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venerdì 31 maggio 2019

IL PIANETA PROIBITO

357_IL PIANETA PROIBITO (Forbidden Planet). Stati Uniti, 1956Regia di Fred Mcleod Wilcox.

La tempesta del sommo William Shakespeare è generalmente indicato come fonte di ispirazione de Il pianeta proibito: una somiglianza tra i ruoli dei personaggi protagonisti è in effetti presente, ma il film di Fred Mcleod Wilcox eccelle a prescindere da questa illustre parentela. Il pianeta proibito è un film di fantascienza del 1956, genere di cui interpreta in modo mirabile e esaustivo tutte le caratteristiche. Gli anni del boom nel dopoguerra avevano visto concretizzarsi nella vita quotidiana tutti i progressi che la tecnica aveva prodotto per supportare lo sforzo bellico, e questa frenesia per le innovazioni tecnologiche venne resa manifesta dal cinema di fantascienza. Il quale, oltre a ciò, se da un lato anticipava l’imminente corsa allo spazio tra americani e sovietici, dall’altro permetteva di rendere tangibili, almeno sullo schermo, i timori per le incognite di un intero mondo, quello oltre cortina, dal quale trapelavano pochissime informazioni ma era ben percepibile una certa ostilità (peraltro reciproca), in seguito evoluta apertamente nella Guerra Fredda. L’opera di Wilcox è però un esempio di grande consapevolezza, raramente eguagliato in seguito, e guardandolo oggi appare particolarmente moderno nell’approccio al problema dei problemi che è alla radice del genere di fantascienza: il rapporto con l’altro, spesso inteso come alieno ma, nei casi più interessanti, come qualcosa di assai più intimo. Andiamo però con ordine: innanzitutto va sottolineata la cura con cui l’opera è imbastita. 

Si è detto di una certa somiglianza con La tempesta di Shakespeare; tema arduo da affrontare in sede di analisi di un film di puro intrattenimento, visto la rilevanza dell’autore inglese. Senza rischiare voli pindarici, ci si può limitare anche solo ad osservare come Wilcox, per ambientare una storia su un remoto pianeta nello spazio, scelga un’impostazione da una vicenda tanto classica nella nostra cultura e soprattutto decisamente terrestre. E’ un indizio da tenere a mente. Un'ulteriore sponda a questa interpretazione più introspettiva che fantascientifica è il fatto che sorprendano le ambientazioni d’interni assai più delle scene spaziali: le astronavi sono infatti banali dischi volanti, mentre gli arredi della residenza su Altair IV, il pianeta proibito in questione, sono effettivamente futuribili, essenziali e minimalisti.
Il cast è ben assemblato, anche se manca di un protagonista di spessore: il comandante Adams è interpretato da Leslie Nielsen, qui nel suo primo ruolo di un certo rilievo, mentre è ancora nella fase iniziale della carriera, quella romantico/avventurosa; Walter Pidgeon è un dottor Morbius ambiguamente sospeso tra sapienza e superbia; Anne Francis sgambetta in vestitini cortissimi nella parte di Alta, figlia di Morbius; Earl Hoolliman, noto caratterista, si occupa delle gag comiche come cuoco di bordo. 

