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martedì 30 novembre 2021

SQUADRA VOLANTE

934_SQUADRA VOLANTE ; Italia1974; Regia di Stelvio Massi. 

Per il suo primo film ad essere distribuito nelle sale, Stelvio Massi poté disporre di un cast di tutto rispetto: Tomas Milian è nei panni del protagonista, l’ispettore dell’Interpol Tomas Ravelli; Gastone Moschin in quelli del Marsigliese, un gangster italiano; Mario Carotenuto è il brigadiere Lavagni e Ray Lovelock è Rino, l’autista della banda di criminali. L’operazione di Massi è una specie di ricetta: prende il Milian nelle vesti di poliziotto visto in Banditi a Milano di Carlo Lizzani (sorta di progenitore del poliziesco all’italiana dei ’70), filtrato attraverso le ruspanti interpretazioni prevalentemente western fornite dall’attore cubano. Il risultato è un personaggio che, con le opportune variazioni, sarà uno dei cliché interpretativi di Milian, a partire da Il giustiziere sfida la città di Umberto Lenzi dell’anno successivo. Gastone Moschin è preso di peso da Milano calibro 9 di Fernando di Leo, sebbene il Marsigliese manchi del carisma indecifrabile di Ugo Piazza; e volendo dirla tutta, la pur bella Stefania Casini che lo affianca come fece allora Barbara Bouchet, nonostante la tinta platino e il vestito argento con le paillettes, non regge assolutamente il ricordo dell’attrice tedesco/americana. Carotenuto è la classica spalla umoristica che serve per allentare la tensione e Lovelock ha già nel curriculum un paio di poliziotteschi (il citato Banditi a Milano e Milano odia: la polizia non può sparare di Umberto Lenzi). Insomma, Massi si limita a mescolare ingredienti già noti nel genere cinematografico specifico, aggiungendo qualche nota saporita al punto giusto, ma senza esagerare con le innovazioni. 

Volendo, la figura del personaggio principale anticipa quella che diverrà celebre nella versione interpretata da Charles Bronson ne Il giustiziere della notte di Michael Winner: anche qui il protagonista insegue una vendetta personale in seguito all’uccisione della moglie e, se è vero che Ravelli è un poliziotto, (a differenza del giustiziere interpretato da Bronson) al momento decisivo il nostro getta il distintivo per poter fare giustizia da sé e senza alcun vincolo professionale. Finale quindi al cardiopalma, e ben girato da Massi, con il Marsigliese ucciso a sangue freddo nei pressi di una darsena sul Po; forse solo un po’ troppo prevedibile e privo di reali spunti interessanti oltre alla concitazione della scena. Certo, ci sarebbe da cogliere il messaggio violento della giustizia fai da te, in qualche caso, al contrario di quanto si può credere, negato con più fermezza in altri film del poliziesco all’italiana, ma possiamo considerarlo come una prova registica di finale drammatico: sebbene perfino l’ispettore Callaghan, a cui si può scorgere certamente qualche altro riferimento, aspettava la mossa di Scorpio prima di freddarlo. Per concludere c’è anche in Squadra volante la giusta attenzione all’ambientazione, tra le strade di Pavia dove sfrecciano le automobili durante i proverbiali e classici inseguimenti: da ricordare una Alfa Romeo 1750 Berlina, una Citroen DS 19, le Fiat 124 e Fiat 128, le immancabili Alfa Romeo Giulia Ti della Polizia, e una insolita Chrysler 180.  






Stefania Casini 


domenica 28 novembre 2021

CIMARRON

933_CIMARRON ; Stati Uniti, 1960; Regia di Anthony Mann. 

