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martedì 11 novembre 2025
IL PONTE DEI SENZA PAURA
sabato 8 novembre 2025
LA PIU' GRANDE AVVENTURA
1757_LA PIU' GRANDE AVVENTURA (Drums along the Mohawk), Stati Uniti 1939. Regia di John Ford
Per una
volta, il titolo originale, Drums along the Mohawk [traduzione
letterale, Tamburi lungo il Mohawk] non è poi molto più inerente della
versione italiana La più grande avventura. Certo, quello utilizzato nel
Belpaese è un titolo molto generico, mentre quello scelto ad Hollywood è assai
più specifico. Ma l’essere così calzante alla storia raccontata nel film
potrebbe finire, per assurdo, per essere fuorviante; si potrebbe pensare,
infatti, che Drums along the Mohawk abbia come obiettivo proprio gli
scontri nella vallata del Mohawk River, ai tempi della Guerra d’Indipendenza
Americana. Che è quello che poi si vede nel film, intendiamoci, ma La più
grande avventura è, in concreto, il manifesto del Sogno Americano al punto
che un titolo come The American Dream sarebbe stato probabilmente più
azzeccato. Si tratta di una provocazione, naturalmente, perché è del tutto superfluo
fare ipotesi su scelte diverse da quelle fatte dagli autori che, di fatto, non sussistono.
Tuttavia stupisce la centralità del Sogno Americano nel film e il totale
convincimento di Ford in questo ideale quando, in seguito, il regista
statunitense si dimostrerà assai più critico con quella che fu, in buona
sostanza, una sorta di propaganda ideologica. Ma, evidentemente, nel 1939,
durante la realizzazione de La più grande avventura, Ford aveva ancora
cieca fiducia che quello che si andava costituendo fosse davvero un grande
Paese, che fosse davvero la terra delle libere opportunità come si autoproclamava:
l’ideale stava prendendo forma concreta.
Ma torniamo al film e andiamo con ordine. I titoli di testa ci presentano il
lungometraggio su tovagliette ricamate a punto a croce, con i caratteri delle
parole molto curati nei dettagli e le immagini delle casette coloniche in mezzo
ai pini tutt’intorno al fiume. Il che è curioso, essendo La più grande
avventura comunque un western, per quanto atipico essendo ambientato in un
periodo storico e in un’ambientazione leggermente diversi rispetto ai canoni del
genere. Ma si trattava comunque di una storia della Frontiera, con i bianchi a
conquistare terre alla natura, per renderle coltivabili e produttive, e gli
Indiani a difendere il proprio habitat selvaggio: le basilari coordinate del
genere western.
Ne La più grande avventura la guerra, immancabile risultato di ogni confronto in caso di interessi divergenti tra collettività umane, era tra i coloni americani e la corona britannica, ma il contributo degli indiani, che fu certamente rilevante in ambito storico, è enfatizzato e utilizzato in modo strumentale da Ford. Ne La più grande avventura, il ruolo degli Irochesi leali alla corona, abilmente manovrati da Caldwell (John Carradine), rappresenta ben più che gli interessi dell’Inghilterra. Gli Indiani ostili all’avanzata dei coloni americani incarnano l’asprezza e la durezza di una Terra tanto promessa quando difficile da raggiungere, ma anche l’estrema difesa della Natura all’incombere della Civiltà. Lo scontro tra questi due modi antitetici di concepire il mondo, inteso come luogo in cui si vivesse, era inevitabilmente cruento; e la guerra, il risultato altrettanto inevitabile, era un tema che affascinava maggiormente il pubblico maschile che con ricami all’uncinetto avevano poco a che fare. Questa influenza femminile, se si può definire così, permane anche nell’incipit del film che comincia con il matrimonio tra Lana e Gil Martin: oltretutto nei manifesti dell’epoca il nome di Claudette Colbert, l’attrice che interpreta Lana, è riportato prima di quello di Henry Fonda, il protagonista maschile. Questa impostazione di partenza, porta con sé due significati distinti. Il primo è che la donna è, secondo Ford, la figura centrale della famiglia che è la prima cellula della collettività; pertanto, una società nascente non può che mettere al centro del progetto una figura femminile. A cui fanno riferimento tutti i dettagli «domestici», le tovagliette ricamate, i mobili, le porcellane, i vestiti con pizzi e merletti, che ritornano a più riprese soprattutto nella prima parte del film. Perché nella seconda è progressivamente, o meglio a strappi devastanti, intervenuto l’altro significato che tutta questa