. Il tenore dell’opera di Fausto Saraceni, produttore in questa circostanza prestato alla regia, risente della corrente melodrammatica che negli anni cinquanta imperversava nella penisola e che, con i suoi eccessi, ben si prestava al connubio coi temi patriottici. In effetti la scena iniziale con Fausto che saluta sua madre Anna (Olga Solbelli) prima di abbandonare Capodistria, sembra raddoppiare il rapporto materno dell’uomo. E’ vero che Sauro lascia la madre naturale in Istria ma, approdando in Italia, lo fa quindi per abbracciare la sua patria, che è la sua terra madre

Tuttavia la figura di Anna è introdotta sin dal principio, definendone il forte legame col figlio, anche per far comprendere bene la natura del suo comportamento nel processo finale, nel quale la donna sarà chiamata a deporre. Sauro si era, nel frattempo, fatto valere sotto le armi ma, per poter essere imbarcato in un ruolo attivo senza eccessivi rischi, aveva dovuto cambiare nome in Nicolò Sambo, con il quale divenne noto come una vera e propria ira d’iddio. Il cambio di nome non era un vezzo: se fosse stata nota la vera identità, il nostro poteva essere facilmente ricattabile dagli austriaci, vivendo la sua famiglia in una terra sotto il dominio imperiale. La cosa diveniva di pericolo estremo in caso di cattura del valoroso militare. Cosa che avvenne allorché il sommergibile Pullino finì incagliato nelle acque della costa adriatica del golfo del Quarnaro; una volta catturato, Sauro si qualificò come Nicolò Sambo ma venne fortuitamente riconosciuto, nel film dal tenente Sarnich (Carlo Hintermann). Il Sarnich era già stato al centro della scena, nella pellicola, durante una discussione quando Sauro stava ancora a Capodistria; a fronte dell’irredentismo convinto di Nazario, il compagno aveva controbattuto che l’Impero Austroungarico, con la sua forza e importanza, offriva protezione e sicurezza. C’è quindi, nel racconto, il tentativo di dar corpo alle istanze diverse dalla prospettiva principale del narrato. Tornando a Sarnich, in tribunale non sarà comunque lui ad essere l’elemento chiave ma questo ruolo se lo disputeranno Steffé (Paul Muller) e la madre di Nazario, Anna. Steffé era il cognato di Sauro oltre che maresciallo della guardia di finanza austriaca e non si fece problemi a riconoscere il prigioniero che si proclamava essere Nicolò Sambo con la vera identità di Nazario Sauro. La madre, chiamata anch’essa a deporre, si trovava in una difficile situazione: era di fronte al figlio potenzialmente condannato a morte, per cui decise di non riconoscerlo per evitargli la forca. Ma questo voleva dire non poterlo nemmeno riabbracciare oltre a rischiare di essere processata per falsa testimonianza. Infatti, se negava di essere la madre, perdeva il beneficio concesso per il suo stretto legame con l’imputato, e si poteva procedere contro di lei per verificare se avesse detto la verità. Una sorta di paradosso legale, in quanto bene o male era chiaro che Anna e Nazario erano madre e figlio. Tuttavia il capitano March (Marc Lawrence), incaricato di sostenere l’accusa, vi ricorse paventando contro Sauro la minaccia di inquisirne e interrogare, con i mezzi necessari per farla confessare, sua madre. L’irredentista però non cedeva e negava di essere Sauro, suddito dell’Impero Austroungarico e passibile, quindi, di pena di morte per diserzione e alto tradimento. March faceva leva su una presunta vigliaccheria di Sauro che si nascondeva dietro le bugie della madre per sfuggire la giusta condanna: e, in qualche frangente, il dubbio sembra assalire anche la prospettiva del racconto filmico. Era da considerare, infatti, onorevole per un eroe coinvolgere la madre nelle proprie imprese? Si trattava però di tener fede ad un giuramento, quello fatto da Nazario al momento del suo arruolamento presso la Regia Marina. Poi, quando March propone un confronto diretto tra Anna e Steffé, Nazario crolla: nel racconto riaffiora prepotente il tenore melodrammatico dell’inizio, Sauro rompe gli indugi e appella la donna con l’inequivocabile termine “mamma!” condannandosi praticamente a morte. La donna sembra rendersene conto e continua a negare quasi perdendo il lume della ragione: davanti alla sua disperazione, mentre due militari la portano fuori, la corte del processo si alza rispettosamente in piedi. E’ certamente un passaggio che trabocca un sentimentalismo, in questo caso tragico, esagerato, come era d’abitudine nei melodrammi strappalacrime dell’epoca: ma, forse, la morte per impiccagione come traditore, per un uomo che ha semplicemente combattuto per la sua gente, anzi, per la sua patria, è una situazione che giustifica gli eccessi di una simile narrazione. Nel bilancio complessivo molti fattori possono concorrere ma, alla luce della storia del cinema del nostro paese, Fratelli d’Italia non è tanto un buon film o un cattivo film, quanto un film indispensabile: essendo l’unico che ci narra le imprese di Nazario Sauro.









