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martedì 19 marzo 2024

ANZACS ep. 3: THE DEVIL'S ARITHMETIC

1454_ANZACS Ep. 3 THE DEVIL'S ARTHMETIC . Australia, 1985; Regia di Pino Amenta, John Dixon e George Miller.

Le varie piste narrative che sorreggono la serie Anzacs proseguo di concerto anche in questo episodio dove, per altro, la traccia bellica diviene davvero ingombrante. Del resto, siamo in una delle fasi cruciali della Grande Guerra sul Fronte Occidentale: nel racconto si comincia con l’offensiva alleata per rompere la Linea Hindeburg in quella che è ricordata come la Battaglia di Arras, tra aprile e maggio 1917. Dopo una breve licenza in quel di Blighty –termine gergale con cui veniva definita l’Inghilterra – gli Aussie dell’Australian and New Zealand Army Corps, ritornano in prima linea per prendere parte attivamente alla Battaglia di Passchendaele nell’estate del 1917, che vide gli Alleati, fino alla Battaglia di Broodseinde Ridge, nel novembre di quello stesso anno, ottenere significativi successi, almeno nell’ambito dello stallo perdurante sul Fronte Occidentale. La tattica del “bite and hold” (mordi e tieni), limitava gli obiettivi delle offensive ai soli risultati che si era in grado di mantenere in seguito, e si presentava come una strategia meno dispendiosa in termine di vite umane gettate al macello. In realtà, il tributo di sangue fu enorme e The Devil’s Arithmetic, il terzo episodio della serie Anzacs lo illustra chiaramente: tra i personaggi del film, il sergente McArthur (Patrick Ward) muore e il protagonista principale, il neo tenente Martin Barrington (Andrew Clarke), rimane ferito gravemente. Buon per lui che, ad assisterlo, ci penserà la bella infermiera Kate Baker (Megan Williams, sempre incantevole), che, grazie alle amorevoli cure, riesce a salvargli la vita. E’ un momento altamente drammatico ma romantico, uno dei pochi diversivi dal campo di battaglia. Le altre piste narrative –quella in Australia, dove si dibatte sulla Coscrizione, e quella nel Comando in Inghilterra, dove si discutono le strategie di guerra– assumono meno rilevanza, così come la sponda umoristica del racconto, gestita anche stavolta dal soldato Pat Cleary (Paul Hogan). Lo scontro bellico, in questo momento della Grande Guerra, è particolarmente cruento e, oltre ai citati dazi in termini di sangue, pretende altri tributi: il capitano Armstrong (Tony Bonner) non regge più la tensione ed è sostituito dal borioso dal capitano Young (Edmund Pegge) che, peraltro, si squaglia subito nella bagarre di Broodseinde Ridge, rivelandosi un codardo. Un percorso solo parzialmente simile a quello del tenente Earnshaw (David Lynch) che, nel finale, viene accecato da una granata proprio quando sembrava essersi finalmente integrato con la truppa. Tra i tanti passaggi emotivi del racconto, si possono ricordare la vicenda di Pudden (Alec Wilson), aggregandosi temporaneamente ad un gruppo di disertori organizzati come un vero reparto militare, e l’incontro tra il caporale Kaiser Schmid (Shane Briant) ed un soldato tedesco in punto di morte che gli consegna una lettera destinata alla moglie. Pur con i limiti di budget di un prodotto televisivo australiano, che deve ambientare un racconto dall’altra parte del pianeta, anche questo terzo episodio mette a referto un buon risultato. Ma il titolo, The Devil’s Arithmetic, cosa mai vorrà dire? Pare che sia la strategia di qualcuno che manda a morire un altro al posto suo, al fine di allungarsi la vita. In Inghilterra saranno fischiate molte orecchie.    



domenica 17 marzo 2024

YPRES

1453_YPRES . Regno Unito, 1925; Regia di Walter Summers.