chincaglieria ha nell’economia del discorso di Ford sulla nascita della nazione. Sotto i pesanti attacchi dei lealisti e dei loro ferocissimi alleati indiani Irochesi, i coniugi Martin, Lana e Gil, perdono tutto, e come loro anche gli altri coloni del film. Qui veniamo quindi al secondo significato: gli Stati Uniti, per poter nascere, per poter dar corpo al Sogno Americano, si devono spogliare dell’eredità di stampo europeo e non ci si riferisce solo ai beni materiali. Lana, una fanciulla di famiglia facoltosa dell’est, deve essere disposta a fare la donna di servizio presso la fattoria della signora McKlennar (Edna May Oliver), vecchia e arzilla vedova di rango sociale decisamente più modesto ma, in quel frangente, in condizioni economiche certamente migliori. La fattoria dei Martin, infatti, costruita con indicibili fatiche, soprattutto per una giovane ragazza abituata alla vita confortevole nella residenza paterna dell’Est, è finita in fumo grazie ad uno dei raid degli Irochesi. Il fuoco, alimentato a più riprese dagli indiani, rappresenta simbolicamente la prova da superare per i coloni, per i nuovi americani. Gli Irochesi, che lo usano in modo distruttivo, sono anch’essi da annoverare tra le difficoltà che i coloni devono superare e Ford utilizza il contesto storico, in cui alcune di queste tribù rimasero fedeli all’alleanza con gli Inglesi, contro cui gli indipendentisti americani insorsero, per dare forza al suo racconto.
Ma non c’è, ne La più grande avventura, una deriva razzista o discriminatoria nei confronti dei nativi americani. Innanzitutto va detto che effettivamente gli Irochesi, e in particolare i Mohawk che prevedibilmente vediamo all’opera –essendo il film ambientato nella valle del fiume che deve a loro il nome– erano effettivamente particolarmente bellicosi e feroci sul campo di battaglia. Chiedere agli Uroni o agli Algonchini per conferma. Inoltre, uno dei personaggi più interessanti della pellicola è Falco Blu (o Blue Back, interpretato da Chief John Big Tree) che è un indiano ma, al contempo, un buon cristiano, per usare le sue parole. Il finale celebra la nascita degli Stati Uniti sotto la bandiera a stelle e strisce e, significativamente, prima della coppia di protagonisti Lana e Gil, Ford inquadra l’indiano Falco Blu e la domestica di colore Daisy (Beulah Hall Jones), come a sottolineare la multietnicità del Paese. Considerato l’importanza della posta in palio, il regista sfodera la sua proverbiale capacità di dosare gli ingredienti: ci sono i passaggi drammatici e quelli sentimentali, gli intermezzi umoristici e non mancano, ovviamente in Ford, i momenti musicali della tradizione folcloristica. Tra le scene di maggior rigore simbolico c’è quella della morte del generale Herkimer (Roger Imhof), a cui succede, per contrapposizione, la nascita del figlio di Lana e Gil. Un’altra sequenza emblematicamente fordiana è quella in cui la signora McKlennar resiste sul suo letto all’incursione di due feroci indiani. La donna, addirittura, ordina ai due belluini guerrieri di portala fuori, mentre se ne sta imperterrita seduta sul letto, perché non vuole che questo bruci nel rogo appena appiccato dagli indiani. È, evidentemente, una scena ironica, che alleggerisce la drammaticità della situazione oltre a rimarcare la superiorità morale della vecchia colona rispetto ai selvaggi; ma è anche una situazione al limite del grottesco e solo la sublime capacità narrativa di Ford riesce a mantenerla nei canoni di un plausibile passaggio tragico virato da un’assurda comicità. Un’alchimia mirabile e il regista americano amava utilizzare «ingredienti» che conosceva bene. Non a caso il cast pullula di attori che erano o diverranno negli anni habitué del cinema di Ford: da Fonda a Carradine, a Ward Bond (è Adam Hartman), a Francis Ford, fratello del regista (è Joe Bolero), fino a Russell Simpson (è il dottor Petry). A molti di loro sono deputati questi momenti ibridi, tra dramma e commedia, ad esempio l’Adam di Ward Bond audace e coraggioso tanto nel flirtare con la signora McKlennar quanto in battaglia, oppure il reverendo Rosenkrantz (Arthur Shields), che interrompe la predica durante la funzione per fare la pubblicità all’emporio della zona. Sembra un uomo venale, il prete, ma dimostrerà la sua tempra morale quando si troverà costretto a sparare a sangue freddo a Joe Bolero, prima che gli indiani mandino lo scout arrosto ancora vivo e vegeto.