Nelle considerazioni che si possono fare in merito a questo film, non aiuta certo il fatto che il regista sia un asso come Anthony Mann. Mann ha al suo attivo alcune pellicole di assoluta eccellenza per il genere western e per il cinema in senso assoluto: vengono subito in mente i film col sodalizio con James Stewart, ma non solo. Purtroppo Cimarron è un film che non raggiunge nemmeno la sufficienza, in senso compiuto, come opera; si potrebbe ben definirlo un film brutto. Questo viene da dire a botta calda, subito dopo la visione; smaltita la delusione, possiamo anche valutare le cose positive che ci sono nell’opera, che ci ricordano il talento del regista americano. La prima ora è buona, c’è una solida impostazione, sebbene la melassa sentimentale affiori già qua e là. Notevole però lo spunto storico della corsa alla terra dell’Oklahoma; poi ci sono le classiche scene alla Mann, con la tensione che sale fortissima, le varie scazzottare, le ingiustizie ai danni dell’indiano, l’impiccagione dello stesso, i divertimenti da prepotenti dei bulli del paese, la resa dei conti nella scuola. Oltre che il titolo del film, Cimarron è il soprannome di Yancey Cravat (Glen Ford) che è il classico raddrizza torti dei film western; niente di originale ma è comunque un tema classico. Glen Ford non ha la presenza scenica di John Wayne o James Stewart ma, a suo favore, va detto che è un eroe più moderno, meno granitico. Il vero danno, nella storia raccontata dal film, è che si innamora di una delle donne più insulse della storia del cinema, ovvero tal Sabra (una scialba Maria Schell), che prende via via più importanza nell’economia della vicenda, mandando a gambe all’aria ogni pretesa di mantenere un minimo interesse sulla questione. La donna passa il tempo a contestare le scelte del marito e del figlio avanzando pretese, salvo poi commuoversi nel ricordare i tempi perduti. Una melassa senza capo né coda che si protrae per ben 147 minuti, di cui salvare appunto solo la prima oretta citata prima, non eccelsa ma comunque di altro tenore. Peccato veder coinvolta anche Anne Baxter in un simile pasticcio, per altro a sua volta in una parte per nulla memorabile. A livello di struttura, il film parte con un forte riferimento storico (la suddetta corsa alle terre dell’Oklahoma) e rimane legato a quel periodo per tutta la prima fase; poi, pian piano il tempo della narrazione si dilata fino a coprire uno spazio temporale enorme che va dalla fine dell’epoca del vecchio west alla Grande Guerra. E, purtroppo, anche questa difformità nella struttura temporale della narrazione non giova alla riuscita dell’opera. Va detto che, almeno stando ad alcune voci, Mann sia stato ostacolato in alcune scelte e, da un certo punto in poi, si sia disinteressato alla realizzazione del lungometraggio. Curiosamente, in definitiva, il film riesce, anche se in modo probabilmente involontario, a dare comunque uno spunto di riflessione interessante. Finale del film, l’allegra combriccola di Osage, la città ormai cresciuta, vuole celebrare lo spirito del pioniere con una statua di bronzo che raffiguri Cimarron (ma solo perché la moglie, scelta in prima istanza, ha rifiutato di essere immortalata!): non è più tempo per l’epica dei film di Mann con Jimmy Stewart, adesso per celebrare il Mito del Far west si ricorre ad un pacchianissimo monumento. Oltre alla mancanza dei valori (dispensata a piene mani nel film in ossequio al pragmatismo yankee), anche la mancanza di gusto. Terribile. 






Maria Schell




Anne Baxter 


venerdì 26 novembre 2021

YARA

932_YARA ; Italia, 2021; Regia di Mario Tullio Giordana.

Ad un certo punto, nel dibattimento a carico di Massimo Bossetti (interpretato da Roberto Zibetti), il suo avvocato Salvagni (Lorenzo Acquaviva) contesta l’autenticità del video dei Carabinieri in cui si vede il furgone del carpentiere di Mapello passare più volte accanto alla palestra dove era sparita la giovanissima Yara Gambirasio (Chiara Bono), prima di venire uccisa. Il colonnello Vitale (Alessio Boni) lo ammette: il filmato è stato assemblato prevalentemente per calmare l’opinione pubblica. Infatti, puntualizza la vera protagonista del film Yara di Marco Tullio Giordana, ovvero il Pubblico Ministero Letizia Ruggeri (Isabella Ragonese), il video in questione non è stato inserito nel fascicolo agli atti del processo. E allora di che parla Salvagni? Beh, l’operazione dei Carabinieri è certamente scorretta, visto che il caso di Yara Gambirasio, trovata morta tre mesi più tardi dal giorno della scomparsa, era di forte impatto mediatico e operazioni atte ad influenzare l’opinione pubblica potevano avere riflessi sulle scelte dei giudici popolari componenti la Giuria. Ma formalmente la stessa accusa poi si attiene alle regole, evitando di presentare in aula contro Bossetti, unico imputato, prove non perfettamente attendibili; la difesa, dal suo punto di vista anche comprensibilmente, contesta quindi la poca sportività, chiamiamola così, della controparte. Salvo poi accanirsi su un cavillo legale, per confutare la prova schiacciante ai danni del Bossetti, inerente al famoso DNA trovato sul cadavere di Yara; il che sembra un po’ una contraddizione nella linea di condotta della difesa. Insomma, gli avvocati di Bossetti guardano la forma o la sostanza? 