Ultimo di quest’elenco, ma non in ordine di importanza, l'autentico protagonista del film, (che ad onor del vero colma in parte la lacuna carismatica del cast): è infatti Robby il robot la vera star di Il pianeta proibito. Autentica vedette della pellicola, si merita praticamente tutti i manifesti e le locandine, diviene istantaneamente una vera e propria icona della fantascienza e, in seguito, ritornerà più volte sullo schermo, da Il robot e lo Sputnik, film del 1957, alle apparizioni più recenti in Gremlins e Le ragazze della terra sono facili, mentre sul piccolo schermo in episodi di La famiglia Addams e addirittura del Tenente Colombo. Il robot, per quanto di aspetto un po’ buffo, (ed è sfruttato anche in quel senso, si veda la gag del whisky col cuoco), non è però personaggio da prendere alla leggera. E’ il primo, tra gli automi del cinema, a rispettare le tre leggi della robotica postulate da Isaac Asimov. In effetti il nome di Robby sembra ispirato a quel Robbie protagonista di una storia di Asimov nella quale si faceva riferimento a queste leggi; leggi che solo in seguito lo scrittore organizzerà in modo compiuto in quel codice che impedisce ad un automa di recar danno, con la sua condotta, ad un essere umano. L’intuizione di far rispettare a Robby queste leggi è un altro indizio della cura che gli autori prestarono alle realizzazione de Il pianeta proibito. E molto validi sono anche gli effetti speciali dell’attacco delle creature invisibili, opera del tecnico della Disney Joshua Meador, per l’occasione in forza ad un film Metro-Goldwyn-Mayer. Ma il vero aspetto che rende l’opera di Wilcox un tassello imprescindibile nel cinema di fantascienza, è che alla fine si scopre che, in un remoto e sperduto mondo, al cospetto di una civiltà aliena notevolmente più evoluta, i rischi maggiori risiedono nel nostro intimo più profondo. Il male è dentro di noi e se per comprenderlo dovessimo davvero, come l’incrociatore spaziale C-57-D del capitano Adams, percorrere l’intera galassia, non sarà comunque un viaggio a vuoto.   





Anne Francis







mercoledì 29 maggio 2019

I GIUSTIZIERI DEL WEST

356_I GIUSTIZIERI DEL WEST (Posse). Stati Uniti, 1975Regia di Kirk Douglas.

Esordio alla regia per l’attore Kirk Douglas, I giustizieri del west è un film che, in un certo senso, prova a fare il punto sul genere (western, ovviamente) e forse sullo stato dei seventies, gli anni settanta, in ottica più generale. Douglas, oltre che regista, è interprete anche del ruolo di protagonista del lungometraggio: il suo Howard Nightingale è un candidato senatore che ha ottenuto le proprie credenziali grazie ai successi ottenuti come capo di una milizia di agenti speciali, in epoca tardo western. Questo corpo paramilitare ha sembianze emblematiche: il manipolo di uomini indossa una camicia blu come i cavalleggeri su cui spicca una stella come quella degli sceriffi. Le due forme di autorità consacrate dai western sono quindi riassunte, e Nightingale può essere inteso come il definitivo eroe rappresentante della legge visto tante volte al cinema. E che adesso, finita l’epoca pioneristica della conquista del west (e anche il periodo classico del genere al cinema), vuole passare in politica, e pretende di veder riconosciuti a Washington i meriti guadagnati sul campo. Sulla sua strada però si trova il bandito Jack Strawhorn, un cattivo interpretato da Bruce Dern; Dern ha vent’anni in meno di Douglas e incarna bene lo spirito ribelle degli anni 70. Il suo completo di jeans lo pone visivamente anche poco omogeneo con il resto dei protagonisti, e lo fa sembrare davvero un intruso che arriva a bella posta a scombinare i piani di Nightingale, più che un rapinatore di treni. Strawhorn non è infatti il fuorilegge classico, ma interpreta a pennello lo spirito della protesta un po’ fine a se stessa e, forse anche per questo, il suo gettare discordia tra gli uomini dell’aspirante senatore darà, sorprendentemente, buoni frutti. 

In quest’ottica è come se Kirk Douglas ammettesse che ciò che ha rappresentato spesso in passato al cinema ha fatto il suo tempo: il modello di eroe autoritario non funziona più e oggi, i giovani, proprio come i suoi uomini (tutti tranne uno), preferiscono seguire chi si professa apertamente contro le regole. A parte questi aspetti, sicuramente interessanti, il film è girato con mano abbastanza sobria da Douglas, però alla lunga mostra un po’ il fiato corto delle poche variabili a disposizione sia a livello di copione che di capacità tecniche.
Ma di fronte a questa sorta di autocritica da parte di un monumento come Kirk Douglas, non c’è che da levarsi il cappello. Da cowboy, ovviamente.