Curiosa operazione, almeno da un punto di vista tecnico, Ypres di Walter Summers fu un originale tentativo di raccontare la guerra in un modo che apparisse oggettivo utilizzando il mezzo cinematografico. Certo, il cinema era nato con questi crismi, si pensi ai fratelli Lumière, ma presto la narrativa di finzione aveva preso maggior campo sebbene negli anni venti del XX secolo cominciò a farsi strada un utilizzo del genere documentaristico più consapevole e, in un certo senso, strumentale. Forse Ypres potrebbe rientrare in questi esempi: infatti, è proprio la sua stessa messa in scena, la prospettiva dello sguardo, che ne rivelava la faziosità, la partigianeria, anche comprensibile vista l’epoca di realizzazione. In questo senso il film di Summers amplifica un concetto presente nel genere cinematografico dei veri documentari: il documentario cinematografico sembra una realizzazione oggettiva della realtà, ma non lo è mai. Le scelte autoriali (montaggio, inquadratura, sonoro, eccetera) sono comunque sempre presenti e sono sempre soggettive riferite al regista. Ecco, allo stesso modo ma ancora in maniera più estrema, se come riferimento pensiamo di prendere la realtà, Ypres sembra un documentario, ma non lo è. In sostanza: se il documentario sembra raccontare la realtà ma non è e non può mai essere la cruda cronaca, Ypres prova a spacciarsi per documentario ma non raggiunge neanche quei requisiti necessari. Anche se ci sono scene degli scontri prese dal vero, anche se alcuni protagonisti sono proprio ex combattenti delle varie battaglie di Ypres: questi stratagemmi produttivi indicano unicamente la volontà di spacciare il film come un reale resoconto dei fatti. Ad un certo punto è mostrato un presunto giornale tedesco originale scritto con elaborati caratteri gotici e poi si vede la versione tradotta in inglese realizzata in modo assai più spartano. L’impressione che ne deriva è di puro realismo, sebbene non sembra troppo credibile che la produzione non potesse permettersi di mostrare una pagina tradotta realizzata come l’originale tedesca. Piuttosto la cosa ha il sapore di una pianificata strategia per rendere il tutto più credibile. In quest’ottica si inseriscono le mappe esplicative che mostrano l’evolversi della situazione nei pressi di Ypres, laddove gli alleati resistettero alle offensive tedesche bloccandone l’approdo sulla Manica che, fosse caduto in mano nemica, avrebbe reso assai problematico l’approvvigionamento dall’Inghilterra di viveri, armi, munizioni, oltre che di uomini. Le cartine chiariscono gli avvenimenti e supportano la credibilità storica. 

Anche la scelta della mancanza di una storia privata che si stagli sullo sfondo degli avvenimenti storici, sembra presa nell’ottica di prendere le distanze dalla finzione per rafforzare quella di testo attendibile. Sempre su questa linea strategica si inseriscono le altre scelte produttive: manca completamente un cast come si intende oggi e non c’è nemmeno uno sviluppo narrativo che non sia lo scorrere degli eventi bellici nell’area del Saliente di Ypres nel corso della Grande Guerra. Va ricordato che Ypres è del 1925 e, quindi, è ancora un film muto: questo poneva problemi dal punto di vista della fruizione. Siamo infatti di fronte ad una sorta di documentario di quasi due ore, come detto senza sonoro ma accompagnato eventualmente dal pianoforte, intercalato dalle didascalie su cui gravava già il difficile compito di riassumere i dati salienti nei raccordi storici tra i vari filmati. Per alleviare un po’ la visione c’è più di un passaggio leggero, dalla comica slapstick del soldato che scivola nel fango di una trincea sotto il fuoco di un cecchino, ai giochi di parole utilizzando le didascalie e le incomprensioni tra le lingue differenti delle parti in lotta. All’ironica e retorica domanda di un soldato britannico se ci fosse qualcuno nella ridotta tedesca, i soldati di Guglielmo II rispondono spaventati “Nein! Nein!”, confermando, tra l’altro, l’impressione che il film non li dipinga certo come campioni dell’evoluzione umana. 

Ben più raffinata è la descrizione riservata ai sudditi di sua maestà che, equivocando di proposito sul suono della parola tedesca ‘nein’, fingono di intendere ‘nine’, (ovvero nove, in inglese), e decidono quindi di buttare la bomba a mano. In un certo senso della stessa matrice è lo sdegno mostrato dal comando militare e dalla stampa tedeschi per le incursioni notturne delle Black Troops, gli assaltatori mascherati di nero che terrorizzavano le trincee nemiche. La critica tedesca a questi attacchi è vista come il frignare di un bambino monello che, all’imbrunire, si scopre aver paura del buio. Probabilmente nel computo generale il film è troppo sbilanciato, con l’attenzione alle decorazioni dei valorosi britannici (insigniti della Victoria Cross), l’elogio di ringraziamento alle truppe del Commonwealth, (canadesi e company) mentre nessun titolo di merito viene tributato al nemico. Come detto il docu-fiction era già un genere codificato (Robert J. Flaherty) e, nel complesso, il fatto di essere fazioso non disturba più di tanto, in Ypres, in quanto i tempi legittimavano quel tipo di sguardo sugli eventi. Poi, per carità, La Grande Parata uscì in quello stesso 1925 ma King Vidor come autore era un gigante e nel cinema c’è posto anche per visioni più limitate. Come quella di cui Ypres è intriso. 

