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giovedì 31 luglio 2025
ADDIO MIA BELLA SIGNORA
sabato 19 luglio 2025
FRATELLI D'ITALIA
1700_FRATELLI D'ITALIA , Italia 1952. Regia di Fausto Saraceni
Ingiustamente relegato in quel limbo dell’anonimato in cui l’intellighenzia italiana del dopoguerra segregò tutti i riferimenti patriottici italiani, Fratelli d’Italia è un onesto film che racconta una fase importante della nostra nazione. Per nazione, letteralmente, si intende quella comunità che ha in comune origine, lingua e storia e, quindi, il fenomeno dell’irredentismo istriano, oltre a non essere campato in aria, appartiene di diritto al nostro vissuto. Era evidente che, nel 1952, a Seconda Guerra Mondiale appena conclusa, la questione fosse spinosa, visto che a liberare l’Italia pochi anni prima erano stati quegli stessi americani che, per mano del presidente Wilson, avevano arbitrariamente deluso le nostre più o meno fondate istanze sulla questione istriana. In Italia, si sa, c’è sempre la mania di essere più realisti del re, ed ecco quindi che l’élite politico culturale del nostro paese troverà il modo di compiacere i nuovi alleati (in cambio di copiosi aiuti e finanziamenti, questo va riconosciuto) andando a epurare dalla nostra tradizione popolare tutti quei riferimenti scomodi alle nuove esigenze. La figura di Nazario Sauro fu tra quelle che pagò questo scotto così come quella di Enrico Toti o di Francesco Baracca. Per decenni, in Italia, i ragazzini conosceranno a menadito le imprese di Davy Crockett e del colonnello Custer, mentre le figure storiche di eroi italiani come Toti, Sauro, Cesare Battisti (il patriota, non il terrorista) e compagnia resteranno completamente ignote. Certamente il cinema fece la fortuna degli Stati Uniti, della sua storia e della sua cultura ma non è che in Italia non conoscessimo la settima arte. Purtroppo, come si è detto, l’élite artistica sposò in toto una linea diversa, dando vita a fenomeni cinematografici di primo livello (ad esempio il neorealismo) ma raramente qualcuno si prese la briga di ribadire il valore e l’eroismo di certi nostri compatrioti. Anche perché, l’intellighenzia (ovvero l’élite intellettuale non artistica) operò in modo sistematico tacciando di anacronismo (nel migliore dei casi) questi argomenti sbandierando continuamente lo spettro del fascismo. In realtà, oggettivamente, per quel che riguarda i temi della Prima Guerra Mondiale, il fatto che il regime del Ventennio avesse utilizzato tutta la retorica possibile inerente alla Vittoria (e ancor più alla Vittoria mutilata), questo non rendeva questa materia necessariamente di loro esclusiva competenza. I Toti o i Baracca erano stati e continuano tutt’ora ad essere eroi italiani. A quel tempo l’Italia, giuste o sbagliate che fossero le scelte che prese il governo in carica, chiese a questi uomini di combattere e questi uomini fecero ben più di quello che erano chiamati a fare, ovvero il loro dovere, tanto da meritarsi pienamente l’appellativo di eroi, per quanto si possa, oggi, pensare che sia desueto. All’epoca non lo era: e Nazario Sauro, protagonista di Fratelli d’Italia, eroe lo fu di sicuro. Nel film, Sauro (interpretato efficacemente da uno statuario Ettore Manni), irredentista istriano, fugge in Italia per arruolarsi nella Regia Marina. Il tenore dell’opera di Fausto Saraceni, produttore in questa circostanza prestato alla regia, risente della corrente melodrammatica che negli anni cinquanta imperversava nella penisola e che, con i suoi eccessi, ben si prestava al connubio coi temi patriottici. In effetti la scena iniziale con Fausto che saluta sua madre Anna (Olga Solbelli) prima di abbandonare Capodistria, sembra raddoppiare il rapporto materno dell’uomo. E’ vero che Sauro lascia la madre naturale in Istria ma, approdando in Italia, lo fa quindi per abbracciare la sua patria, che è la sua terra madre.
