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giovedì 28 febbraio 2019

NIGHTMARE - DAL PROFONDO DELLA NOTTE

310_NIGHTMARE - DAL PROFONDO DELLA NOTTE (A nightmare on Elm Street). Stati Uniti 1984;  Regia di Wes Craven.

A nightmare on Elm Street, questo il titolo originale del film che porta per primo sullo schermo le avventure di Freddy Krueger, è un film di capitale importanza. E’ un horror, splatter per giunta (quasi duemila i litri di sangue finto utilizzati), bellissimo e terrificante, ma non è questo il vero motivo della rilevanza dell’opera di Wes Craven, anche perché all’epoca i film dell’orrore non godevano certo di grande considerazione. Nightmare, dal profondo della notte è però probabilmente il film manifesto del suo decennio, è quello che meglio chiarisce cosa erano gli anni ’80 e quale eredità si portavano dentro. E’ un film politico, ma non nelle dichiarazioni esplicite, nei messaggi più o meno velati: è politico intrinsecamente alla sua struttura. E il suo arrivare all’improvviso sulla scena, quasi dal nulla, alimenta ulteriormente, in un certo senso, la novità e l’efficacia della capacità di analisi dello sguardo del suo autore, il citato Wes Craven. Questo aspetto è forse dovuto alla storia personale di Craven, che prima di Nightmare non aveva avuto la possibilità concreta di mettere in mostra la sua capacità di regista; approdato al cinema troppo tardi, aveva diretto un paio di horror durissimi (L’ultima casa a sinistra e Le colline hanno gli occhi), le cui genesi erano state però un po’ estemporanee. Poi era passato attraverso altri lavori confusi e inadatti, accettati sempre con eccessiva precipitazione, forse per la foga di recuperare il tempo perduto in una gioventù passata lontano dal cinema. Pur facendo esperienza anche da un punto di vista tecnico, ad esempio al montaggio, il nostro poteva quindi essere l’ennesimo autore di buon talento che si perdeva per strada. 
Invece, mentre si arrabattava per dirigere i poco riusciti Benedizione mortale o Il mostro della palude, Craven preparava un autentico botto, che arrivava finalmente con il primo capitolo delle gesta di Freddy Krueger (Robert Englund sotto un pesante trucco). In realtà, in questo film, il villain con artigli, maglione a righe rossoverdi e capellaccio, non è mai chiamato ‘Freddy’: il personaggio, una delle clamorose intuizioni di Craven, ha già in nuce tutte le caratteristiche che lo porteranno a diventare un beniamino dei fan, ma in questo lungometraggio fa a dovere la parte del cattivo, e viene rispettosamente chiamato Fred Krueger. 

Ma il suo lato, diciamo così, amichevole, la sua voglia di scherzare con la vittima, che riprende la simpatia implicita al fascino dei grandi mostri Universal degli anni 30 (Frankenstein, Dracula e company) e la unisce a quella non-sense, surreale ed esplicita delle Looney Tunes della Warner Bros, i cartoni animati con il Vil Coyote o il gatto Silvestro, lo rendono il vero protagonista della pellicola. L’idea che il cattivo (e che cattivo, è un pedofilo che uccideva poi le sue povere vittime) possa assurgere a protagonista de facto della storia, per carisma, simpatia, fascino, è geniale e niente affatto gratuita. Krueger è infatti l’esempio migliore di una sorta di moda, che attraverserà tutti gli anni ’80, in cui i mostri dei film horror diventano i beniamini dei fan: Jason Voorhees della saga Venerdi 13, Michael Myers di quella di Halloween, completano insieme a Freddy il terzetto al vertice di questa galleria, ma gli esempi, magari meno eclatanti, si sprecano. Il fenomeno ne rievoca uno analogo già occorso in passato, quello riferito al già citato mondo orrorifico della Universal, quando, nel corso degli anni ’30, imperversavano pellicole che vedevano protagonisti i mostri, i cattivi, e non i paladini del bene. 