Katherine Woodville


lunedì 27 maggio 2019

L'ESERCIZIO DEL POTERE

355_L'ESERCIZIO DEL POTERE (Eminent Domain). Polonia, Canada, Israele, 1990Regia di John Irvin.

L’esercizio del potere di John Irvin potrebbe essere un film di fantascienza distopica vintage nemmeno troppo originale, ambientato in un mondo contemporaneo dove le elite governano con quasi totale assolutismo, hanno privilegi sconosciuti ai normali cittadini ed esercitano un oppressivo controllo su tutto quanto, con telecamere e microspie dappertutto. In pratica una sorta di vecchio reame monarchico ma con strumenti di esercizio del potere tecnologicamente avanzati. Ovviamente quella di Irvin non è fantascienza perché questi luoghi esistevano davvero e prima degli sconvolgimenti degli anni 80 (Solidarnosc, la caduta del muro di Berlino, il crollo dell’Unione Sovietica ed amenità simili) erano diffusissimi oltre la cortina di ferro. L’esercizio del potere è piuttosto un film drammatico con venature che lo accomunano allo spionaggio più che alla fantascienza, proprio perché l’assurdità della società polacca del 1979 inscenata nel lungometraggio, è invece maledettamente realistica. Certo, vedendola oggi può sembrare assai poco credibile, ma del resto se talvolta si usa dire che la realtà supera la fantasia, sarà proprio per casi come questo; per la Polonia di fine anni settanta, per esempio. A provocare una sensazione di straniamento, non è solo l’ambientazione, sia chiaro; la storia raccontata ha un passaggio cruciale particolare ed insolito, anche per quella situazione, che destabilizza il quadro generale. Josef Borski (Donald Sutherland perfetto per una storia di intrighi e sotterfugi politici) è un alto funzionario del politburo polacco, il sesto più alto in grado, addirittura. E pare goda della fiducia e stima del presidente; insomma la sua scalata non sembra affatto finita, piuttosto si può considerare in rampa di lancio per ulteriori promozioni. 

Essere un membro dell’elite, in Polonia, al tempo, significa avere un’auto, non fare le code nei negozi, avere un bell’appartamento; cose che i normali cittadini nella maggioranza dei casi se le sognano. Ma, ad un tratto, Borski perde il posto di lavoro, e con esso i privilegi; così, senza alcuna spiegazione. Il presidente, i compagni di partito, insomma tutti quanti, famiglia e amico fidato a parte, gli voltano le spalle, lo ignorano, lo evitano. C’è un evidente complotto ai suoi danni; è spiato, pedinato, inseguito. Narrativamente la situazione precipita: in accordo con lui, la moglie (Anne Archer) si allontana, ma poi gli rimandano a casa la figlia, una ragazza con problemi, che era all’estero a studiare. La poverina finisce sotto un’auto; la moglie, rientrata a casa, è straziata dal dolore. 

La vita di Borski (e dei suoi famigliari) finisce quindi in pezzi; ma al di là dell’aspetto emotivo della storia, tenuto per altro freddo da una messa in scena dimessa, non è solo l’apparente mancanza di logica in quanto accade a destabilizzare. Lo straniamento è doppio, perché sembra evidente che i privilegi di Borski non siano legittimi, in quanto quella mostrata è tutto tranne che una società meritocratica. E allora il giudizio dello spettatore rimane sospeso: bisogna indignarsi, per quello che capita al protagonista di L’esercizio del potere? O, forse, un po’ se lo merita, lui e tutti gli ingiustamente privilegiati come lui. A difesa di Borski, va detto che, nonostante qualche lieve cedimento proprio nei confronti della moglie e dell’amico, il nostro si dimostra coerente e leale. La struttura del film ha un che di circolare, con il varo di una nave all’inizio, e un traghetto che salpa per la Finlandia alla fine, e che porta i nostri protagonisti in salvo, fuori dalla cortina di ferro