In una gestione universale, come quella del cineasta americano, non tutti gli interpreti avevano compiti sfaccettati, ad esempio, ad occuparsi delle gag comiche troviamo Eddie Collins (Christian Reall) che, pur non avendo forse lo status di attore tipico di Ford, aveva comunque già recitato in precedenza in un paio dei suoi film, tra cui Alba di Gloria [Young Mr. Lincoln, 1939]. E, eventualmente per dare equilibrio al bilancio complessivo, anche il Caldwell da John Carradine è un personaggio a tutto tondo, nel suo caso un vero e proprio villain. Il cattivo della storia è ispirato alla figura storica di William Caldwell, un lealista alla corona britannica che combatté nelle file dei Rangers di Butler, di cui anche il personaggio del film indossa la divisa verde. Interessante il modo ironico e intelligente con cui Ford ci informa di come sia passato a miglior vita durante la battaglia, ovvero con l’ennesimo innesto tra il registro drammatico e quello comico. Il passaggio è una vera e propria gag comica, infatti è presentata da Reall, ed è risolta con un’entrata in scena beffarda di Falco Blu, che sfoggia la benda sull’occhio appartenuta a Caldwell. Questi, storicamente, aveva sì combattuto nelle guerre di Frontiera nella valle del Mohawk River, ma non in quella di Oriskany che è uno dei momenti migliori dell’intero film. Ford decise per la verità di non girare le scene di questo scontro e si affida alla sua capacità registica e all’intensità recitativa di Fonda, che interpreta Gil reduce dalla battaglia gravemente ferito. In un primo momento l’uomo sembra quasi dato per morto ma Lana non si arrende e non smette di cercarlo, trovandolo poi accasciato lungo la via del ritorno, sotto un nubifragio notturno. Una volta al riparo, Gil è in grado di raccontare le sorti della battaglia, mentre, poco più in là, al generale Herkimer devono tagliare la gamba ferita e ormai irrecuperabile. Come accennato, il generale non sopravviverà, causa un’emorragia non arrestata; nella realtà storica la morte all’ufficiale fu cagionata da un’infezione e avverrà solo una decina di giorni dopo. Del resto Gil racconta anche di aver vinto la battaglia di Oriskany, per quanto le condizioni delle truppe indipendentiste tornate al forte lascino qualche dubbio, quando storicamente lo scontro è registrato come successo britannico. Ma queste imprecisioni storiche di Ford, ivi compreso la descrizione dei nativi americani, non sono frutto di sciatteria o trascuratezza quanto la necessità di piegare la Storia alle necessità dell’Epica. In seguito, questo sarà comunque vero, perché Ford sentiva il dovere di raccontare la nascita del proprio Paese, tuttavia si farà progressivamente strada un certo rammarico per ciò che, nella conquista del west, era andato perduto. Al contrario, come accennato, ne La più grande avventura c’è ancora completa fiducia nel futuro dell’America. Il film uscì nel novembre del 1939, la Seconda Guerra Mondiale era appena iniziata, gli Stati Uniti non si erano ancora iscritti al conflitto e, di conseguenza, non lo avevano ancora vinto. La vittoria e la conclamazione di leader assoluto del mondo occidentale, era quindi ancora di là da venire: sarebbe stata la consacrazione, a livello geopolitico, del Sogno Americano sbandierato ne La più grande avventura. Ma era solo questione di tempo. Se, dopo oltre un secolo e mezzo, era possibile stilizzare per motivi epici la Questione Indiana, con i morti di Hiroshima, Nagasaki e tutti gli altri tragici teatri di guerra negli occhi, sarebbe stata un’impresa che, con l’andar del tempo, si sarebbe rivelata insostenibile anche per il più patriota dei registi.