La cosa poteva avere una sua logica, in un certo senso sociologica, di facile lettura: in un periodo tanto tribolato come quello tra le due guerre mondiali, con la crisi del ’29 che martoriò l’intera società occidentale per anni, può essere naturale che l’angoscia diffusa avesse bisogno di valvole di sfogo, e in questo senso contribuì il cinema dell’orrore. Ma perché questo ricapitava ora, nei favolosi anni ’80? Perché nella società patinata del nuovo miracolo economico mondiale, al cinema tornavano alla ribalta le paure e le fobie, guardate per di più con favore dal pubblico, come fossero un toccasana per curare un disagio che il benessere sempre più diffuso non riusciva proprio a lenire? I mostri degli anni ’80, Krueger più e meglio dei suoi colleghi, erano dei veri e propri divi; niente a che vedere con l’indemoniata de L’esorcista o i protagonisti dei film horror italiani, ad esempio, che nulla avevano di amichevole ma che esprimevano al meglio il crudo tenore dell’horror degli anni ’70. Era evidente che il cinema dell’orrore negli anni ottanta fosse atteso come una lieta novella: il tenore di film come La casa di Sam Raimi (opera che si intravvede su una televisione in Nightmare) o Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis, confermano che non è un vezzo di Wes Craven, è proprio il clima dell’horror ad essere diverso, ora intento a cercare di terrorizzare si, (quello è lo scopo del genere) ma senza traumatizzare. ‘Vi è simpatico il cattivo, vero?’ sembra chiederci Craven; è il fascino del male, certo. E qui è mostrato in modo ironico e carismatico, con le tante battute concesse dal copione a Krueger: ‘Oh mio dio’ esclama Tina (Amanda Wyss); ‘Questo, è dio!’ risponde Fred mostrando gli artigli. 

Ma, per bilanciare questo malsano fascino, avremmo bisogno di una controparte solida, giusta, irreprensibile; il bene non ha un’attrattiva seducente in prima istanza come il male, ma ha basi più solide ed è appellandoci a quelle che possiamo salvarci. Non in Nightmare, dal profondo della notte, non nei favolosi eighties. Qui, i presunti buoni, le mamme e i papà, si sono sostituiti alla Giustizia, a Dio, e hanno punito il mostro vendicando col sangue i bambini uccisi dal pedofilo. In sostanza, arrogandosi il diritto di togliere la vita, sono scesi al suo livello; lacerati dal rimorso (la madre alcolizzata), incapaci di mantenere l’armonia famigliare (la famiglia divisa), questi personaggi che vivono in lussuose ville e fanno lavori rispettabili (il poliziotto) non hanno le qualità morali per essere modelli positivi e, dietro il perbenismo elegante di facciata, nemmeno hanno il fascino di quelli negativi. I personaggi principali del film, (oltre Krueger, ovvio) sono un gruppo di adolescenti, gente che quindi non ha vissuto da protagonista i duri anni ’70 e quindi eredita dai genitori le colpe di un decennio vissuto facendosi strada senza guardare troppo per il sottile (nel film, facendosi giustizia da soli). 


Al centro della scena c’è Nancy (Heather Langenkamp), insieme alla citata Tina e a Glen (Johnny Depp, al suo esordio); i genitori di Nancy, sono Marge (Roone Barkley) e Donald Thompson, tenente della Polizia interpretato da John Saxon. La scelta di un attore come Saxon, dall’aspetto duro e risoluto e che in carriera aveva lavorato moltissimo anche nel poliziesco all’italiana, genere che si contraddistingueva per l’asprezza con cui veniva combattuto il crimine, non sembra casuale. L’idea che passa è che la quiete e la vita agiata (almeno negli aspetti superficiali) degli anni ’80 si fondi sulla durezza con cui sono state risolti i problemi sociali del decennio precedente (nel film il criminale ucciso e bruciato). Il riferimento alla polizia serve per istituzionalizzare la colpa sociale, che non è solo di semplici cittadini, ma è suggellata dalla presenza di un’importante funzionario delle forze dell’ordine; la strizzata d’occhio a mo’ di conferma di Craven per questo aspetto è il poster del gruppo musicale The Police visibile in camera di Nancy. Perché è proprio dall’interno della società, dal suo intimo, che arrivano i problemi: emblematiche le sbarre alle finestre, messe per proteggersi da una minaccia esterna, ma che otterranno l’effetto opposto, intrappolando Nancy nella casa. Casa che, un po’ sulla falsariga del modello psicanalitico visto in Psyco di Hitchcock, rappresenta qui un modello in scala della società, con lo scantinato come una sorta di coscienza collettiva, con la caldaia dove si celano i segreti più inconfessabili e che ricorda sia la fornace in cui è finito il maniaco sia un’allegoria dell’Inferno. 