Tuttavia la figura di Anna è introdotta sin dal principio, definendone il forte legame col figlio, anche per far comprendere bene la natura del suo comportamento nel processo finale, nel quale la donna sarà chiamata a deporre. Sauro si era, nel frattempo, fatto valere sotto le armi ma, per poter essere imbarcato in un ruolo attivo senza eccessivi rischi, aveva dovuto cambiare nome in Nicolò Sambo, con il quale divenne noto come una vera e propria ira d’iddio. Il cambio di nome non era un vezzo: se fosse stata nota la vera identità, il nostro poteva essere facilmente ricattabile dagli austriaci, vivendo la sua famiglia in una terra sotto il dominio imperiale. La cosa diveniva di pericolo estremo in caso di cattura del valoroso militare. Cosa che avvenne allorché il sommergibile Pullino finì incagliato nelle acque della costa adriatica del golfo del Quarnaro; una volta catturato, Sauro si qualificò come Nicolò Sambo ma venne fortuitamente riconosciuto, nel film dal tenente Sarnich (Carlo Hintermann). Il Sarnich era già stato al centro della scena, nella pellicola, durante una discussione quando Sauro stava ancora a Capodistria; a fronte dell’irredentismo convinto di Nazario, il compagno aveva controbattuto che l’Impero Austroungarico, con la sua forza e importanza, offriva protezione e sicurezza. C’è quindi, nel racconto, il tentativo di dar corpo alle istanze diverse dalla prospettiva principale del narrato. Tornando a Sarnich, in tribunale non sarà comunque lui ad essere l’elemento chiave ma questo ruolo se lo disputeranno Steffé (Paul Muller) e la madre di Nazario, Anna. Steffé era il cognato di Sauro oltre che maresciallo della guardia di finanza austriaca e non si fece problemi a riconoscere il prigioniero che si proclamava essere Nicolò Sambo con la vera identità di Nazario Sauro. La madre, chiamata anch’essa a deporre, si trovava in una difficile situazione: era di fronte al figlio potenzialmente condannato a morte, per cui decise di non riconoscerlo per evitargli la forca. Ma questo voleva dire non poterlo nemmeno riabbracciare oltre a rischiare di essere processata per falsa testimonianza. Infatti, se negava di essere la madre, perdeva il beneficio concesso per il suo stretto legame con l’imputato, e si poteva procedere contro di lei per verificare se avesse detto la verità. Una sorta di paradosso legale, in quanto bene o male era chiaro che Anna e Nazario erano madre e figlio. Tuttavia il capitano March (Marc Lawrence), incaricato di sostenere l’accusa, vi ricorse paventando contro Sauro la minaccia di inquisirne e interrogare, con i mezzi necessari per farla confessare, sua madre. L’irredentista però non cedeva e negava di essere Sauro, suddito dell’Impero Austroungarico e passibile, quindi, di pena di morte per diserzione e alto tradimento. March faceva leva su una presunta vigliaccheria di Sauro che si nascondeva dietro le bugie della madre per sfuggire la giusta condanna: e, in qualche frangente, il dubbio sembra assalire anche la prospettiva del racconto filmico. Era da considerare, infatti, onorevole per un eroe coinvolgere la madre nelle proprie imprese? Si trattava però di tener fede ad un giuramento, quello fatto da Nazario al momento del suo arruolamento presso la Regia Marina. Poi, quando March propone un confronto diretto tra Anna e Steffé, Nazario crolla: nel racconto riaffiora prepotente il tenore melodrammatico dell’inizio, Sauro rompe gli indugi e appella la donna con l’inequivocabile termine “mamma!” condannandosi praticamente a morte. La donna sembra rendersene conto e continua a negare quasi perdendo il lume della ragione: davanti alla sua disperazione, mentre due militari la portano fuori, la corte del processo si alza rispettosamente in piedi. E’ certamente un passaggio che trabocca un sentimentalismo, in questo caso tragico, esagerato, come era d’abitudine nei melodrammi strappalacrime dell’epoca: ma, forse, la morte per impiccagione come traditore, per un uomo che ha semplicemente combattuto per la sua gente, anzi, per la sua patria, è una situazione che giustifica gli eccessi di una simile narrazione. Nel bilancio complessivo molti fattori possono concorrere ma, alla luce della storia del cinema del nostro paese, Fratelli d’Italia non è tanto un buon film o un cattivo film, quanto un film indispensabile: essendo l’unico che ci narra le imprese di Nazario Sauro.