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mercoledì 5 novembre 2025
AN ACCIDENTAL SOLDIER
1756_AN ACCIDENTAL SOLDIER , Australia 2013. Regia di Rachel Ward
Chiariamo subito una cosa: Marie Bunel, protagonista femminile di An accidental soldier, film televisivo australiano di Rachel Ward, è una gran bella donna. Poi, certo, all’epoca del film aveva 52 anni e non era quindi una giovane rampolla ma il passaggio cruciale del film, quello a cui si gira attorno sin da subito, è legato all’idea che Colombe (la Bunel, appunto) sia una donna indurita e quindi imbruttita dalla vita. Va dato atto alle capacità espressive dell’attrice francese di essere anche convincente e certo il suo personaggio non appare seducente come una femme fatale; che poi siano in Francia, durante la Prima Guerra Mondiale, gli uomini sono al fronte o chissà dove e le donne sono costrette a lavorare nella fabbrica di armamenti per tirare avanti. Non è quindi un posto ideale per seduzioni o storie d’amore… o forse si? A casa di Colombe, ad un certo punto, piomba infatti Harry (Dan Spielman) soldato australiano che è fuggito dalla prima linea. Un disertore, insomma. Harry faceva il panettiere e non aveva alcuna intenzione di arruolarsi ma il disprezzo dei suoi compaesani alla fine l’aveva convinto; tuttavia, se fare il pane sotto l’esercito non era poi diverso che nella vita da civile, quando arriva il momento di andare in prima linea l’uomo decide di scappare. E’ quindi un vile, Harry, un codardo; perlomeno è così che vengono definiti i disertori. Una donna brutta (o presunta tale) e un vigliacco: questo è quello che abbiamo per le mani nella nostra storia. Se il mondo abitualmente gira storto per una donna di aspetto non piacevole, nella nostra società, figuriamoci durante una catastrofe come la Grande Guerra, dove avere qualche privilegio è fondamentale per sopravvivere o magari sopravvivere anche bene. D’altro canto per un uomo vile il tempo di guerra è la cosa peggiore che possa capitare. E, a complicare le cose, c’è anche il fatto che i due non si capiscano, parlando ovviamente lingue diverse. Ma proprio il linguaggio, uno strumento nato per comunicare e quindi condividere, unire, e divenuto poi all’opposto troppo spesso barriera insormontabile, è il grimaldello che permette ai due di fare il primo passo in avanti. Sforzarsi per capire l’altro e poi ancora, sforzarsi per farsi comprendere. Una volta che la donna e l’uomo aprono un pertugio nel muro di diffidenza, indifferenza, timore, paura, entrambi scoprono quello di cui avevano bisogno. Una metafora interessante in un film di guerra ma, ovviamente, l’obiettivo particolare della storia è più circoscritto. E, tornando a quello di cui i nostri protagonisti hanno bisogno (come tutti, del resto), questa cosa è, ovviamente l’amore. Ma il racconto è persino ancora più specifico, nella sua metafora: lui trova in Colombe il coraggio di una donna che rischia tutto pur di proteggerlo, di tenerselo nascosto in casa quando la gendarmerie militare è in cerca dei disertori. E lei, nelle attenzioni e nelle premure, ingenue nel senso puro del termine, di quell’uomo mite venuto da lontano, si scopre finalmente bella.