giovedì 3 aprile 2025

DOSSIER MATA HARI

1647_DOSSIER MATA HARI . Italia, 1967. Regia di Mario Landi

Tra i tanti interessanti sceneggiati proposti dalla Rai negli anni Sessanta/Settanta, un posto particolare spetta sicuramente a Dossier Mata Hari. L’elemento che rende importante questa fiction d’epoca, è l’approccio scelto: su una base rigorosamente storica, o almeno frutto di ricerca su documenti del tempo, si innestano i dubbi di natura umana e morale degli autori. Oltretutto, il tema è delicato, considerando che lo sceneggiato venne trasmesso su quel Canale Nazionale – l’odierna Rai Uno – che, da sempre, ha mantenuto una filosofia moderata e attenta agli argomenti proposti. La rete ammiraglia della Rai era, e in parte ancora è, considerata il riferimento domestico e famigliare e Mata Hari – nel film interpretata in modo convincente da Cosetta Greco – vista in questa prospettiva, è un personaggio quantomeno ambiguo. La fama poco lusinghiera che accompagna la ballerina olandese, al secolo Margaretha Geertruida Zella, è sfruttata, tra l’altro, in modo ‘scaltro’ – narrativamente parlando – da Mario Landi e Bruno di Geronimo, autori del soggetto: l’atteggiamento scostante del capitano Bouchardon (Gabriele Ferzetti, eccellente) riassume probabilmente la comune opinione a riguardo della figura di Mata Hari. Per quanto nei varietà televisivi le soubrette in quegli anni Sessanta stessero sgambettando già da un po’, da un punto di vista ‘morale’, un paese ipocritamente bigotto come l’Italia non si poneva particolarmente ben disposto nei confronti di un personaggio come la seducente spia olandese. Il capitano Bouchardon è chiamato a svolgere le indagini preliminari per decidere se mandare a processo Mata Hari; il suo scetticismo, la sua diffidenza, nei confronti della donna, sono quelli del pubblico, verrebbe quasi da dire del popolo, a fronte del quale la spia doveva essere nuovamente condannata o assolta. In questo senso l’opera degli autori è notevole: non già una pedestre ricostruzione degli eventi, ma un nuovo processo, fatto a mezzo secolo di distanza, per comprendere se Mata Hari fosse davvero colpevole. Colpevole al punto da meritarsi la fucilazione, beninteso, e questo pur in un contesto del tutto peculiare come la guerra. 

Per le quattro puntate in cui è diviso il racconto filmico, sono previsti quattro incipit in cui Riccardo Cucciolla fa il punto della situazione, all’occorrenza riassumendo gli avvenimenti ma cristallizzando anche i dubbi che, man mano, aleggiano sull’operato dei giudici militari francesi. L’opinione degli autori è, ovviamente, già formata sin dall’inizio ma allo spettatore vengono forniti gli indizi un poco alla volta, in modo coerente con una ricostruzione investigativa della faccenda. Qualche scorciatoia, per la verità, Landi e di Geronimo, se la prendono: ad esempio, nella riunione militare nella quale il generale (Mario Ferrari) incarica Bouchardon di preparare il processo, è evidente che l’esito del lavoro del capitano è, o deve essere, quello preventivato. Ma questo passaggio, posto al principio del primo episodio, se predispone gli sviluppi successivi, può essere inteso come una sorta di introduzione e, di conseguenza, finire per essere considerato meno rilevante. Quindi: la Francia, per risollevarsi dalla crisi in cui si trova in quel frangente della guerra, ha bisogno di una scossa, di un colpevole
interno che funga da capro espiatorio. Mata Hari è perfetta, in questo senso. Eppure, sebbene questi elementi ci siano, il racconto si focalizza soprattutto su altro. Quando entra in scena Mata Hari, Bouchardon enfatizza, infatti, il fastidio per la consapevolezza che la ballerina manifesta a proposito del suo fascino sugli uomini. È, quindi, questo uno dei temi del film e, forse, del processo? Una donna che approfitta spudoratamente il suo essere desiderata deve essere quindi punita: ma, con la fucilazione? Cioè, si tratta di una colpa così grave, imperdonabile? La stessa ballerina è incredula che questa possa essere la sua sorte e, quando quasi ci scherza con il capitano, Bouchardon ne sembra seccato. Eppure, a fronte delle labili prove, anche quelle tirate fuori all’ultimo momento e ritenute schiaccianti, è difficile credere che si possa aver fucilato qualcuno nella Francia di inizio XX secolo con questi elementi. D’accordo, c’era la guerra, ma la vicenda non si svolge mica in trincea e Mata Hari sembra tutto tranne che una persona così pericolosa in chiave bellica. A differenza dell’altro celebre agente segreto tedesco in gonnella, Mademoiselle Doctor, quella sì una tipa da prendere con le pinze. 