Perché nella storia del filmato sembrerebbe che per Salvagni la sostanza sia prevalente: d’accordo, il video non è stato portato in aula, rispettando le regole, ma in concreto potrebbe comunque danneggiare l’imputato. Ma questo atteggiamento lascia qualche perplessità quando si contesta poi che il lavoro in laboratorio sia stato fatto senza la prevista presenza di un rappresentante della difesa. Probabilmente, per evitare successive obiezioni, sarebbe bastato nominare un rappresentante difensivo d’ufficio per Ignoto 1, come venne chiamato il soggetto identificato dal DNA ritrovato sul corpo della giovane ginnasta. In questo modo le prove avrebbero assunto valore legale inconfutabile, essendo presente al momento delle analisi il rappresentante dell’eventuale imputato; nella concitazione delle indagini questo passaggio venne trascurato, dando luogo ad una presunta debolezza formale nella costruzione dell’accusa. Ma di questo si parla e parla, sostanzialmente, la difesa: ma allora, cavillo per cavillo, anche gli inquirenti non possono essere accusati per un video che non hanno, in sede ufficiale, presentato. Questa incoerenza mina un po’ la credibilità della difesa di Bossetti e, nello specifico del suo avvocato che, per onestà di cronaca, il regista Marco Tullio Giordana tratteggia poi in modo eccessivamente caricaturale. 

Cioè, intendiamoci, è evidente che in un processo in cui c’è in ballo da una parte una vita giovanissima spezzata e dall’altra una pena che può essere l’ergastolo, valga tutto e il contrario di tutto (a patto di stare nei termini consentiti dalla legge, chiaro). Ma l’accusa mostra spudoratamente i muscoli, nel film ostentati simbolicamente anche dalla Ruggeri che si allena al sacco da boxe, perché deve assolutamente trovare il colpevole. La difesa invece ha un atteggiamento più ondivago, scantonando in modo generico su alcuni elementi effettivamente critici e professando poi un candore e una richiesta di rispetto formale che, all’occhio del profano, sembrano un po’ fuori luogo nel contesto creatosi. Questi elementi non sono propri del film di Giordana ma della vicenda vera e reale ma, d’altronde, il lungometraggio altro non fa se non portare sullo schermo abbastanza pedestremente gli elementi principali emersi dalle indagini e facendo propria la tesi emessa dalla sentenza di primo grado, lasciando a semplici didascalie il compito di riassumere i successivi sviluppi, che non hanno cambiato la sostanza delle cose. Il film, quindi, mette sullo schermo la verità processuale come fosse la verità in senso assoluto. La cosa dovrebbe essere anche pacifica, visto che ci si dovrebbe attendere un elevato grado di affidabilità delle sentenze, soprattutto in casi di simile gravità. 

Certo, fa un po’ specie vedere una vicenda di cronaca riproposta al cinema quando ancora non se ne è ancora spento l’eco; ma forse questo è un problema italiano della scarsa fiducia, in qualche caso legittima, che il cittadino ha nelle istituzioni, magistratura compresa. Per cui ogni sentenza non è mai ritenuta definitiva, nemmeno quando passa in giudicato, né tantomeno assurge mai ad elemento realmente attendibile. In questo contesto, forse, il film di Giordana, con il suo asettico e acritico plafonarsi sulle tesi delle sentenze, rischia davvero di avere la stessa funzione del filmato dei Carabinieri citato in apertura. Uno mero strumento, cioè, che convinca il popolo della colpevolezza di Bossetti. D’altra parte, in Italia, pare che, al contrario, i media trovino comodo, per alimentare la fame di ingiustizia, una delle esigenze più singolari e peculiari del Belpaese, continuare a dare corda a qualunque tesi complottista paventando innocenti puntualmente incarcerati al posto dei veri colpevoli. Stando alla Giustizia italiana, e al film di Giordana, Bossetti è colpevole; in trasmissioni televisive, giornali e social network vari, invece, la tesi d’innocenza del carpentiere di Mapello trova sempre, se non credito, perlomeno spazio a volontà.
Oltre che per la vittima, che va sempre ricordata, spiace, nel caso fosse davvero innocente come si professa, anche per il condannato ma, in senso generale, in un paese normale, dovrebbe essere da lodare la scelta del regista, che si allinea sulla versione più attendibile e, come detto, meno appetibile alla voglia di polemica e di protesta della gente. Ma è normale un paese in cui la fiducia nella Giustizia è prossima allo zero? E, di contro, è normale un paese il cui popolo anela strumentalmente a qualunque scusa per indignarsi anche a sproposito? Insomma, il punto è: l’Italia è un paese normale? E, se la risposta fosse no, come potrebbe esserlo il suo cinema?
  


mercoledì 24 novembre 2021

NON APRITE QUELLA PORTA

931_NON APRITE QUELLA PORTA (The Texas chain saw massacre); Stati Uniti, 1974; Regia di Tobe Hooper.