Perché poi tutto l’assurdo disguido si ricompone: si trattava di un semplice test per verificarne affidabilità e fedeltà al partito, e Borski è reintegrato nei ranghi del Politburo, anzi addirittura promosso. Ma tra una comoda vita da privilegiato, e la fedeltà alla moglie e all’amico, Borski sceglie la seconda opzione. E se pensiamo al fatto che spesso l’attaccamento a qualcosa (che sia una poltrona politica o un impiego prestigioso) è tanto maggiore quanto meno questo ruolo sia stato guadagnato con merito, allora Borski, che rinuncia ai privilegi di cui godeva, è da ammirare due volte. E se questi privilegi sono volutamente lampanti nella situazione mostrata, non sono del tutto assenti anche nelle odierne società. Siamo sicuri, nel nostro piccolo, di non avere alcuna indebita agevolazione? E nel caso, saremmo pronti a rinunciarvi?
Chissà che la Polonia del 1979 non sia poi così distante.


Anne Archer





sabato 25 maggio 2019

LA CRUNA DELL'AGO

354_LA CRUNA DELL'AGO (Eye of the needle). Stati Uniti, 1981Regia di Richard Marquand.

Il film La cruna dell'ago di Richard Marquand è tratto dall'omonimo romanzo di Ken Follet, un vero best seller che certo contribuisce alla solidità che è alla base della pellicola. La struttura narrativa è infatti ben calibrata, con una vicenda particolare, la spia tedesca Henry Faber che cerca di portare informazioni in Germania, dalle cui sorti dipende addirittura uno dei passaggi chiave della Seconda Guerra Mondiale. Una storia minimalista, e quindi facilmente gestibile, che ha però l'enfasi di una possibile svolta potenzialmente di enorme portata: niente di nuovo, per carità, ma di sicuro effetto. Come di sicuro effetto è la regia, sobria senza fronzoli; il ritmo, soprattutto nella prima fase, è serrato, svelto, come il protagonista, la spia tedesca,  (interpretata dall'ottimo Donald Sutherland) soprannominata l'Ago per l'uso che fa' dello stiletto per uccidere, Il soggetto è certamente uno dei punti di forza di un film che, nella scelta della pellicola o dell'ambientazione, risente un po' del tipico aspetto televisivo del cinema del periodo. Il che, tutto sommato, in un film americano ambientato in Inghilterra, contribuisce a rendere più britannica la stessa pellicola, e in un certo senso, più credibile. In ogni caso la storia non è affatto scontata: in primo luogo abbiamo come protagonista un nemico. Infatti il punto di vista dello spettatore non è quello della spia, ma è quello della popolazione inglese; eppure la vicenda segue questo agente segreto, questo intruso che, grazie soprattutto al carisma di Sutherland, riesce a creare l'empatia necessaria a sostenere la narrazione. Narrazione serrata che ingabbia, costringe, imprigiona il protagonista, costretto dallo sviluppo narrativo a seguire una certa strada mostrata anche dalle inquadrature che spesso lo incastrano dentro finestre, porte, stipiti. Tutto sembra filare liscio e pulito ma sarà un naufragio, qualcosa di imprevedibile e che lo porta fuori tracciato, a redimere, in un certo senso la nostra spia. 

Finito su un'isola incontrerà una donna, Lucy (Kate Nelligan), e con lei la luce dell'amore (il nome Lucy/Lucia significa luminosa, appunto) che segnerà la fine della sua carriera oltre che della sua vita. Prima del finale, c'è un passaggio forse non sfruttato, quando Lucy si accorge che Henry sta mentendo, e ne capisce la malvagità. Qui si sarebbe potuto giocare sulla suspense del non detto, del passaggio non ancora esplicito, utilizzando il cattivo per terrorizzare la vittima con l'ambiguità dell'incertezza; ma forse non è più il momento, per l'Ago, di essere un cattivo inesorabile. Anzi, forse non è più così cattivo, a questo punto; forse è lui a divenire vittima, dopo essere stato vittima della seduzione amorosa di Lucy. 