Anche in ottica, diciamo così, metalinguistica, perfino il ricorso ad un asso come Nando Gazzolo nei panni del tenente Mornet, incaricato di sostenere il ruolo inquisitorio nel processo vero e proprio, sembra confermare che l’impianto accusatorio in sé stesso lascia a desiderare. Nessuno, o quasi, infatti, ha la retorica persuasiva di Gazzolo, che è l’interprete ideale per un personaggio che, in un processo, debba forzare la mando ai giudici. Stando alle parole del narratore, l’intenzione degli autori era di avvicinarsi il più possibile alla realtà, con una pretesa, tipicamente televisiva, di farsi ambasciatori della verità. In questo senso la missione fallisce, visto che sulla questione rimane più di una zona d’ombra. Ma, probabilmente, il vero scopo di Landi e dei suoi collaboratori è riuscito: si trattava, in sostanza, di mostrare quanto sfumata, fuggente, irraggiungibile, potesse essere la realtà. In quest’ottica un personaggio come Mata Hari, in effetti ambiguo da qualunque parte lo si prenda, era l’ideale e Cosetta Greco riesce a darne un’interpretazione emozionante e credibile. Ma ci si poteva fidare delle parole della donna? E verrebbe voglia di rispondere proprio sì, perché il fascino consapevole, la classe, lo stile, e, al contempo, l’infantile civetteria, formano un mix irresistibile. Tra i tanti bei momenti che regala la Greco, in gran forma, è interessante una considerazione di Mata Hari durante il processo in cui si sta decidendo della sua vita:
“vorrei solo aver messo un altro vestito. Sono più vistose le loro divise dei militari di questa maledetta redingote”
si lamenta con l’avvocato. Chissà quanto della vera Margaretha c’è in questa apparentemente superficiale, ma pungente e ironica, riflessione? Suvvia, con tutti i problemi bellici che avevano i francesi, perché diamine si intestardirono a condannare Mata Hari, una delle poche note liete di quel tempo infausto? E, proprio dando corpo a queste perplessità, ci si può rendere conto del ‘problema-Mata Hari’: è impossibile non essere sedotti da quella donna. E, allora, forse questa era la sua colpa: avere troppa influenza sugli uomini. Certamente esiste la possibilità che Mata Hari utilizzò questa sua verve seduttiva per il lavoro di spia, ma in questo senso mancano prove concrete e, quindi, in un processo, non dovrebbe essere condannata. Se invece la sua colpa è quella di essere una sorta di calamita che attira le attenzioni di chiunque le graviti intorno, allora le motivazioni dell’accusa, per quanto discutibili nella loro stessa ragion d’essere, tengono. In quest’ottica si possono giustificare il pregiudizio del generale, che la vuole condannata sin da subito, l’ostilità di Bouchardon e perfino i voltafaccia dell’ultimo minuto dei presunti testi a suo favore, il capitano Ladoux (Antonio Pierfederici) e il capitano Masloff (Arnaldo Ninchi). Al generale serviva un elemento di grande risonanza, per scuotere il paese che stava quasi per cedere di fronte all’incessante pressione bellica tedesca. In pratica Mata Hari era una sorta di agnello sacrificale per riscattare la Francia. Tanto più che il generale non conosceva direttamente la celebre spia e, quindi, non era particolarmente coinvolto in prima persona. Bouchardon era invece toccato da vicino, dalla cosa, avendo un ruolo decisivo e anche perché Mata Hari gli aveva fatto delle avances abbastanza esplicite. L’idea che gli atteggiamenti così sfacciati della donna lo potessero turbare, lo infastidiva e, ancor di più, il timore di veder condizionata la sua capacità di giudizio lo rendeva, per reazione, ancora più rigido e inflessibile. Quanto a Ladoux, questi era il capo dei servizi segreti francesi ed era palesemente invaghito della donna: di fronte alla corte, considerato i tanti uomini che la donna aveva sedotto, lavarsene le mani era un modo per cavarsela alla meno peggio. E per Masloff, che di Mata Hari era addirittura il fidanzato, valeva lo stesso discorso ma in maniera ancora maggiore. Se è difficile comprendere come possano aver giustiziato Mata Hari con delle prove così vaghe sulla sua attività di spionaggio, è più compressibile – seppur ancor meno giustificabile – se consideriamo questi altri elementi. Senza dimenticare che c’è ancora da citare l’elemento decisivo, cruciale: Mornet. Per quanto abile, il capitano non è nient’altro che la personificazione dell’individuo-medio, della persona comune: l’eroe borghese, sebbene vesta i panni militari. In particolari circostanze, l’uomo qualunque della società moderna, che nel 1917 cominciava a prender coscienza di sé, è l’essere più determinato che esista: quando fiuta il sangue della vittima, non mollerà mai la preda. E più la preda è nota, famosa, ricca, potente, più il gusto del sangue è saporito. E Mata Hari non è che una delle tante.     