venerdì 15 marzo 2024

QUANDO TUONA IL CANNONE: Capitolo 18_L'INFERNO DEI VIVI

Quando la città dorme presenta:

QUANDO TUONA IL CANNONE

IL KOLOSSAL DOSSIER

Capitolo 18

L'INFERNO DEI VIVI

Sul Fronte Occidentale, la guerra continua. 

Ypres, Messines, Passchendaele. 

Capitolo 18:

1 YPRES (1925) di Walter Summers

2 ANZACS ep. 3 THE DEVIL ARITHMETIC di Dixon, Miller, Amenta

3 LA GRANDE PARATA (1925) di King Vidor

4 THE WAR BELOW (2021) di j.p. Watts

5 LE COLLINE DELLA MORTE (2010) di Jeremy Sims

6 1917 (2019) di Sam Mendes

7 FRAULEN DOKTOR (1969) di Alberto Lattuada

8 GUERRA SPORCA (2008) di Paul Gross

9 HEDD WYNN (1992) di Paul Turner

10 COMPANY K (2004) di Robert Clem


mercoledì 13 marzo 2024

L'ULTIMA MINACCIA

1452_L'ULTIMA MINACCIA (Deadline U.S.A.). Stati Uniti, 1952; Regia di Richard Brooks.

È la stampa, bellezza, e tu non ci puoi fare niente, niente!”. Questa celeberrima battuta, detta in chiusura de L’ultima minaccia da Humphrey Bogart, condensa perfettamente lo spirito del film di Richard Brooks. Per decenni, o forse per secoli, la libertà di stampa è stato l’ultimo appiglio a cui si poteva ancorare l’umanità, nella sua ricerca di giustizia e verità. Negli anni Cinquanta, L’ultima minaccia è del 1952, si raggiunse forse l’apice di questa illusione, in corrispondenza con il momento di maggior fiducia nel Sogno Americano, che non valeva soltanto per i cittadini a stelle e strisce ma un po’ per tutto quanto il mondo cosiddetto occidentale. Richard Brooks, autore versatile, aveva a cuore i temi quali la giustizia sociale, l’uguaglianza, la libertà ed era ben consapevole del ruolo che i giornali avevano in una moderna società. La stampa era la coscienza della comunità e ne L’ultima minaccia, Brooks si prodiga per farlo capire in ogni modo. Dal tema della vendita del Day, il giornale dove è ambientata la storia, alle parole dell’immigrata tedesca Mrs. Schmidt (Kasia Orzazewski), si sottolinea la necessità, in seno alla società, di una stampa libera e indipendente. Il soggetto, opera, come la sceneggiatura, dello stesso regista, verte sulla messa in vendita di un giornale, il citato Day, considerato che agli eredi del fondatore non interessa più rimanere nel settore dell’editoria. E non è un tema campato per aria; intanto perché è ritagliato sulla storica chiusura del New York Sun, venduto alla catena Scripps Howard e assorbito nel World-Telegram, e poi perché è una situazione che abbiamo visto ripetersi un’infinità di volte. La volontà di raccontare una storia vera, si trova nelle scelte registiche di girare alcune scene nella sala stampa del New York Daily News, con veri giornalisti, o nella ricostruzione di una redazione negli studi di Hollywood. O anche nella dedizione del grande Humphrey Bogart – che interpreta Ed Hutcheson, direttore del Day – che si recò più volte presso il citato New York Daily News per comprendere come funzionasse un giornale. 