Trattandosi di un film che ha quasi mezzo secolo, non si dovrebbe incappare in rischi di spoiler che rovinino l’eventuale visione. Tuttavia meglio essere cauti: la cosa forse più interessante in Non aprite quella porta, film cult di Tobe Hooper, è il finale. Quindi, se non avete ancora visto il mitico e imprescindibile film del 1974, sappiatevi regolare.
Il punto chiave è: si può davvero dire che siamo di fronte ad un lieto fine, eventualmente anche solo parziale? Dei cinque ragazzi protagonisti involontari e passivi del famoso massacro della motosega del Texas (dal titolo originale The Texas chain saw massacre), sopravvive la sola Sally (Marilyn Burns). Non è certo il primo caso, anche solo rimanendo in terreno cinematografico, che ci sia un solo superstite ad una tragedia; in genere, chi la scampa si trova combattuto da due differenti e contrapposti stati emotivi. Da una parte c’è il sollievo per essere in salvo, dall’altro il dispiacere per la perdita di amici, parenti o conoscenti; inoltre l’adrenalina causata dalla paura necessita di tempo per defluire. Ciononostante, almeno per quel che riguarda lo spettacolo cinematografico, di norma la gioia per lo scampato pericolo basta per gettare una luce positiva sul finale. Osservando la risata nevrotica di Marilyn Burns coperta di sangue, tutto si può invece pensare tranne che il suo personaggio, la Sally di Non aprite quella porta, possa vedere qualcosa in ottica benevola. Certo, c’è una forma di soddisfazione nel non essere caduta vittima di Faccia di Cuoio, (o Leatherface, come in seguito è stato chiamato anche nelle edizioni italiane il personaggio, interpretato qui da Gunnar Hansen), una specie di rivalsa che si unisce al semplice istinto di sopravvivenza che, nella povera giovane, ha finalmente libero sfogo nella sequenza conclusiva. 

La ragazza non sembra, in quel momento, essere in grado di superare il trauma: il che potrebbe anche essere normale, in medicina o comunque in ambito scientifico. Ma Non aprite quella porta è un film horror, un film di genere, mica un trattato documentaristico; e in un film dell’orrore ci si aspetta che se ti salvi, dovresti essere perlomeno soddisfatto; comunque più soddisfatto per la tua salvezza, in maniera anche egoistica, d’accordo, di quanto tu possa essere addolorato per le perdite dei compagni di avventura. Oh, insomma, perlomeno nel momento in cui la tua salvezza si concretizza ci si aspetta un moto di sollievo! Che proprio non c’è nel film di Hooper. E la cosa migliore del film, forse, è che la risata isterica di Sally, mentre si allontana dall’orrore, la sentiamo davvero nostra. 

Perché Non aprite quella porta non è il classico film dell’orrore sulla famiglia di pazzi che si diverte a massacrare i viandanti per cui se si riesce a fuggire è la salvezza. Cioè, è sostanzialmente quello, una storia su una famiglia di folli cannibali ma Tobe Hooper non vuole raccontarci che nelle aree retrogradi degli Stati Uniti (e, quindi, del mondo, visto che il cinema di Hollywood è un cinema universale) ci siano sacche di violenza immotivata. Hooper ci dice un’altra cosa, e la dice sin da subito, sin dall’intro ma soprattutto sin da quelle parole, totalmente sconnesse alle immagini, che provengono dalla radio: è il mondo intero ad essere una sacca di violenza immotivata. 

Mentre i cinque giovani stanno viaggiando nella lussureggiante campagna americana per andare alla casa di famiglia di Sally e Franklin (Paul A. Partain), suo fratello disabile, dagli altoparlanti del pulmino la voce del notiziario racconta ogni tipo di efferatezza senza fornire mai alcuna motivazione che la giustifichi. Persino l’asettico crollo di una palazzina, che produce comunque morte in notevole quantità, è lasciato senza risposte dai tecnici responsabili della costruzione edile. Non serve, quindi, imbattersi nella famiglia di pazzi cannibali più famosa del cinema per trovare l’orrore: l’orrore è ovunque. Non è forse un orrore indicibile il modo in cui si macellavano le bestie nel mattatoio, a colpi di martello? E si può dire davvero superata la cosa, ora che si abbattono con un punteruolo pneumatico? 

Il tema del macello è in effetti strettamente collegato alla trama del racconto visto che il nonno dei due ragazzi in questione vi lavorava e anche l’altro patriarca, quello mostruoso (Nonno Sawyer interpretato da John Dugan), era un veterano di quella professione e nel corso del film si cimenta con l’antico sistema cercando di ammazzare a martellate la povera Sandy. La scena è quasi comica, tanto che il grottesco nel registro di Hooper fa costantemente irruzione anche solo per le movenze e gli atteggiamenti di Faccia di Cuoio, Nubbins (Edwin Neal), Drayton (Jim Siedow), insomma della famiglia Sawyer, nonno ovviamente compreso. In verità Tobe Hooper mette in primo piano anche un altro tema: quello astrale. 