sabato 15 marzo 2025

DAYS OF HOPE

1637_DAYS OF HOPE . Regno Unito, 1975. Regia di Ken Loach

Primo episodio di una serie di quattro, Days of hope: 1916 Joining Up, già a partire dalla sua considerevole durata, può essere considerato un vero e proprio film, con una sua propria autonomia. Nei 95 minuti a disposizione il regista Ken Loach si prende il tempo necessario per approfondire le tematiche che va ad affrontare in questa sorta di primo episodio di una panoramica che si estende, per utilizzare le parole della didascalia introduttiva al lungometraggio, dalla Grande Guerra allo Sciopero Generale. Si tratta di eventi che coprono la durata di dieci anni, dal 1916 al 1926: fu una fase della storia britannica molto importante che finì, nel 1927, con il divieto di scioperare per solidarietà verso altri lavoratori. In questo senso vanno intese le parole del titolo della miniserie Giorni di Speranza, in quanto per quel decennio di battaglie sindacali ovviamente gli attivisti si auguravano una conclusione ben diversa per la loro lotta. Gli anni settanta, in cui la serie televisiva Days of hope venne prodotta, erano anni difficili dal punto di vista economico e riprendere moti o ideali di battaglie sociali del passato può essere inteso come un tentativo di ridare slancio alla lotta sindacale, riprendendone le radici. La matrice ideologica di Loach è presto identificabile e, in onestà, permea tutto il racconto filmico: ma questo non impedisce certo una visione che provi ad essere obiettiva e personale del testo dal punto di vista dello spettatore. Lo stile visivo del film è televisivo ma Loach, pur non disponendo dei mezzi propri del cinema autentico, riesce a fare di necessità virtù confezionando un prodotto notevole anche dal punto di vista formale. La messa in scena sembra quindi volutamente dimessa, i dialoghi sono spesso gergali, le inquadrature sobrie e il tutto concorda per un’impressione informale, in sostanza uno stralcio di vita quotidiana della classe media inglese in quei tribolati giorni. E’ un primo capitolo, si è detto, tuttavia Days of hope: 1916 Joining Up si presenta come un lavoro organico e che trova pieno sviluppo anche nel racconto che ci propone. Siamo in un’area rurale dell’Inghilterra, nel 1916 e l’esercito ha bisogno di rincalzi per le truppe al fronte: Philip Hargraves (Nikolas Simmond) è stato chiamato alle armi ma rifiuta di arruolarsi, in quanto socialista e cristiano. La polizia fa irruzione nella fattoria dove vive ma Philip si dilegua: quando rientra ha un bel daffare a spiegare a Tom, suo suocero (Clifford Kershaw ), i motivi che sono alla base dei problemi che sta creando. L’anziano è un uomo risoluto ma, pur non comprendendo le ragioni del genero, gli da 10 sterline con l’unica raccomandazione che si prenda cura di sua figlia Sarah (Pamela Brighton), moglie del giovane. C’è quindi una forma di comprensione, da parte di Tom, verso l’atteggiamento di Philip; suo figlio Ben (Paul Copley) sospetta più semplicemente che il cognato sia un codardo. Le cose precipitano di li a poco: durante una parata militare nel paese, Philip e Sarah, invece di partire per Londra, si sono fermati ad un convegno di pacifisti dove la polizia fa irruzione catturando il giovane che viene sottoposto a processo. Beffardamente la pena comminata a Philip è l’arruolamento e l’invio al fronte. Fuori dall’aula si è nel frattempo assiepata una folla che accusa tutta la famiglia di Philip di essere sostenitori della Germania: Ben finisce coinvolto in una rissa e, per una sorta di ripicca, corre ad arruolarsi nonostante i suoi soli 17 anni. Loach orchestra con calma e precisione lo sviluppo dei fatti, dando modo ai vari elementi di emergere dai dialoghi tra i protagonisti. Philip è un socialista, crede nell’internazionalità della classe operaia e non vede quale vantaggio ci sia ad andare ad uccidere altri lavoratori come lui. Inoltre ha un approccio genuino e privato alla religione cristiana e non può, naturalmente, trovare nelle sacre scritture qualcosa che contraddica i suoi convincimenti. C’è, in quest’ottica, un divertente sberleffo di Loach alla religione come istituzione: alla parata, un sacerdote ribadisce come nella Bibbia ci siano parole che possono essere intese come sprone alla battaglia. Un gregge di pecore è inquadrato dal regista mentre la platea risponde con un amen alla predica del prete. Tornando alla polemica tra Tom e Philip, il suocero aveva argomentato su come l’intervento dell’Inghilterra sia stato reso necessario dall’invasione del Belgio da parte tedesca. Qui Loach esagera, nella sua tesi che è in modo esplicito allineata su quella di Philip, perché, come obiezione, il giovane ricorre al fatto che quella riportata dal suocero sia tutta propaganda bellica. A parte che non è vero che fu solo propaganda in quanto l’Impero Tedesco invase davvero con metodi violenti il povero Belgio, successivamente Loach dà una ben più motivata risposta a questo passaggio. E’ altresì vero che quello citato è un dialogo tra due personaggi e non del punto di vista controfirmato dall’autore ma la prospettiva dell’opera induce a pensarlo: il che finisce per indebolire il discorso di Loach, anziché rafforzarlo. Per contrastare la presunzione che porrebbe l’Inghilterra ad un livello morale superiore alla Germania, nello specifico della Prima Guerra Mondiale, Loach si affida con profitto più redditizio alle vicende che occorrono a Ben dopo l’arruolamento. Il suo reparto, infatti, anziché in Francia, come era logico pensare visto il momento storico, viene spedito in Irlanda, a sedare gli animi dei locali ribelli che si stavano organizzando nell’IRA. 