giovedì 3 aprile 2025
DOSSIER MATA HARI
1647_DOSSIER MATA HARI . Italia, 1967. Regia di Mario Landi
sabato 15 marzo 2025
DAYS OF HOPE
1637_DAYS OF HOPE . Regno Unito, 1975. Regia di Ken Loach
Primo episodio di una serie di quattro, Days of hope: 1916 Joining Up, già a partire dalla sua considerevole durata, può essere considerato un vero e proprio film, con una sua propria autonomia. Nei 95 minuti a disposizione il regista Ken Loach si prende il tempo necessario per approfondire le tematiche che va ad affrontare in questa sorta di primo episodio di una panoramica che si estende, per utilizzare le parole della didascalia introduttiva al lungometraggio, dalla Grande Guerra allo Sciopero Generale. Si tratta di eventi che coprono la durata di dieci anni, dal 1916 al 1926: fu una fase della storia britannica molto importante che finì, nel 1927, con il divieto di scioperare per solidarietà verso altri lavoratori. In questo senso vanno intese le parole del titolo della miniserie Giorni di Speranza, in quanto per quel decennio di battaglie sindacali ovviamente gli attivisti si auguravano una conclusione ben diversa per la loro lotta. Gli anni settanta, in cui la serie televisiva Days of hope venne prodotta, erano anni difficili dal punto di vista economico e riprendere moti o ideali di battaglie sociali del passato può essere inteso come un tentativo di ridare slancio alla lotta sindacale, riprendendone le radici. La matrice ideologica di Loach è presto identificabile e, in onestà, permea tutto il racconto filmico: ma questo non impedisce certo una visione che provi ad essere obiettiva e personale del testo dal punto di vista dello spettatore. Lo stile visivo del film è televisivo ma Loach, pur non disponendo dei mezzi propri del cinema autentico, riesce a fare di necessità virtù confezionando un prodotto notevole anche dal punto di vista formale. La messa in scena sembra quindi volutamente dimessa, i dialoghi sono spesso gergali, le inquadrature sobrie e il tutto concorda per un’impressione informale, in sostanza uno stralcio di vita quotidiana della classe media inglese in quei tribolati giorni. E’ un primo capitolo, si è detto, tuttavia Days of hope: 1916 Joining Up si presenta come un lavoro organico e che trova pieno sviluppo anche nel racconto che ci propone. Siamo in un’area rurale dell’Inghilterra, nel 1916 e l’esercito ha bisogno di rincalzi per le truppe al fronte: Philip Hargraves (Nikolas Simmond) è stato chiamato alle armi ma rifiuta di arruolarsi, in quanto socialista e cristiano. La polizia fa irruzione nella fattoria dove vive ma Philip si dilegua: quando rientra ha un bel daffare a spiegare a Tom, suo suocero (Clifford Kershaw ), i motivi che sono alla base dei problemi che sta creando. L’anziano è un uomo risoluto ma, pur non comprendendo le ragioni del genero, gli da 10 sterline con l’unica raccomandazione che si prenda cura di sua figlia Sarah (Pamela Brighton), moglie del giovane. C’è quindi una forma di comprensione, da parte di Tom, verso l’atteggiamento di Philip; suo figlio Ben (Paul Copley) sospetta più semplicemente che il cognato sia un codardo. Le cose precipitano di li a poco: durante una parata militare nel paese, Philip e Sarah, invece di partire per Londra, si sono fermati ad un convegno di pacifisti dove la polizia fa irruzione catturando il giovane che viene sottoposto a processo. Beffardamente la pena comminata a Philip è l’arruolamento e l’invio al fronte. Fuori dall’aula si è nel frattempo assiepata una folla che accusa tutta la famiglia di Philip di essere sostenitori della Germania: Ben finisce coinvolto in una rissa e, per una sorta di ripicca, corre ad arruolarsi nonostante i suoi soli 17 anni. Loach orchestra con calma e precisione lo sviluppo dei fatti, dando modo ai vari elementi di emergere dai dialoghi tra i protagonisti. Philip è un socialista, crede nell’internazionalità della classe operaia e non vede quale vantaggio