Quello che segue è un finale tragico, eppure dolce perché Faber non pare reagire in modo convinto all'attacco di Lucy e, d'accordo che lei è armata, ma lui è una spia addestrata e fino a quel momento efficientissima: eppure preferisce scappare, evitare il confronto. Improvvisamente la terribile e spietata spia fugge, e non sembra in grado di contrattaccare.  Nell'acciaio gelido dell'Ago si è scoperta un'apertura: la cruna dell'ago, appunto.






Kate Nelligan




giovedì 23 maggio 2019

ROMA ORE 11

353_ROMA ORE 11 . Italia, Francia, 1952Regia di Giuseppe De Santis.

Nel 1951, uno spunto tragico della cronaca cittadina della capitale, presta il fianco agli autori (tra i quali, oltre al regista Giuseppe De Santis spicca l’immancabile Cesare Zavattini) per un nuovo esempio di cinema neorealista: Roma ore 11. Il regista è, come detto, Giuseppe De Santis e in questa sua nuova opera si riscontrano alcune analogie con il suo precedente capolavoro Riso amaro: oltre alla denuncia per una generale situazione economico sociale drammatica, c’è un’attenzione alle difficoltà della condizione femminile nel mondo del lavoro. All’interno della quale, è impossibile negarlo, l’autore non rinuncia però ad approfittare di un certo compiacimento nel mostrare la figura, o meglio il corpo, del gentil sesso. Come già nel film ambientato nelle risaie da cui Silvana Mangano è diventata un’icona immediatamente riconoscibile, anche in Roma ore 11 De Santis insiste sulle gambe delle ragazze in coda per il posto da dattilografa, oppure sui maglioncini attillati che ne evidenziano le forme. Del resto le attrici ingaggiate per il suo film non sono certo scelte tra ragazze ordinarie: c’è addirittura Lucia Bosé, miss Italia 1947, e poi Delia Scala, Maria Grazia Francia, Carla Del Poggio e altre ancora, insomma sembra di stare ad una selezione per un concorso di bellezza. Questa caratteristica di De Santis, che potrebbe sembrare una sua debolezza (comprensibile, va detto) ha però anche un significato prettamente cinematografico: all’interno di una corrente così attenta alla rappresentazione credibile e onesta della realtà italiana del dopoguerra qual’era il neorealismo, l’autore non rinuncia alle armi più proprie del cinema, che della rappresentazione sullo schermo di qualcosa di significativo, faceva comunque il suo punto di forza.
In fondo, la Bosé che cammina per la strada, con il suo metro e settantatre di pura eleganza, o la figura armonica di Delia Scala, non distraevano l’attenzione dall’amara riflessione di vedere oltre duecento ragazze in coda per un misero singolo posto di dattilografa. Tuttavia questo aspetto non può rimanere taciuto, visto che se n'erano accorti anche oltreoceano, tanto che il manifesto americano del film recitava in modo assai esplicito: An estraordinary amount of sex appeal, ribadendo che sullo schermo la figura femminile era esaltata anche sul piano prettamente fisico dalla regia di De Santis. Tornando alle condizioni economiche in cui versava il paese nel dopoguerra, queste erano davvero drammatiche ma, nel 1951, era ormai risaputo. In effetti, gli autori sfruttarono un episodio di cronaca avvenuto a Roma, il crollo di una scala interna di un caseggiato per l’eccessivo assembrarsi delle ragazze in fila per un colloquio per un posto di lavoro, per tratteggiare un quadro corale sull’umanità dello stivale. Tra i vari soggettisti, il citato Zavattini aveva la capacità di descrivere con un realismo misurato anche le vicende più strazianti; De Santis aveva già mostrato invece una vena narrativa più intensa sul piano emotivo. In Roma ore 11, la poetica del primo influenza quella del secondo, e quella che vediamo può essere intesa come la versione capitolina, e quindi ancora più italiana, più conforme alle consuetudini del neorealismo, rispetto a Riso amaro, simile nelle tematiche ma forse più vicina alla sensibilità del regista. In entrambi i film l’attenzione principale è posta sulla condizione femminile nel mondo del lavoro, si è detto, che rappresenta una difficoltà nella difficoltà: se è arduo trovare un posto di lavoro nel dopoguerra italiano, figuriamo farlo nei panni di una donna.