La regia di Brooks è solida è diretta tanto quanto la sua penna e difficilmente si può quindi trovare, sul grande schermo, un testo che rappresenti al meglio la frenetica e concitata vita di un giornale quotidiano. E già, solo per questi motivi, L’ultima minaccia merita lo status di capolavoro. Ma per l’aspetto più prezioso del film dobbiamo rivolgerci all’anima democratica, rooseveltiana, liberale, di Brooks, uno che davvero credeva in quei principi che, al tempo, si pensava potessero ancora salvare la nostra società. Il regista è però onesto e, quindi, già nel suo film riconosce anche i limiti di questi suoi ideali, la loro natura illusoria. Nel lungometraggio, il tribunale, massima espressione della Giustizia, non può opporsi alla cessione del giornale presso cui lavora Hutcheson. Il punto è che le sorelle Garrison (Fay Baker e Joyce Mackenzie), eredi del fondatore, vogliono cedere il Day al più scandalistico quotidiano concorrente per banali questioni economiche. Che il giornale rivale lo acquisti solo per levarsi di mezzo una scomoda concorrenza, a loro non interessa e neppure è agli atti dell’udienza e il tribunale, su questo aspetto, non è tenuto ad intervenire. La madre delle due donne, la vedova Margareth (Ethel Barrymore), è presto convinta dalla determinazione di Hutcheson e, anche in memoria degli ideali del compianto marito, prova ad opporsi alla vendita, ma non riuscirà nei suoi propositi. Hutcheson, infatti, per cercare di ostacolare il passaggio di mano del suo giornale – che vorrebbe dire chiusura certa e, oltretutto, la perdita del lavoro per un mucchio di persone – gioca il tutto per tutto e imbastisce una pesante inchiesta contro il boss malavitoso della città, Rienzi (Martin Gabel). A titolo di curiosità, va segalato che nella versione italiana del film, con un opportunismo che farebbe certo storcere il naso a Brooks, Rienzi diventa Rodzich, trasformando in slava la siciliana origine del nome. 

L’inchiesta del Day ha successo e, dopo una serie di peripezie, Rienzi o Rodzich che sia, è messo spalle al muro. Siamo quindi nel mezzo di una clamorosa campagna stampa contro la malavita cittadina, condotta in solitaria dal Day, tuttavia l’udienza per la compravendita del giornale arriva comunque alla sua deadline, per riprendere il titolo originale del film. Il giudice è chiamato a decidere: in tribunale va in scena l’ultimo dibattito. Nella stringata e impotente arringa di Hutcheson, intervenuto in via del tutto straordinaria, c’è l’ammissione da parte di Brooks che il libero mercato, la libera concorrenza, non possono essere imbrigliati alla bisogna. Certo, il discorso sul fatto che la stampa sia la coscienza della società è sacrosanto ma, ahimè, utopistico. È vero, in molti paesi occidentali ci sono leggi speciali, che ne tutelano la sussistenza ma, e Brooks certo lo sa perfettamente, l’unica Legge assoluta, nel mondo cosiddetto libero, è quella del denaro. Il regista, attraverso l’operato di Hutcheson, prova a raccontarci qualcosa di diverso, qualcosa in cui, almeno al tempo, era bello e facile credere; ma già in tribunale, di fronte alla fredda e gelida Legge, il direttore alza sostanzialmente le mani in segno di resa. Non ci resta che l’implicita domanda che ci pone Brooks, ovvero se sia giusto ciò che accade nel film, e cioè che i proprietari di un giornale, lo vendano secondo il proprio comodo.
E, con dispiacere, ma verrebbe da rispondere: è il libero mercato, bellezza.    


Kim Hunter 


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lunedì 11 marzo 2024

L'UOMO IN NERO

1451_L'UOMO IN NERO (Judex). Francia, Italia, 1963; Regia di Georges Franju.

Dopo i suoi primi lungometraggi, Il delitto di Thérèse Desqueyroux sembrava una svolta alta, nella filmografia di Georges Franju: l’intimo e impegnativo testo letterario all’origine del film con Emmanuelle Riva, e la superba capacità di tradurlo in pellicola da parte del regista francese, poteva far presagire l’intenzione da parte dell’autore di un approccio più colto alla Settima Arte. Abituato nei suoi film a spiazzare lo spettatore, Franju impone anche alla sua carriera una nuova sterzata, stavolta di senso opposto rispetto alla precedente: L’uomo in nero, il successivo lungometraggio, è una sorta di remake del serial cinematografico Judex del 1916, opera di Louis Feuillade ispirato all’omonimo romanzo d’appendice di Arthur Bernède. Sia che si consideri come riferimento l’opera letteraria, sia che si prendano i film, è evidente che si tratti di lavori di grana decisamente più grossa rispetto al romanzo Thérèse Desqueyroux di François Mauriac. Judex era un personaggio mascherato, l’uomo in nero del titolo italiano del film in questione, simile al celebre Fantomas ma con la non trascurabile differenza che non era un criminale ma un giustiziere. Negli anni Dieci del XX secolo in Francia spopolarono i serial cinematografici dedicati a personaggi cattivi, il citato Fantomas ma anche I vampiri, sempre per mano di Feuillade. Judex fu una sorta di risposta alle critiche che l’autore aveva ricevuto per aver raccontato sempre storie di criminali e malfattori. In realtà si trattava solo di un aggiustamento di facciata, visto che la critica alla società borghese, tipica di queste produzioni che sconfinavano spesso nel surreale, rimaneva inalterata. Probabilmente c’è anche una certa logica evolutiva, nella cronologia della comparsa di questi personaggi: prima arrivarono dei protagonisti che, per farsi largo contro la convenzione borghese, dovettero assumere un ruolo negativo