E il mostro, che emerge nel sonno delle sue vittime, è anch’esso perfettamente centrato sul simbolo di una colpa impunita che ritorna a tormentare i sogni di chi è invece convinto di vivere in una nuova età dell’oro. Sotto la superficie degli scintillanti anni ottanta, il new horror, di cui questo Nighmare, dal profondo della notte era ed è l’emblema, provava così ad agitare  quelle coscienze che erano state messe a riposo per potersi godere i frutti degli sforzi poco edificanti degli anni precedenti. E tutto questo discorso non è artefatto in modo posticcio e appiccicato in qualche modo all’opera, ma è la struttura intrinseca del film di Craven, che poi formalmente è anche un terrificante horror dove la pelle d’oca è assicurata a più riprese e il povero spettatore fatica a distinguere le fasi di veglia da quelle di sonno dei personaggi, trovandosi così alla costante mercé degli spaventi. Tantissime le trovate ad effetto, i passaggi memorabili, che rendono Nightmare, dal profondo della notte un autentico capolavoro senza tema di smentita. 
La serietà degli intenti di Craven, è certificata da come il regista gestisce il classico doppio-finale, quello che in genere viene definito ‘aperto’ e che permette la serializzazione dei film, espediente particolarmente in voga negli horror del decennio. Innanzitutto il regista dà una dimostrazione di come si possano vincere i timori, le angosce, evitando cioè di essere vittima di quella paura che la società inevitabilmente, per il suo essere malata, riflette sull’individuo. In effetti Nancy non ha alcuna colpa diretta, e quindi il suo voltare le spalle al Male non può essere inteso come un cercare opportunisticamente di ‘scordarsi’ le proprie colpe. E’ quindi questo il primo finale che sceglie Craven, una vittoria del bene sul male, dell’innocenza sulla colpa. Fin qui niente di particolarmente diverso da altri casi; un eventuale guizzo ulteriore di Krueger, potrebbe lasciar presagire la minaccia ancora presente e la possibilità di ulteriori sequel. Ma Craven annulla teoricamente questa chance (per altro poi concretizzatasi ugualmente, in barba alla logica, com’era anche prevedibile) perché il mostro non è affatto sconfitto e anzi riesce a mettere a segno già in questo suo esordio i punti-vittoria decisivi. Mentre un’elegante cabriolet (con la capote a strisce rosso verdi) rapisce praticamente i ragazzi, dalla porta della lussuosa villa il mostro ghermisce la madre di Nancy: il male è intrinseco alla moderna società e ai suoi simboli (la casa, l’automobile), e sfuggirgli non sembra proprio possibile.  




Heather Langenkamp







Amanda Wyss



martedì 26 febbraio 2019

ULISSE

309_ULISSE . Italia 1954;  Regia di Mario Camerini.