Dai titoli di testa incendiati dalle fiamme della superficie solare, alle inquadrature dello stesso sole, della luna, alla lettura dell’oroscopo che fa continuamente Pam (Teri McMinn), si potrebbe pensare che ci sia un collegamento col Destino, che la sorte dei nostri sia segnata sia dal principio. In realtà, i segni, li producono ben più prosaicamente i Sawyer: a cominciare da Nubbins, l’autostoppista, già segnato da una voglia sul volto che oltretutto prima si segna una mano, tagliandosela, poi segna allo stesso modo Franklin sul braccio, infine marchia col suo sangue il pulmino dei gitanti con quello che gli stessi ragazzi interpretano come una sorta di segnale malaugurante. Il Destino non è nelle mani degli astri, quindi, ma in quelle degli esseri umani. 

Piuttosto, il rapporto tra uomini e corpi celesti sembra dirci che rispetto all’inaccessibilità e alla lontananza degli astri, le differenze sulla terra, tra chi macella viandanti e chi cagiona la morte di ignari inquilini per noncuranza e scarso senso di responsabilità, sembra davvero minima. Ah, va anche detto che per far questo Hooper produce un film disturbante che, pur avendo una trama prevedibile oltre ogni dubbio (il racconto è di fatto anticipato da una voce narrante in apertura) le particolari inquadrature della macchina da presa e le movenze dei personaggi, in primis la schizzata rapidità di azione di Faccia di Cuoio, e non da ultimo l'originale ricchezza del bizzarro decor di casa Sawyer, spiazzano e sorprendono costantemente. Il che sembra la concretizzazione cinematografica di un concetto espresso anche dal film stesso: anche se pensiamo di aver già la consapevolezza che il mondo sia un posto ben poco raccomandabile, non per questo possiamo dirci al sicuro. Oltre a ciò, Non aprite quella porta ci dice che, dovessimo anche salvarci, non ne usciremo certo puliti e sollevati.   




Marilyn Burns




Teri McMinn



lunedì 22 novembre 2021

SHINING (Versione europea)

930_SHINING ; Stati Uniti, Regno Unito, 1980; Regia di Stanley Kubrick.

Quando si parla del film Shining si finisce spesso a riflettere sulla scarsa soddisfazione che ne ebbe Stephen King, autore del romanzo preso a soggetto dal regista Stanley Kubrick. Il Re del terrore letterario non ha mai risparmiato severe critiche all’adattamento del geniale Stanley e la cosa ha sempre destato una certa curiosità. I due autori sono ritenuti autentici maestri nei rispettivi ambiti di azione con bacini di pubblico non necessariamente in contrapposizione: com’era quindi possibile che il cineasta, tra l’altro ritenuto molto spesso il regista migliore in circolazione, avesse deluso in tal modo lo scrittore? Va detto che, oggettivamente, Kubrick opera anche stavolta in modo molto personale: prende il libro di King e lo smembra per darne poi una forma visiva sullo schermo spogliata di quasi tutta la costruzione narrativa che è una prerogativa oltre che uno dei punti di forza del letterato del Maine. Non si tratta solo di amputare varie parti del romanzo, mutilando in questo senso senza pietà la verve narrativa di King; anche da un punto di vista della costruzione del racconto, Kubrick smonta il meccanismo del libro, ad esempio facendo capire sin da subito, sin dalla prima espressione, che Jack Torrance (un mitico Jack Nicholson) è completamente svitato. King gioca spesso su tipici equilibri narrativi, per cui un personaggio può già anche essere segnato ma poi succede qualcosa, come andare a soggiornare in un hotel infestato, che lo spinge verso la follia. Quando il personaggio svolta, ci sorprende ma, siccome King è un fine narratore, mai del tutto inaspettatamente, perché a quel punto ci possiamo ricordare di questo o quell’antefatto che sul momento avevamo trascurato. 

Questo meccanismo narrativo alimenta lo stupore in modo più consistente di un colpo di scena imprevisto e allo stesso tempo totalmente impossibile da prevedere. Del resto addirittura lo stesso Hoverlook Hotel ha una storia che ricalca uno di questi schemi: c’è nel passato dell’edificio un episodio di sangue ma, ancor prima, c’è il fatto che la costruzione sia stata realizzata su un vecchio cimitero indiano. Che un evento tragico possa avvenire dove c’è ne già stato uno in precedenza, può essere una coincidenza (con conseguente stupore del lettore di fronte al fatto imprevedibile che in sostanza è imprevedibile fino ad un certo punto), ma se tutto ciò avviene in una costruzione che si intuisce in qualche modo essere sacrilega, la sorpresa del lettore prende una diversa consapevolezza, quasi che fosse una cosa addirittura inevitabile (valutandola a posteriori, ovviamente). King, su questo genere di incastri narrativi, ci sguazza, irretendo il lettore in una ragnatela tra rimandi e richiami che è un assoluto maestro a creare. 