E’ la sorella Sarah a far notare a Ben come l’Irlanda avesse gli stessi diritti del Belgio nei confronti di una nazione occupante. Philip, intanto, dopo un durissimo trattamento subito durante l’addestramento, che il suo atteggiamento ostile non fa che aggravare, viene spedito al fronte. Ora se continuerà a disobbedire agli ordini, potrà venire fucilato. Il passaggio in cui viene legato ad un palo, fuori dalla trincea, alla mercé del fuoco nemico è stato criticato in quanto non verosimile. Loach ha in seguito ribadito che ebbe conferme anche successive alla realizzazione del film che eventi del genere accaddero e le inesattezze dell’opera gli erano state segnalate per elementi assai marginali come le formazioni durante la marcia o amenità simili. Tuttavia lo stesso regista, nella storia raccontata dal film, non fa finire Philip davanti al plotone, nonostante l’indisciplinato soldato alla fine venga condannato effettivamente alla pena capitale. In questo passaggio il film ricorda un caposaldo del cinema inglese inerente alla Grande Guerra, ovvero Per il Re e per la Patria (1964, di Joseph Losey) con la differenza che, in questo caso, al soldato sotto processo la sentenza di morte venga commutata in dieci anni di carcere. Evidentemente una certa sensazione di estraneità alla Prima Guerra Mondiale da parte del popolo inglese è confermata dall’insistenza su questi temi, meno frequenti in cinematografie di altri paesi coinvolti dall’argomento. Il passaggio migliore dell’opera è però un’altra citazione di un grande classico del cinema dedicato alla Prima Guerra Mondiale. In una fattoria irlandese si è insediato il reparto di Ben; i soldati sono stanchi e hanno voglia di scherzare. La figlia del contadino è una bella ragazza e i giovani la prendono subito di mira, con scherzi anche pesante a cui la poveretta non può sottrarsi. Niente di eccessivamente volgare, sia chiaro, Days of hope: 1916 Joining Up è un prodotto della BBC, la TV di stato inglese. Ma la situazione è chiara: una bella ragazza di un paese occupato viene a trovarsi in mezzo ad un nugolo di militari dell’esercito invasore, non occorre scendere troppo nei dettagli. In ogni caso prima che la situazione degeneri qualcuno la invita a cantare per la truppa. La situazione che va in scena ricalca l’emozionante finale di Orizzonti di Gloria, capolavoro di Stanley Kubrick del 1957. Là la ragazza era tedesca in mezzo a militari francesi, qua è un’irlandese tra gli inglesi; l’emozione è identica. La canzone, una canzone irlandese, oltre che una dolce melodia, è un atto d’accusa che inchioda il Regno Unito alle medesime critiche mosse dagli stessi inglesi ai tedeschi.  




venerdì 21 febbraio 2025

L'OMBRA DI STALIN

1626_L'OMBRA DI STALIN (Mr Jones). Polonia, Ucraina, Regno Unito 2019. Regia di Agnieszka Holland