Peplum italico per cui non bisogna avere timore di usare il termine ‘capolavoro’, Ulisse di Mario Camerini è un film che incarna perfettamente gli stilemi del genere. Maestoso nella messa in scena, avvincente nelle gesta raccontate, affascinante nelle scelte visive, Ulisse non spreca nessuno dei minuti dello spettatore. La storia è quella del poema epico Odissea di Omero, adattata alle contingenti necessità cinematografiche. Del resto, il genere peplum in Italia aveva già il suo bel daffare a soddisfare la fame di eroi delle masse che si affrancavano dalla miseria della guerra, per potersi permettere il lusso di rimanere rigoroso ai testi originali. E chi volesse saperne di più, poteva farlo leggendo direttamente Omero; magari il film poteva anche essere inteso come stimolo ad approfondire. Ma, al di là di queste empiriche argomentazioni, è chiaro che l’interesse maggiore, in Ulisse, come in altri esempi del genere, era dato dalle storie appassionanti ma, soprattutto, dalle figure dei protagonisti. In primo luogo dall’eroe maschile, qui un fantastico Ulisse interpretato da un Kirk Douglas in grandissimo spolvero. Alcuni suoi passaggi, dialoghi o scene di azione, sono da manuale del perfetto eroe: su tutte quella nel finale, quando si scatena come una vera iradiddìo contro i Proci, tanto che anche Penelope (Silvana Mangano) ne rimane spaventata. La prima freccia del suo famoso arco la dedica al più infido dei pretendenti al suo trono, Antinoo (Anthony Quinn) e la scaglia con tanta rabbia che il dardo trapassa il torace dell’uomo in modo clamoroso. 
Dal canto suo, il citato Quinn si conferma valido attore soprattutto per i ruoli ambigui: in questo caso deve barcamenarsi tra il tracotante e l’infingardo, non ha quindi alcuna sponda positiva, ma riesce ugualmente a cavarne un ruolo interessante, proprio per il suo innato fascino ombroso. Ma, naturalmente, a contendere il centro della scena a Douglas non è certo Quinn, ma Silvana Mangano. Il suo è uno dei casi in cui, in un peplum smaccatamente avventuroso e quindi basato sul carisma maschile dell’eroe di turno, lo charme della protagonista arrivi a rubare la scena al prim’attore; questo poteva accadere per l’eccezionale fascino di queste interpreti, come appunto la Mangano. E pensando che l’eroe di turno in questione è nientemeno che Kirk Douglas, è tutto dire. 

Ma la Mangano, addirittura, si sdoppia e se, nel ruolo di Penelope, rimane un po’ mortificata dalla spasmodica attesa del ritorno dell’amato, in quello della maga Circe è favolosa e incarna in modo letterale le fattezze della divinità greca. D’accordo, i valori del film sono piuttosto semplici, ma lo sono nel senso di puri, basilari: semplici, quindi, ma non banali. Il coraggio, l’audacia, la lealtà, la generosità, sono argomenti sempre validi, anche nell’era moderna, e non dovrebbero (il condizionale purtroppo è d’obbligo) passare mai di moda.
Per chiudere, si può ricorrere alle parole dello stesso Ulisse in riferimento alla possibilità offertagli da Circe di divenire immortale come gli dei; e facciamolo riportando il suo rifiuto confermando, al contempo, la sua previsione: se un giorno gli uomini parleranno di me, lo faranno con orgoglio, perché sono stato uno di loro.   




Silvana Mangano













domenica 24 febbraio 2019

LO SPACCONE

308_LO SPACCONE (The Hustler). Stati Uniti 1961;  Regia di Robert Rossen.