L’horror, che è un genere quasi meccanico, è perciò perfettamente nelle sue corde come testimoniano i tanti best seller e capolavori che lo scrittore nel tempo ha sfornato. Kubrick, dal canto suo, è più interessato ad osservare cosa ci sia dietro e dentro la meccanica narrativa dei generi, nel suo caso cinematografici ma che hanno funzionamenti molto simili ad una letteratura come quella di King, che è estremamente visiva. Per questo motivo, come già fatto in passato con altri generi, Kubrick spoglia completamente il testo di King, lasciando prima nella sceneggiatura e poi sullo schermo solo quello che per lui è essenziale allo scopo di far funzionare il film. E’ evidente che è un’operazione poco riguardosa, nei confronti dello scrittore, perché mette in evidenza come la maggior parte delle parole profuse da King siano superflue, almeno secondo il regista. 

Qui probabilmente nasce la contesa: secondo lo scrittore la sua prosa è il fulcro della sua arte; secondo Kubrick quello che fa funzionare un racconto è altro e quindi il suo intento è smontare il giocatolo per andare al nocciolo. Non c’è, da parte del regista, una volontà denigratoria nei confronti del testo scritto di King o almeno non specifica. Perché la semplice cronaca delle uscite cinematografiche di Shining ci dice che Kubrick riserverà in sostanza lo stesso trattamento usato nei confronti di Stephen King per un altro autore coinvolto nel progetto: Stanley Kubrick. Infatti, il regista preparò una versione di 146 minuti che venne proiettata alla première ma che non ottenne un’accoglienza troppo favorevole, al punto che il regista eliminò l’intera scena finale. Negli Stati Uniti venne quindi messo in circolazione il film, che già prevedeva sostanziali sforbiciate al racconto di King, della durata di 144 minuti. 

Ma Kubrick non era ancora soddisfatto e, sulla base di un racconto che presentava già qualche sobbalzo narrativo, intervenne pesantemente al taglio producendo la versione internazionale del film della lunghezza di 119 minuti. Per volontà dello stesso regista, le due differenti versioni dovettero circolare nei due ambienti senza che vi fosse la possibilità, per gli spettatori, di vedere lo Shining non previsto dalla rispettiva distribuzione. Non sono dettagli marginali o semplici curiosità, visto che Kubrick si dimostrò particolarmente attento alla confezione delle varie edizioni nei paesi dove il film venne doppiato. Insomma, per il cineasta l’effetto che la sua pellicola doveva ottenere era fondamentale, al punto da controllare personalmente aspetti che, abitualmente, erano e sono lasciati nelle mani di specifici addetti ai lavori (spesso nemmeno troppo affidabili). Questo ci dà l’impressione di un autore che fosse molto interessato alla reazione che il suo film avrebbe ottenuto sul pubblico: in quest’ottica sembra quasi che l’idea di non uniformare le versioni dei film, possa indicare che Kubrick volesse valutare se 25 minuti di pellicola in meno aumentassero, diminuissero o lasciassero inalterato il giudizio degli spettatori. Certo è che la considerazione di assoluto genio del cinema che conosceva perfettamente i meccanismi della settima arte, esce un po’ incrinata da questa situazione. Forse, nei confronti del genere horror, Kubrick si comportò come un alchimista: ad esempio, la scelta di utilizzare abiti diversi ad ogni scena per Danny (Danny Lloyd), il figlioletto di Jack Torrance, era legata anche e soprattutto alla possibilità di collocare poi a piacimento, nel lungometraggio, i segmenti narrativi che vedevano il ragazzino sullo schermo. 