lunedì 3 novembre 2025
MISS MARPLE - GIOCHI DI PRESTIGIO
1755_MISS MARPLE - GIOCHI DI PRESTIGIO (They do it with Mirrors), Stati Uniti, Regno Unito 2010. Regia di Andy Wilson
sabato 1 novembre 2025
LA SCELTA DI MARIA
1754_LA SCELTA DI MARIA , Italia 2021. Regia di Francesco Miccichè
Con perfetto tempismo la Rai il 4 novembre 2021 onora
il centenario della tumulazione del Milite Ignoto trasmettendo sul primo canale
la docufiction La scelta di Maria. Il tema è ancora oggi delicato,
essendo una celebrazione che rispolvera concetti patriottici che in Italia non
sempre vengono ben interpretati; tra l’altro si scopre, proprio vedendo il
film, che era una situazione già presente in quel 1921 in cui sono ambientati i
fatti. Il film, nel complesso, è un po’ deludente, in quanto non ha elementi sufficienti
per sostenere la portata dell’operazione da un punto di vista emotivo. Ci si
affida alla professionalità degli attori, e qui si registrano le buone prove di
Sonia Bergamasco (Maria Bergamas, la madre degli italiani, colei che scelse la
salma del Milite Ignoto) e di Cesare Bocci (Luigi Gasparotto) mentre vacilla un
po’ Alessio Vassallo, che aveva forse il compito più difficile. Il suo tenente
Augusto Tognasso è costantemente al centro della scena (è infatti l’incaricato
di prelevare le salme tra i caduti che non sia stato possibile riconoscere, tra
le quali dovrà operare la sua scelta Maria), ma non ha un ruolo così
cinematografico da giustificare lo stato di emozione che, in ogni caso,
l’interprete fatica a trasmettere. Se la fiction non decolla, insomma, non
resta che osservare con ossequio le severe immagini documentaristiche che ci
riportano, quelle sì, indietro di cent’anni. Sorvoliamo sui pessimi disegni che
danno corpo ai sogni e ai ricordi di Tognasso, davvero scadenti. Nobile
intento; archiviamola così.
venerdì 31 ottobre 2025
FUMO NERO ALL'ORIZZONTE
1753_FUMO NERO ALL'ORIZZONE , Italia 2008. Regia di C. Sambuchi, L. Ricciardi, M. Visalberghi
Ad oltre 80 anni dal primo e unico tributo filmato – Gli
eroi del mare nostro, 1927, regia di Edoardo Bencivenga – la mitica Impresa
di Premuda del 1918 torna finalmente sugli schermi. In questo caso
televisivi, ma non è certo il caso di fare gli schizzinosi. Il nostro cinema di
genere ha, per decenni, colpevolmente ignorato i tanti spunti storici e le
figure eroiche del nostro paese, finendo per essere completamente colonizzato
dalle produzioni perlopiù angloamericane. Eventi come l’Impresa di Premuda,
nonostante si trattasse di un’azione bellica compiuta nella Grande Guerra, erano
probabilmente ritenuti in grado di evocare nostalgie per il Ventennio fascista
che, al contrario, andava cancellato dalla memoria collettiva. In effetti, per
anni, concetti come “eroismo” e “amor di Patria”, furono praticamente banditi
dall’opinione comune, ritornando in parte, se non di moda, comunque presenti
nel linguaggio comune, solo in tempi relativamente recenti. Fumo nero
all’orizzonte è una tipica docu-fiction che assembla immagini di
repertorio, ricostruzioni filmate e interviste ai famigliari dei protagonisti,
riuscendo a fornire un quadro completo degli avvenimenti. In questo caso, il
piatto forte dell’opera è costituito dalle scene dell’affondamento della
corazzata Santo Stefano, ripresa dagli stessi austriaci da un’altra nave da
guerra, la Tegetthoff: l’ammiraglio Miklòs Horthy aveva previsto una vittoria
per l’Impero Austro-Ungarico e si era premunito di immortalarla con tutti gli
onori. La missione della Imperial-Regia Marina da Guerra Austro-Ungarica era
quello di forzare il blocco degli Alleati sul canale di Otranto e decidere