Avevamo già capito che Paul Newman fosse il modello perfetto di eroe che andava a sostituire quello classico, in voga fino a tutti gli anni 50: John Wayne, Gary Cooper o James Stewart, per intenderci. Lo avevamo capito dai suoi precedenti film, valga per tutti La gatta sul tetto che scotta dove ha per le mani una splendida Liz Taylor e sembra non sapere bene che farci, proprio lui, quello che è considerato uno degli uomini più belli del mondo. C’è qualcosa che non gira per il verso giusto, almeno stando ai canoni classici, quando all’opera c’è Paul Newman. Ecco, Lo spaccone, film di Robert Rossen, certifica tutto ciò su uno splendido nero su bianco in CinemaScope, mostrando i dubbi, le incertezze, le debolezze dell’eroe, del campione a stelle e strisce, una volta che il Sogno Americano ha mostrato il suo lato oscuro. E questo non è il tema sotteso al film, il cosiddetto messaggio che possiamo trarre in sede di analisi più o meno approfondita; no, questo è proprio l’argomento esplicito della storia narrata. E’ un po’ come se Paul Newman, perlomeno il Paul Newman attore, recitasse un film dove il protagonista non è tanto l’Eddie Felson del racconto sullo schermo, ma piuttosto se stesso. La sua spavalderia (‘io sono il più forte’) unita a debolezze imperdonabili per chi gioca a fare il duro, la più clamorosa delle quali è la scarsa resistenza all’alcool, ci rendono perfettamente il quadro del moderno eroe anni sessanta. In fondo ha ragione il diabolico Bert Gordon (George C. Scott) quando lo apostrofa ‘nato battuto’: Felson non vince mai, anche nel finale, quando si prende la rivincita a biliardo contro Minnesota Fats (Jackie Gleason), in realtà ha perso la partita più importante, e l’ha persa in malo modo. 
E’ inutile la rabbia che Felson prova nei confronti di Gordon: la sua arringa finale, il suo pretendere di non dividere la vincita, non scalfisce quest’ultimo, che infatti lo lascia andare indenne. Gordon fa il suo, è una persona abietta che vive sulle debolezze altrui: gente del genere ce n’è, ce n’è sempre stata e ce ne sarà sempre. Il disprezzo di Felson non lo tocca minimamente; egli non è in nessun modo un eroe, un campione; non gioca a biliardo, lascia giocare gli altri e sfrutta in modo scaltro le opportunità. Non è un personaggio importante, e se se ne parla, è solo perché l’eroe interpretato da Newman è talmente debole e insicuro, da finirci imbrigliato. 

E nemmeno il finale riscatta il nostro eroe, anche perché avviene a partita ormai chiusa; con Eddie ‘nato battuto’ Felson comunque sconfitto. Il dramma di Felson è che potenzialmente egli è un vincente, allo stesso modo in cui il Sogno Americano è un modello che permette l’affermazione di ognuno: ovvero in linea teorica. Ma all’atto pratico, ecco che Felson si ubriaca, è stanco, non conosce bene il gioco, o trova un altro alibi per perdere; il punto è che l’idea competitiva e individualistica della società americana (rappresentata nel film dal gioco del biliardo) permette un solo vincitore. Quello che arriva secondo, in finale, per tutti è semplicemente il primo dei perdenti; questo è il risvolto amaro del Sogno Americano: ovvero che, se è possibile che tutti possano vincere, in realtà è sicuro che praticamente tutti (meno uno) perderanno. 
E mangeranno la polvere, perché non c’è nessuna gloria per il secondo classificato; non nel bigliardo e nemmeno in America. Quella del successo da conseguire a tutti i costi è una chimera, che Felson insegue senza riuscire a prendere mai, perché in realtà dentro di sé ne conosce la vacuità. E’ molto bello il discorso che fa a Sarah, quando si esalta parlando di un lavoro fatto bene, di un lavoro fatto mettendoci tutto il cuore possibile, di qualunque lavoro si tratti. E Sarah ha ragione vedendo in lui un uomo da amare; la ragazza, infatti, si innamora di Eddie in quel momento, e non quando ne vede i begli occhi azzurri. Ma di questo non se ne può certo accorgere un tipo come Gordon, che pensa invece che lei stia attaccata al suo pupillo come fosse all’ultima spiaggia; no, Sarah ama Eddie perché vede in lui il potenziale di un grande uomo. Un uomo diverso, che ama quello che fa, non per dimostrarlo agli altri, ma per se stesso, per il gusto del lavoro in sé. Un uomo in grado di innamorarsi di una ragazza non bellissima; e zoppa, per di più.
Era davvero un grande uomo, Eddie Felson.
Almeno potenzialmente.  









Piper Laurie