Stando alle parole della costumista, Milena Canonero, si può anche ipotizzare che fosse una necessità di realismo nel rappresentare un figlio unico vezzeggiato dalla madre Wendy (Shelley Duvall), ma certo questo stratagemma lasciava libere le mani di Kubrick in sala di montaggio. Un ulteriore esempio di come l’autore avesse a priori l’intenzione di smontare e rimontare a piacere anche il cinema horror; del resto nel colloquio iniziale a Torrance viene spiattellato tutto quanto potrebbe succedergli, e ovviamente gli succederà, con un annullamento preventivo dell’effetto suspense. Intenzioni che, è onesto riconoscerlo, stavolta faticheranno a concretizzarsi in un risultato convincente nella sua totalità, almeno da un punto di vista canonico. Vero è che Shining ci regala alcune scene di grandissimo impatto che costituiscono parte fondamentale della fama del regista: ma il suo operare, il suo correggersi in corsa, dà comunque adito a qualche legittimo dubbio sulla consapevolezza dell’autore. Una mancanza di messa a fuoco che è avvertibile anche guardando il film, se riusciamo ad andare oltre alla magniloquenza delle immagini: Kubrick non sembra tanto interessato alla storia che sta raccontando, a differenza di King, ma questo pare metterlo in difficoltà quando deve sbrigare la pratica del finale. Come detto nelle fasi iniziali il regista sembra quasi divertirsi a scombinare i piani narrativi del soggetto ma poi, per dare un senso al suo lavoro, un finale andava trovato. Nel cinema dell’orrore, così come nel giallo o nel thriller, la conclusione condensa, riassume ed esplicita il senso di tutto il narrato: se si è smontato il meccanismo il rischio è che non si riesca più a trovare una chiusa efficace. 

Non a caso il finale è stata una delle prime cose ad essere modificato, con il taglio completo di una sequenza che, come detto, si è potuto vedere solo alla première. Dopodiché, nonostante il finale monco, Kubrick non è rimasto lo stesso soddisfatto della sua opera, perché un horror fatica a convincere se si raggela e si scompone eccessivamente l’atmosfera narrativa. D’altra parte il lavoro di Kubrick atto a smontare i legami del racconto è capillare e profondo e si spinge anche a particolari dei dialoghi: nel romanzo il cuoco Hallorann (Scatman Crothers) quando appella per la prima volta Danny col soprannome di Doc, a Jack che gli chiede come facesse a conoscere il nomignolo del bambino, risponde che è per via della sua aria da saputello (dottorale, nel testo). 

Una traccia volutamente lasciata labile da King che, a posteriori, contribuirà alla sorpresa di scoprire che il cuoco ha anch’esso la chiaroveggenza oggetto del racconto (lo shining). Diversamente Kubrick utilizza questo passaggio per creare, sul momento, la fastidiosa sensazione di un buco nella sceneggiatura: nel film, infatti, Hallorann risponde, stavolta a Wendy che comunque gli pone la stessa domanda, che deve aver sentito i genitori appellare così il figlio. Ma, sia noi spettatori che la donna nel film, sappiamo non essere vero: guardando la versione internazionale di Shining, si può quindi assimilare questo passaggio ai tanti salti che la sceneggiatura presenta e legati però alla forbice di Kubrick in sala di montaggio. E questo depotenzia l’effetto che un simile dialogo doveva/poteva avere: lasciar cioè intendere la chiaroveggenza del cuoco per spiegare razionalmente il passaggio poco chiaro nella sceneggiatura. Che invece può finire confuso nel marasma di tagli verti a scomporre la trama del racconto: ma si tratta, evidentemente, di aspetti secondari a ciò che importa veramente a Kubrick. 


In ogni caso, a proposito di questo passaggio, il rimando ai cartoon di Tex Avery, con il coniglio Bugs Bunny e il suo tormentone
“What’s up, Doc?”, è invece sfruttato a dovere da Nicholson che si produce in una interpretazione che ricalca i vecchi cartoni animati dell’autore texano. In particolare tutta la mimica facciale dell’attore sembra dare un’interpretazione dal vivo del Lupo di Avery ai tempi della MGM (citato quasi in modo esplicito da Jack Torrance nella celebre scena con l’ascia), mentre un altro richiamo evidente a Bugs Bunny lo si può cogliere in una delle scene più strane e inquietanti del film (quella con l’uomo travestito da coniglio, appunto). 