le sorti della guerra nel Mediterraneo. Un cambio di passo nel conflitto che
meritava una registrazione cinematografica e così gli operatori e le macchine
da presa vennero imbarcati sulla Tegetthoff: quello che poi filmeranno sarà uno
dei più spettacolari affondamenti di una nave da guerra della Storia, ma,
contrariamente alle previsioni, subito dalla loro stessa flotta. Il
responsabile di tutto ciò fu Luigi Rizzo, in procinto di rientrare in Italia
dopo una missione con i MAS nel Mar Adriatico, vide quel fumo nero
all’orizzonte utilizzato poi come titolo per questo docu-drama. Il fumo era
quello delle corazzate austriache e Rizzo, anziché darsela a gambe, si gettò a
capofitto contro la flotta nemica: del resto il suo MAS – Motoscafo Armato
Silurante – doveva accorciare la distanza se voleva avere qualche chance di danneggiare
un colosso d’acciaio come la Santo Stefano. L’audacia di Rizzo colse
probabilmente di sorpresa gli austriaci che non fecero in tempo a reagire in
alcun modo: il motoscafo italiano si avvicinò alla nave da guerra austriaca,
lanciò i suoi missili e si allontanò a tutta birra, inseguito vanamente da una
delle navi d’appoggio nemiche. Dalle interviste della figlia Guglielmina, dei
nipoti Francesco e Giorgio, possiamo scoprire particolari inediti della vita di
Luigi Rizzo ma anche alcune nozioni tecniche fondamentali per chiare alcuni
dettagli della vicenda. Francesco è Capitano di Vascello e Giorgio Ingegnere
Navale e parlano quindi con cognizione di causa. Più intimo l’approccio di
Valerie Herrenstein, figlia di Franz Dueller, uno dei marinai sopravvissuti
della Santo Stefano. La donna, ormai anziana, scopre che il padre si comportò
da vero eroe, durante le fasi dell’affondamento, meritandosi la decorazione al
valor militare che gli venne in seguito conferita. Quest’attenzione alla
controparte, con una celebrazione dell’eroe italiano, Rizzo, bilanciata dalla
rievocazione del valore di Dueller, evita che il film possa in qualche modo
essere strumentalizzato a fini pseudo-propagandistici. Ben fatto.
mercoledì 29 ottobre 2025
REGENERATION aka BEHIND THE LINES
1752_REGENERATION aka BEHIND THE LINES , Regno Unito, Canada 1997. Regia di Gillies MacKinnon
Tratto dal romanzo omonimo di Pat Barker, Regeneration di Gillies MacKinnon è un film ambientato nell’ospedale di guerra di Craiglockhart, a Edimburgo, in Scozia, quando in Europa infiammava ancora la Prima Guerra Mondiale. Tra i protagonisti della vicenda spicca la figura di Sigfried Sassoon (James Wilby), personaggio storico (come altri nel film) piuttosto controverso. Comandante di compagnia benvoluto dai suoi uomini, fu decorato per il valore dimostrato in battaglia; un valore che spesso sconfinava nella sfrenata audacia tanto da meritagli il soprannome di Mad Jack (Jack il pazzo). Pur cavandosela bene anche con la penna, ottenne la notorietà in questo campo non tanto con le sue poesie quanto con la spiazzante Dichiarazione di un soldato. Lui, un decorato di guerra, dopo aver gettato la sua croce al valor militare nel fiume Mersey, scriveva alla stampa e al Parlamento di Londra un proclama contro quella che definiva una guerra che, da guerra in difesa della libertà, si era rivelata però essere una guerra di aggressione e sopraffazione. Gli inglesi, già alle prese coi loro problemi nel merito, non si potevano certo permettere una diserzione di tale portata, da parte di un eroe decorato, e quindi dichiarano Sasson inabile alla leva e lo mandano in cura affinché si ravveda. Certo, Sassoon non vuole fare il disfattista e quindi, al capitano Rivers (Jonathan Pryce), il medico che se ne occupa, dichiara che non