ci sia ad andare ad uccidere altri lavoratori come lui. Inoltre ha un approccio genuino e privato alla religione cristiana e non può, naturalmente, trovare nelle sacre scritture qualcosa che contraddica i suoi convincimenti. C’è, in quest’ottica, un divertente sberleffo di Loach alla religione come istituzione: alla parata, un sacerdote ribadisce come nella Bibbia ci siano parole che possono essere intese come sprone alla battaglia. Un gregge di pecore è inquadrato dal regista mentre la platea risponde con un amen alla predica del prete. Tornando alla polemica tra Tom e Philip, il suocero aveva argomentato su come l’intervento dell’Inghilterra sia stato reso necessario dall’invasione del Belgio da parte tedesca. Qui Loach esagera, nella sua tesi che è in modo esplicito allineata su quella di Philip, perché, come obiezione, il giovane ricorre al fatto che quella riportata dal suocero sia tutta propaganda bellica. A parte che non è vero che fu solo propaganda in quanto l’Impero Tedesco invase davvero con metodi violenti il povero Belgio, successivamente Loach dà una ben più motivata risposta a questo passaggio. E’ altresì vero che quello citato è un dialogo tra due personaggi e non del punto di vista controfirmato dall’autore ma la prospettiva dell’opera induce a pensarlo: il che finisce per indebolire il discorso di Loach, anziché rafforzarlo. Per contrastare la presunzione che porrebbe l’Inghilterra ad un livello morale superiore alla Germania, nello specifico della Prima Guerra Mondiale, Loach si affida con profitto più redditizio alle vicende che occorrono a Ben dopo l’arruolamento. Il suo reparto, infatti, anziché in Francia, come era logico pensare visto il momento storico, viene spedito in Irlanda, a sedare gli animi dei locali ribelli che si stavano organizzando nell’IRA.
E’ la sorella Sarah a far notare a Ben come l’Irlanda avesse gli stessi diritti del Belgio nei confronti di una nazione occupante. Philip, intanto, dopo un durissimo trattamento subito durante l’addestramento, che il suo atteggiamento ostile non fa che aggravare, viene spedito al fronte. Ora se continuerà a disobbedire agli ordini, potrà venire fucilato. Il passaggio in cui viene legato ad un palo, fuori dalla trincea, alla mercé del fuoco nemico è stato criticato in quanto non verosimile. Loach ha in seguito ribadito che ebbe conferme anche successive alla realizzazione del film che eventi del genere accaddero e le inesattezze dell’opera gli erano state segnalate per elementi assai marginali come le formazioni durante la marcia o amenità simili. Tuttavia lo stesso regista, nella storia raccontata dal film, non fa finire Philip davanti al plotone, nonostante l’indisciplinato soldato alla fine venga condannato effettivamente alla pena capitale. In questo passaggio il film ricorda un caposaldo del cinema inglese inerente alla Grande Guerra, ovvero Per il Re e per
venerdì 21 febbraio 2025
L'OMBRA DI STALIN
1626_L'OMBRA DI STALIN (Mr Jones). Polonia, Ucraina, Regno Unito 2019. Regia di Agnieszka Holland
Il tema principale di L’ombra di Stalin, film storico di Agnieszka Holland, è, fuor di ogni dubbio, la carestia che imperversò in Ucraina dal 1932 al 1933. Sulle cause dell’Holomodor, questo il nome con cui è conosciuta questa tragedia, ci sono ancora alcune divergenze d’opinioni ma su alcuni punti sembra ci sia poco da disquisire. Sia che fu pianificata strategicamente dal Cremlino, sia che fu un effetto collaterale di alcune manovre politiche volute da Stalin, le responsabilità rimangono, oltretutto perché si cercò di negare la tragedia anziché provare a porvi rimedio. E, a proposito delle politiche staliniane, non si può tacere che ebbero un impatto devastante sul tessuto sociale ucraino. In Ucraina, il Primo Piano Quinquennale prevedeva la trasformazione forzata della società da agricola ad industriale, con la collettivizzazione, l’esproprio delle proprietà private dei contadini, e