Ma se Riso amaro raccontava anche altro, ad esempio dell’influenza del modello americano sulla nostra società, Roma ore 11 sembra piuttosto sfruttare l’occasione di vedere riunite tante ragazze nello stesso posto per fare una panoramica generale sul paese. Ci sono le ragazze povere, quelle ricche ma ribelli, quelle che fanno la vita oppure la serva; c’è chi aveva già un lavoro ma l'ha lasciato dopo essere stata messa in cinta dal capoufficio, e chi ha il padre che faceva il generale, ma adesso è in pensione e non conta più niente. Carrellata folcloristica comunque interessante, certamente, ma il punto nevralgico è ovviamente un aspetto morale: Luciana (Carla Del Poggio) scavalca con uno stratagemma tutta quanta la fila, e quando le ragazze si accorgono del trucco si scatena un parapiglia, la ringhiera cede e con lei la scala stracolma delle fanciulle.
Le scene del crollo, tra le macerie e i voluttuosi corpi doloranti delle sventurate, riportano alla mente gli effetti dei bombardamenti durante la recente guerra mondiale, ma anche i frequenti terremoti che agitano il belpaese. Nemmeno passato lo sgomento, che è subito caccia al colpevole, anche perché una delle ragazze è grave (e morirà di li a poco): l’architetto, il costruttore, il proprietario dell’immobile, il titolare dell’azienda che ha indetto il colloquio di lavoro, la portinaia che ha aperto il cancello… o la ragazza che ha scatenato la reazione rabbiosa delle sue compagne di speranza? Moralmente, perlomeno nella finzione filmica, non ci sono dubbi, è quest’ultima a dover pagare. Perché è troppo difficile, senza cognizioni specifiche di edilizia e di giurisprudenza, stabilire, ad esempio, se la scala doveva reggere tutte quelle ragazza ammassate; è un evento eccezionale, prettamente tecnico e poco significativo in un’opera di massa come è un film.

E’ più semplice, più utile, e soprattutto alla portata di tutti, capire che scavalcare la coda è sbagliato, e inoltre la metafora educativa si presta bene alla vicenda. E’ un vezzo tipicamente italiano, quello di fare i furbi, e quello a cui assistiamo dimostra anche i motivi che ostacolano la crescita sociale e collettiva del paese: per un vantaggio individuale (evitare la coda), si danneggia l’intera comunità (tutte le ragazze cadute nel crollo), finendo per danneggiare lo stesso individuo (la responsabilità morale e il derivante senso di colpa lacerante). Luciana, infatti, rea della furbata è disperata, stretta dai sensi di colpa, visto che, oltretutto, la ragazza che sta morendo era quella con cui aveva fraternizzato.
De Santis sembra scorgerci ancora delle assonanze con Riso amaro, e spedisce Luciana in cima ad una scala improvvisata in luogo di quella caduta, che già era una metafora del tentativo di scalata sociale, ma che ora ricorda anche quella salita dalla Mangano nel tragico finale del film sulle mondine. Arrivata in cima, Luciana si affaccia al vuoto sottostante, tentata di trovare una espiazione per la colpa commessa; che sarebbe un passaggio narrativo forte, esagerato in un contesto realistico (la colpa della ragazza non è certo grave da giustificare un suicidio). Ma darebbe tutto un altro nerbo al finale; invece si predilige una chiusura, per così dire, tipicamente zavattiniana, in cui si mantiene fede al realismo (l’inchiesta è archiviata con un nulla di fatto, e questo, in Italia, è certamente assai realistico), visto che nella cronaca non si parlò di alcun suicidio. Purtroppo, quello che rimane, e questo era un limite fortissimo che affiorava sempre più nella corrente neorealista, è l’impressione che in Italia siamo sempre tutti quanti vittime e nessuno è davvero mai colpevole.    



Lucia Bosè





             
Lea Padovani


Maria Grazia Franzia


Carla Del Poggio


Delia Scala