Il tema principale di L’ombra di Stalin, film storico di Agnieszka Holland, è, fuor di ogni dubbio, la carestia che imperversò in Ucraina dal 1932 al 1933. Sulle cause dell’Holomodor, questo il nome con cui è conosciuta questa tragedia, ci sono ancora alcune divergenze d’opinioni ma su alcuni punti sembra ci sia poco da disquisire. Sia che fu pianificata strategicamente dal Cremlino, sia che fu un effetto collaterale di alcune manovre politiche volute da Stalin, le responsabilità rimangono, oltretutto perché si cercò di negare la tragedia anziché provare a porvi rimedio. E, a proposito delle politiche staliniane, non si può tacere che ebbero un impatto devastante sul tessuto sociale ucraino. In Ucraina, il Primo Piano Quinquennale prevedeva la trasformazione forzata della società da agricola ad industriale, con la collettivizzazione, l’esproprio delle proprietà private dei contadini, e la dekulakizzazione, la deportazione, quando non l’eliminazione fisica, dei kulaki, i piccoli agricoltori proprietari terrieri. Nel film della Holland, tutto questo non c’è in forma esplicita, del resto, al tempo in cui è ambientata la vicenda, ovvero proprio in quel 1933, l’Unione Sovietica manteneva il segreto sulla carestia grazie anche alla complicità di alcuni occidentali, come Walter Duranty (Peter Sarsgaard), giornalista Premio Pulizer e corrispondente da Mosca per il New York Times. Il protagonista di L’ombra di Stalin è, però, un altro giornalista, Gareth Jones (James Norton) che dubita qualcosa sulla credibilità della propaganda sovietica –e abbiamo visto poc’anzi cosa– e si reca, in modo alquanto pirotecnico, in Russia prima e in Ucraina poi, al fine di farsi un’idea di quello che vi sta accadendo. Naturalmente, pensare di andare in Unione Sovietica negli anni Trenta del XX secolo non era esattamente una gita di piacere e, men che meno, era concepibile essere il benvenuto –mettiamola così– se l’intenzione era ficcare il naso proprio dove si stava consumando una tragedia che il Cremlino voleva tenere nascosta. Questo, grosso modo, il canovaccio di L’ombra di Stalin su cui Andrea Chalupa, alla sceneggiatura, e la Holland in regia, imbastiscono una storia forse volutamente fumosa e confusa. Del resto, all’epoca, le conoscenze sulla reale condizione geopolitica, non solo dell’Unione Sovietica ma in generale, erano piuttosto approssimative, come testimonia, anche all’interno della storia del film stesso, la clamorosa sottovalutazione che nel Regno Unito fecero su Hitler e sul Nazismo. Jones, il protagonista, prima di recarsi in Unione Sovietica, aveva intervistato il Fuhrer insieme a Goebbels e si era invece reso conto del pericolo che incombeva sull’Europa e sul mondo intero. 

La classe politica inglese aveva però ignorato anche questo allarme, come farà, in seguito, con la testimonianza del giornalista a proposito della carestia in Ucraina. I temi sono importanti, soprattutto se pensiamo che, nel 2019, Mosca e Kyiv si trovano di nuovo ai ferri corti, con il Cremlino che alimenta le spinte secessioniste dell’area orientale dell’Ucraina. È probabile che sia stata proprio la crisi russo-ucraina ad ispirare la Holland, nella scelta del soggetto del suo film; tuttavia, l’autrice, per quanto il suo lungometraggio sia sicuramente un lavoro nel complesso apprezzabile, non regge pienamente le aspettative che lei stessa si pone. L’ombra di Stalin è certamente un buon film ma, da un simile argomento, ci si aspetta un capolavoro o quantomeno qualcosa di più lirico, epico. Tra l’altro, la Holland, coglie la coincidenza del nome del protagonista Jones per creare un collegamento con il romanzo di George Orwell, La fattoria degli animali. In effetti, il titolo originale del film è Mr. Jones, ovvero, non solo il Garret protagonista ma anche il personaggio umano del romanzo di Orwell a cui gli animali della fattoria si ribellano. È noto che La fattoria degli animali sia una metafora della Rivoluzione Russa e del potere staliniano ma, nel film, questi aspetti aggiungono poco a quanto risaputo e nemmeno aiutano in qualche modo L’ombra di Stalin a elevarsi da una certa prevedibilità che si fa strada man mano che la vicenda si snoda. A conti fatti, la sottotrama con Orwell finisce per ingolfare ulteriormente un’opera che si snoda e sviluppa nella scia dei moderni biopic ma non incide mai realmente. Alcuni colpi di regia, come il colore che si smorza nel bianco e nero naturale delle lande innevate della campagna ucraina, o la buffa corsa in bicicletta nel finale, sono dettagli a cui manca qualcosa di più sostanziale. Peccato: il tema era quanto mai attuale ma, per interpretarlo a dovere, occorreva più coraggio. La crudeltà di Stalin, l’ingannevolezza della Rivoluzione Russa o la miopia della classe dirigente inglese, non sono elementi confutabili. Ma nemmeno illuminanti. 