In King è un modo per rendere concreta la follia che permea Torrance durante la permanenza all’Overlook Hotel, in Kubrick un ulteriore modo per seminare irrazionalità narrativa nel racconto. Al colloquio, infatti, vedendo Jack Nicholson, contenuto, questo sì, ma con un’espressione folle costantemente dipinta sul volto, nessuno gli affiderebbe la gestione di un hotel in completo isolamento. Tantomeno si andrebbe a cacciare in una situazione simile una donna già spaesata e titubante come la Wendy del film e tutto sommato già di inizio film (a differenza di quella del libro). 
Questi aspetti non infastidiscono, però, la visione della pellicola, anche perché è tipico delle storie dell’orrore che i personaggi si ficchino inopinatamente nei guai invece di scappare alla prima avvisaglia di pericolo. Può quindi sorgere il dubbio che sia questo il senso del lavoro di Kubrick: dimostrare come l’horror sia un genere che si basa su meccanismi quasi scientifici (la suspense, ad esempio) ma che per funzionare ha bisogno anche di un terreno totalmente illogico su cui attecchire. La meccanica (una disciplina matematica e quindi scientifica) dell’irrazionale. E’ una contraddizione, è chiaro, ma accettata in un patto stipulato a priori: del resto lo spettatore è ben consapevole che la storia gli farà paura ma vuole ascoltarla proprio per questo, e quindi è disposto ad accettare qualche
licenza poetica narrativa. Forse Kubrick prova ad inserirsi in questo tacito e consueto accordo tra autori e fruitori: e se il protagonista, non impazzisse solo ad un certo punto, ma fosse già chiaro sin dall’inizio che siamo di fronte ad un folle? E se foste a conoscenza sin da subito del fatto di sangue precedente nell’hotel e del suo probabile legame con il sacrilegio in fase di costruzione dell’edificio? E se il castello narrativo non assecondasse tutte le vostre necessità emotive in modo consueto?
In realtà, le eventuali risposte andrebbero cercate se intendiamo Shining di Stanley Kubrick come la versione cinematografica del libro di Stephen King. E allora potremmo anche condividere le perplessità dello scrittore, come visto. Ma forse l’errore è proprio insistere in questo confronto; cioè, è interessante, perché da un certo punto di vista permette infine di smarcarci poi dalla disputa a ragion veduta. Comprendere le ragioni, mettiamola così, di King, può servire per provare poi a guardare il film Shining in un’ottica completamente diversa. 


Ad, esempio, si potrebbe azzardare che il film di Kubrick sia la realizzazione plastica, tridimensionale, di una ipotetica mente che potrebbe, siamo sempre nel campo delle ipotesi, aver partorito lo
Shining racconto. Allora, nell’inconscio di questo ipotetico scrittore, in cui possiamo scrutare come spettatori privilegiati, il tempo ha un senso relativo, proprio come avviene nei sogni, per esempio. Prende così ragion d’essere la mancanza di senso delle tante e stucchevoli didascalie e assumono significato anche i salti di sceneggiatura: sono, infatti, le perfette caratteristiche del campo onirico. In questo senso emerge anche una chiave di lettura per la casa contrapposta al labirinto esterno: contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la prima è il luogo del pericolo, della paura, mentre il secondo condurrà il bambino e sua madre alla salvezza. 

La casa con i suoi ambienti accoglienti, i saloni d’orati, (ma per la verità anche i corridoi inquietanti) gronda sangue ed è popolata da spettri. Questi sono autentiche star della pellicola e, nel citato senso onirico, il film di Kubrick è straordinario, soprattutto per le scene con il barista Lloyd (Joe Turkel) e quella del bagno rosso con il cameriere/vecchio custode (Philip Stone). Nelle viscere dell’hotel/inconscio pulsa vivo calore, anche se poi la caldaia, nel film, è una traccia lasciata cadere nel vuoto insieme a tante altre. Ma la contrapposizione con il freddo del labirinto innevato rimane evidente: gli ambienti presentano palesi similitudini, i corridoi in cui scorrazza Danny col triciclo somigliano a quelli di un dedalo e Wendy, quando visita l’enorme cucina, cita lo stratagemma delle briciole di pane per ritrovare la strada, che è uno dei modi per trovare la via di uscita proprio nei labirinti. Gli aspetti simili sono usati nel paragone tra la casa labirintica e il labirinto esterno per esaltarne le differenze e quello del labirinto, che è in qualche modo un gioco di memoria e quindi celebrale, sembra rappresentare la ragion pura come possibilità di salvezza, a patto di mantenere lucidità (lo stratagemma delle impronte ideato da Danny) e sangue freddo. 

I nostri demoni, possono essere affrontati e superati dalla freddezza della ragione e venire quindi, se non proprio annientati, perlomeno congelati, proprio come Jack Torrance nel finale. Questa, più che lo
shining, la luccicanza, la chiaroveggenza, è la nostra unica arma di salvezza. E’ vero che Hallorann interviene grazie a questa facoltà che condivide con Danny, ma in una delle scene più efficaci del film è presto fatto fuori da Torrance. Certo, il suo ritorno sulla scena rimane provvidenziale, visto che è il suo gatto delle nevi che permette a Danny e la madre di salvarsi, ma grazie al loro assai prosaico e per nulla paranormale sangue freddo. E’ un grande film, quindi, Shining? Si, e non solo visivamente. E dietro il trauma delle immagini, ci fa addirittura coraggio: i nostri demoni si possono tenere a bada e per farlo non serve alcuno shining.  






  Shelley Duvall