la dekulakizzazione, la deportazione, quando non l’eliminazione fisica, dei kulaki, i piccoli agricoltori proprietari terrieri. Nel film della Holland, tutto questo non c’è in forma esplicita, del resto, al tempo in cui è ambientata la vicenda, ovvero proprio in quel 1933, l’Unione Sovietica manteneva il segreto sulla carestia grazie anche alla complicità di alcuni occidentali, come Walter Duranty (Peter Sarsgaard), giornalista Premio Pulizer e corrispondente da Mosca per il New York Times. Il protagonista di L’ombra di Stalin è, però, un altro giornalista, Gareth Jones (James Norton) che dubita qualcosa sulla credibilità della propaganda sovietica –e abbiamo visto poc’anzi cosa– e si reca, in modo alquanto pirotecnico, in Russia prima e in Ucraina poi, al fine di farsi un’idea di quello che vi sta accadendo. Naturalmente, pensare di andare in Unione Sovietica negli anni Trenta del XX secolo non era esattamente una gita di piacere e, men che meno, era concepibile essere il benvenuto –mettiamola così– se l’intenzione era ficcare il naso proprio dove si stava consumando una tragedia che il Cremlino voleva tenere nascosta. Questo, grosso modo, il canovaccio di L’ombra di Stalin su cui Andrea Chalupa, alla sceneggiatura, e la Holland in regia, imbastiscono una storia forse volutamente fumosa e confusa. Del resto, all’epoca, le conoscenze sulla reale condizione geopolitica, non solo dell’Unione Sovietica ma in generale, erano piuttosto approssimative, come testimonia, anche all’interno della storia del film stesso, la clamorosa sottovalutazione che nel Regno Unito fecero su Hitler e sul Nazismo. Jones, il protagonista, prima di recarsi in Unione Sovietica, aveva intervistato il Fuhrer insieme a Goebbels e si era invece reso conto del pericolo che incombeva sull’Europa e sul mondo intero.
La classe politica inglese aveva però ignorato anche questo allarme, come farà, in seguito, con la testimonianza del giornalista a proposito della carestia in Ucraina. I temi sono importanti, soprattutto se pensiamo che, nel 2019, Mosca e Kyiv si trovano di nuovo ai ferri corti, con il Cremlino che alimenta le spinte secessioniste dell’area orientale dell’Ucraina. È probabile che sia stata proprio la crisi russo-ucraina ad ispirare la Holland, nella scelta del soggetto del suo film; tuttavia, l’autrice, per quanto il suo lungometraggio sia sicuramente un lavoro nel complesso apprezzabile, non regge pienamente le aspettative che lei stessa si pone. L’ombra di Stalin è certamente un buon film ma, da un simile argomento, ci si aspetta un capolavoro o quantomeno qualcosa di più lirico, epico. Tra l’altro, la Holland, coglie la coincidenza del nome del protagonista Jones per creare un collegamento con il romanzo di George Orwell, La fattoria degli animali. In effetti, il titolo originale del film è Mr. Jones, ovvero, non solo il Garret protagonista ma anche il personaggio umano del romanzo di Orwell a cui gli animali della fattoria si ribellano. È noto che La fattoria degli animali sia una metafora della Rivoluzione Russa e del potere staliniano ma, nel film, questi aspetti aggiungono poco a quanto risaputo e nemmeno aiutano in qualche modo L’ombra di Stalin a elevarsi da una certa prevedibilità che si fa strada man mano che la vicenda si snoda. A conti fatti, la sottotrama con Orwell finisce per ingolfare ulteriormente un’opera che si snoda e sviluppa nella scia dei moderni biopic ma non incide mai realmente. Alcuni colpi di regia, come il colore che si smorza nel bianco e nero naturale delle lande innevate della campagna ucraina, o la buffa corsa in bicicletta nel finale, sono dettagli a cui manca qualcosa di più sostanziale. Peccato: il tema era quanto mai attuale ma, per interpretarlo a dovere, occorreva più coraggio. La crudeltà di Stalin, l’ingannevolezza della Rivoluzione Russa o la miopia della classe dirigente inglese, non sono elementi confutabili. Ma nemmeno illuminanti.