lunedì 6 gennaio 2025

FANGO E GLORIA: LA GRANDE GUERRA

 1603_FANGO E GLORIA: LA GRANDE GUERRA . Italia 2015: Regia di Leonardo Tiberi 

Prodotto televisivo particolarmente originale, Fango e Gloria – La Grande Guerra di Leonardo Tiberi lascia doppiamente spiazzati. In un primo momento, la notizia che quello prodotto dalla Rai sia un innesto tra una fiction e una considerevole parte di filmati storici in bianco e nero colorati per l’occasione, fa storcere un po’ la bocca. Ben che per avere fiducia nelle fiction televisive ci vuole tutta, ma la sola idea di immagini documentaristiche colorate sembra ancora più sconfortante. Invece il risultato è  l’opposto. Cioè, la parte recitata, tra gli altri da Eugenio Franceschini nel ruolo del milite ignoto, non risolleva di un grado la scarsa reputazione delle produzioni televisive di pura finzione ma, a suo modo, il collage di immagini storiche, suoni e voci ora dell’epoca ora sovrapposte, in qualche modo funziona. L’impressione è naif, è vero, ma ci si rende conto che, un po’ come guardando un disegno spesso lo si scopre più comprensibile di una fotografia, con gli irrealistici colori le immagini documentaristiche della guerra prendono, per assurdo, un po’ di vita. Smettono i panni di crudi resoconti per diventare una specie di cartone animato e quindi più accessibile, più fruibile, o almeno interpretabile in un senso nuovo rispetto a quanto siamo abituati. Se poi questo basti a salvare l’operazione nel suo complesso, è difficile dirlo, anche perché ci sono troppi passaggi vacillanti. Ad esempio le voci fuoricampo, nel tentativo di essere comunque parte della storia, finiscono in quello che nei fumetti è stato efficacemente definito spiegazionismo, un neologismo di rara precisione. Ovvero quando la spiegazione è fine a sé stessa e non alla narrazione, che è una clamorosa contraddizione di termini. Tanto per capirci: una voce fuori campo neutra avrebbe potuto raccontare gli interessanti dettagli tecnici senza accampare mezze scuse non richieste (“così mi han detto che si chiamano”). In sostanza un esperimento curioso non arrivato in porto a causa delle lacune ormai croniche della nostra scuola cine-televisiva.   




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sabato 4 gennaio 2025

KHARTOUM

1602_KHARTOUM . Regno Unito 1966: Regia di Basil Dearden

Khartoum è un colossal storico di Basil Dearden, ambientato nella capitale sudanese nel 1884, ai tempi della dominazione inglese. La storia dell’Impero Britannico è talmente vasta e densa di avvenimenti, che potrebbe dar origine ad un sottogenere all’interno dei film con ambientazione storica: da I Lancieri del Bengala a Zulu, passando naturalmente per Lawrence d’Arabia, esiste infatti una fiorente filmografia dedicata alle imprese delle forze di Sua Maestà. Onestamente questo Khartoum non è uno degli esempi migliori, nonostante gli sforzi della produzione per farne un colossal che si rispetti: dal formato Ultra Panavision 70 mm al cast, forte di due star come Charlton Heston e Laurence Oliver, nei panni dei due protagonisti, rispettivamente Gordon Pascià e il Mahdi. Gordon Pascià, al secolo Charles George Gordon, venne nominato governatore inglese del Sudan per fronteggiare la rivolta capeggiata da Muhammad Ahmad, autoproclamatosi “il Mahdi”, una sorta di messia islamico. Il film si apre con lo sterminio, da parte degli insorti guidati dal Mahdi, di un reparto dell’esercito egiziano sotto la sciagurata guida di Hicks Pascià, il predecessore di Gordon; non è un buon auspicio per gli inglesi, che però lungo la durata del lungometraggio faranno anche di peggio. Lo statista William Ewart Gladstone (Ralph Richardson) spedisce Gordon in Sudan, per proteggere Khartoum dall’assedio degli uomini dal Mahdi; ma diffidando dall’indole indipendente del generale, gli appioppa alle costole il colonnello Stewart (Richard Johnson), il quale, nel corso del tempo, imparerà però ad apprezzare il carisma dell’uomo che deve sorvegliare. Una volta comprese l’impossibilità di difende la capitale sudanese con appoggi locali o egiziani, Gordon reclama rinforzi dalla madre patria; a Londra però, non si vuole un coinvolgimento troppo diretto, e così alla fine si opta per un ignobile e opportunistico sacrificio di Gordon e degli assediati, arrivando con i soccorsi dopo un calcolato lieve ritardo. E’ chiaro che l’Impero Britannico, a fine ‘800, avesse i suoi bravi problemi a gestire un dominio enorme; quindi la politica passiva adottata in Sudan nell’occasione dell’assedio di Khartoum può avere delle giustificazioni: ma fa comunque un po’ specie vedere un regista e una produzione inglesi, sparare a zero sulla condotta della madrepatria. La trama del film ha naturalmente romanzato gli avvenimenti storici, che però nel complesso vengono grosso modo rispettati; può essere che Gordon fosse anche nella realtà un personaggio scomodo, oltre che un eroe. In questo caso il comportamento del governo inglese potrebbe essere anche più comprensibile, sebbene comunque ignobile. Il regista Basil Dearden si affida ad una regia abbastanza convenzionale; Heston recita il suo ruolo di granitico eroe, mentre Oliver si adatta ad una parte più pittoresca, con buona riuscita. Nel complesso il prodotto finale è godibile, soprattutto per la curiosità dovuta alla matrice storica.   