è contrario a tutte le guerre ma solo a quelle dove gli interessi politico economici la facciano da padrone. Da parte sua Rivers è un soldato e un medico onesto; altri dottori dell’esercito arrivano praticamente a torturare i militari che professano un qualche problema psicologico, allo scopo di farli guarire o desistere (a seconda dei casi e delle opinioni) dal mantenere tali disturbi. Tuttavia la coscienza di Rivers sarà messa a dura prova, tra la cura di Sassoon e quella degli altri pazienti: eppure, nonostante le prime incertezze che si palesano nel suo medico curante, alla fine, Sassoon si convince a guarire e decide di tornare a combattere. Una scelta, a suo modo, di comodo, perché in realtà c’era poco da ravvedersi: Mad Jack aveva semplicemente aperto gli occhi. La propaganda bellica aveva (e clamorosamente continua ancora oggi) raccontato della Prima Guerra Mondiale come un conflitto tra chi difendeva la libertà e chi propugnava il militarismo; tale propaganda fu particolarmente efficace, vuoi perché la miglior qualità anglosassone è esattamente quella di diffondere convintamente il proprio credo, ma anche perché, perlomeno per quel che riguardava la raffigurazione del nemico, era una propaganda che forse era assecondata anche dagli stessi tedeschi. Molti, tra i sudditi dell’imperatore Guglielmo II, probabilmente, si riconoscevano nella definizione marziale, austera e severa con cui venivano descritti al di qua del fronte occidentale: certo, c’era del disprezzo ma anche tanta paura.
E niente di più facile che fosse proprio quest’ultima deriva a solleticare la vanità teutonica di un popolo che in parte si crogiolava nella propria natura forte e dominante. In realtà, molto più prosaicamente, quello del 1914-18 era un conflitto che verteva sulla disputa di interessi economici in ambito internazionale in un panorama che andava già da tempo globalizzandosi. Ma, fosse anche stata vera la storia della difesa della libertà, questa si stava fondando su una radice fortemente contradditoria. Un equivoco (in malafede) che ancora oggi di tanto in tanto riporta alla luce l’ipocrisia insita nella sbandierata libertà di cui ci vantiamo di vivere nel mondo occidentale: a tanti, troppi soldati che furono mandati a combattere in prima linea per costruire il cosiddetto mondo libero del XX secolo (e oltre) non fu concessa alcuna libertà se non quella di andare a farsi deliberatamente massacrare contro le mitragliatrici nemiche in sterili azioni prive di senso. Una presunzione di libertà che si fonda su una privazione della più elementare delle libertà, quella della sopravvivenza, di chi ne pagò lo scotto. Oggi, in condizioni normali, il problema non si pone: ma provate a pensare quanti di noi, cittadini del mondo libero occidentale, sarebbero disposti ad andare incontro a danni personali, o addirittura alla morte, se la libertà collettiva fosse minacciata da una guerra, da un’epidemia, da un’invasione aliena o da quello che volete voi? Quanti, metterebbero a repentaglio la propria salute, la propria vita, se non obbligati? E allora ecco che la nostra libertà rivela il suo lato oscuro: si fonda su una privazione di libertà. Storicamente, nelle vite dei soldati mandati deliberatamente incontro a morte certa (non solo nelle estenuanti battaglie della Prima Guerra Mondiale ma, per fare un altro esempio secco e lampante, si possono prendere i primi che sbarcarono in Normandia nella seconda). E, Storia a parte, nella nostra quotidianità questo torna ad accadere appena capita una situazione simile a quelle citate. Giusto appena, eh.
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