lunedì 6 gennaio 2025
FANGO E GLORIA: LA GRANDE GUERRA
1603_FANGO E GLORIA: LA GRANDE GUERRA . Italia 2015: Regia di Leonardo Tiberi
Prodotto televisivo particolarmente originale, Fango e Gloria –
Galleria
sabato 4 gennaio 2025
KHARTOUM
1602_KHARTOUM . Regno Unito 1966: Regia di Basil Dearden
Khartoum è un
colossal storico di Basil Dearden, ambientato nella capitale sudanese nel 1884,
ai tempi della dominazione inglese. La storia dell’Impero Britannico è talmente
vasta e densa di avvenimenti, che potrebbe dar origine ad un sottogenere
all’interno dei film con ambientazione storica: da I Lancieri del Bengala a Zulu,
passando naturalmente per Lawrence
d’Arabia, esiste infatti una fiorente filmografia dedicata alle imprese
delle forze di Sua Maestà. Onestamente questo Khartoum non è uno degli esempi migliori, nonostante gli sforzi
della produzione per farne un colossal che si rispetti: dal formato Ultra
Panavision
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giovedì 5 dicembre 2024
CAVALLERIA
1586_CAVALLERIA . Italia 1936: Regia di Goffredo Alessandrini
Evidentemente quanto liberamente ispirato alla figura dell’eroe nazionale Francesco Baracca, Cavalleria, film di Goffredo Alessandrini, riprende per sommi capi la biografia dell’asso dell’aviazione italiana, impregnandola di una storia d’amore che ne enfatizza il rilievo romantico. E’ una scelta sacrosanta, da un punto di vista tecnico narrativo, ma che finisce per datare eccessivamente il lungometraggio. Oggi Cavalleria ben difficilmente può essere accettato dallo spettatore comune: troppo sdolcinata e tragicamente romantica la storia d’amore tra i due protagonisti per essere sopportabile. In effetti, in Italia, in quegli anni, l’ideale romantico spesso non veniva adeguatamente bilanciato, ad esempio da quel certo falso cinismo dei protagonisti dei film americani dell’epoca, e le storie finivano per grondare di buoni sentimenti, rimpianti, sacrifici e via di questo soffrire. Questo vale anche per Cavalleria, ma solo limitatamente ai rapporti tra Solaro (un pimpante Amedeo Nazzari), il personaggio che rievoca efficacemente Francesco Baracca, e la tenacemente amata Speranza (nome che è già tutto un programma, per il personaggio interpretato da Elisa Cegani). Pur innamoratissimi, i due non potranno convolare a giuste nozze perché la contessina Speranza è costretta a sposare un nobile austriaco che, grazie alle sue cospicue finanze, riuscirà a salvare dalla bancarotta il padre di lei. Tra l’altro, alla lunga, l’insistenza di Solaro nel tampinare la ragazza anche quando questa è già divenuta la consorte dell’austriaco, viene francamente un po’ a noia, anche perché, e qui è un altro limite del cinema italiano dell’epoca, in ossequio alla morale, i due non concludono poi mai niente di sconveniente (e di interessante). E quindi si finisce per sentirsi, come spettatori, come le numerose dame che vociferano e confabulano sottovoce tra loro quando i due colombi si mettono a tubare in pubblico infischiandosene dell’etichette e anche del buon senso. Insomma, uno spettegolare del tutto sterile in cui rischiamo di finire pure noi.
Per cui, seppur
Elisa Cegani