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giovedì 5 dicembre 2024

CAVALLERIA

1586_CAVALLERIA . Italia 1936: Regia di Goffredo Alessandrini

Evidentemente quanto liberamente ispirato alla figura dell’eroe nazionale Francesco Baracca, Cavalleria, film di Goffredo Alessandrini, riprende per sommi capi la biografia dell’asso dell’aviazione italiana, impregnandola di una storia d’amore che ne enfatizza il rilievo romantico. E’ una scelta sacrosanta, da un punto di vista tecnico narrativo, ma che finisce per datare eccessivamente il lungometraggio. Oggi Cavalleria ben difficilmente può essere accettato dallo spettatore comune: troppo sdolcinata e tragicamente romantica la storia d’amore tra i due protagonisti per essere sopportabile. In effetti, in Italia, in quegli anni, l’ideale romantico spesso non veniva adeguatamente bilanciato, ad esempio da quel certo falso cinismo dei protagonisti dei film americani dell’epoca, e le storie finivano per grondare di buoni sentimenti, rimpianti, sacrifici e via di questo soffrire. Questo vale anche per Cavalleria, ma solo limitatamente ai rapporti tra Solaro (un pimpante Amedeo Nazzari), il personaggio che rievoca efficacemente Francesco Baracca, e la tenacemente amata Speranza (nome che è già tutto un programma, per il personaggio interpretato da Elisa Cegani). Pur innamoratissimi, i due non potranno convolare a giuste nozze perché la contessina Speranza è costretta a sposare un nobile austriaco che, grazie alle sue cospicue finanze, riuscirà a salvare dalla bancarotta il padre di lei. Tra l’altro, alla lunga, l’insistenza di Solaro nel tampinare la ragazza anche quando questa è già divenuta la consorte dell’austriaco, viene francamente un po’ a noia, anche perché, e qui è un altro limite del cinema italiano dell’epoca, in ossequio alla morale, i due non concludono poi mai niente di sconveniente (e di interessante). E quindi si finisce per sentirsi, come spettatori, come le numerose dame che vociferano e confabulano sottovoce tra loro quando i due colombi si mettono a tubare in pubblico infischiandosene dell’etichette e anche del buon senso. Insomma, uno spettegolare del tutto sterile in cui rischiamo di finire pure noi. 

Per cui, seppur la Cegani ha un suo fascino, più che altro nell’elegante e avvenente figura, il film si fa preferire nella parte biografica di Solaro, tenente di cavalleria, poi capitano e infine maggiore. Come detto l’esperienza a Pinerolo, la sua notevole abilità di cavaliere, il suo successivo passaggio a Roma prima e in aviazione poi, ripropongono in modo evidente l’esperienza militare di Baracca, sebbene l’eroe non venga citato nei crediti del film. In ogni caso la conferma definitiva l’abbiamo nel momento in cui Solaro diviene il celebrato asso italiano dei cieli nella Prima Guerra Mondiale: perché è chiaro a tutti che quel ruolo era appannaggio esclusivo del pilota che aveva come stemma il cavallino rampante. E infatti, come Baracca, anche Solaro verrà infine abbattuto prima della fine del conflitto mondiale. Alessandrini prova a iscrivere questa tragica fine nel destino dello spirito di cavalleria, in effetti del tutto tramontato dopo la Grande Guerra. Il suo protagonista, pur tra i tanti trionfi e trofeo vinti, ha infatti la vita costellata di sconfitte nei momenti cruciali. L’amore non concretizzato di Speranza (nome come detto, già indicativo), il fedele cavallo Mughetto che muore durante una gara, la sua stessa morte non molto prima della fine della guerra. Un destino sfortunato che valica i confini della storia filmica, finendo per coinvolgere anche il lungometraggio stesso di Alessandrini che, nel complesso, non merita certo l’oblio a cui è abitualmente confinato. Ma è il destino comune all’eroe che l’ha ispirato, quel Francesco Baracca che, clamorosamente e anche un po’ scandalosamente, non ha nemmeno un’opera filmica a lui dedicata in modo esplicito. Ennesima dimostrazione di come anche il cinema italiano, come il paese nel suo complesso, non sia in grado di tributare il giusto onore ai propri uomini di valore.        


Elisa Cegani 


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