Una volta messo sotto accusa il sistema, si poteva presentare un eroe come Judex, che si poneva dalla parte della Giustizia a fronte della corruzione borghese. Cinquant’anni dopo, Franju, che ha sempre una matrice sociale nella sua opera, dovendo scegliere tra questi personaggi pone l’obiettivo su quello positivo, quello che può legittimamente sconfessare l’ipocrisia del sistema borghese e denunciarne il suo essere criminale. Curiosamente, proprio in quegli anni, in Italia, attecchiranno invece i fumetti neri, a cominciare da Diabolik i cui debiti con Fantomas sono sempre stati riconosciuti. Fosse uscito nelle sale qualche anno dopo, L’uomo in nero, forse, avrebbe potuto essere inteso come una risposta al fenomeno degli eroi neri italiani ma, come detto, Franju anticipò i tempi e quindi può trattarsi di una mera coincidenza (per la verità il primo fumetto di Diabolik uscì a fine 1962 ma non ebbe certo immediata rilevanza internazionale). Il quasi contemporaneo ricorso a questi eroi mascherati, comunque inquietanti, in contesti diversi, lascia intendere che i tempi fossero maturi in quest’ottica ma è da notare che L’uomo in nero di Georges Franju è un film superiore anche ai migliori adattamenti cinematografici degli eroi neri italiani. Oltre ad avere alle spalle un diverso retroterra. Il regista bretone, capace sin dal principio della carriera di trovare la giusta alchimia tra realismo e fantastico, dimostra anche stavolta la straordinaria abilità nel dosare i vari ingredienti, anche apparentemente poco conciliabili, con rara maestria. 

L’approccio al film è dichiaratamente ironico, si vedano le didascalie in perfetto stile cinema muto, ma anche nostalgico. Al tempo stesso le gag umoristiche sono ben distribuite, perlopiù affidate ad un personaggio marginale come il detective Cocantin (Jacques Jouanneau) sebbene una certa ironia di cui è intrisa la storia faccia capolino qua e là man mano che la vicenda si snoda e si riesce a coglierne meglio il clima. Perché, naturalmente, in avvio il film sembra piuttosto cupo; poi la spiazzante scena del ballo inquieta ancor di più e solo lo scorrere dei minuti permette di comprendere lo sguardo sornione con cui Franju sta giocando. La citata scena del ballo in maschera è folgorante ed è probabilmente il passaggio più famoso del film – forse dell’intera filmografia di Franju – ed è giustamente significativa. Il regista sottolinea e rinnova il collegamento con il surrealismo tipico dei serial cinematografici d’epoca, con l’annessa contestazione al mondo razionale borghese, mentre sfuma il tenore della storia visto che il banchiere Favraux (Michel Vitold) non viene ucciso ma spedito nel mondo dei sogni. Sogni drogati, naturalmente, a simularne la morte ma Judex (Channing Pollock) rivela fin da questa scena, posta quasi in principio, di non essere un criminale; piuttosto si scopre che le lettere che accusano il banchiere di essere un affarista senza scrupoli sono veritiere. La scena del ballo con i personaggi che indossano inquietanti maschere da uccello non è solo di fortissimo impatto scenico, quindi, ma è anche il punto cruciale del racconto. Le continue svolte e i ripetuti colpi di scena successivi serviranno unicamente a sorreggere il racconto: ormai si è capito che Judex è l’eroe e Favraux, da buon capitalista, il criminale. 

Non l’unico, per la verità, visto che l’istitutrice di casa Favraux, Marie/Diana (una conturbante Francine Bergé) e il suo amico Moralès (Théo Sarapo) provano a recitare il ruolo di cattivi della storia, collezionando peraltro più fiaschi che successi. Una caratteristica comune ai personaggi della storia, si è detto dello sguardo ironico della stessa, a cui non fa eccezione nemmeno Judex che, sul finire della vicenda, finisce legato come un salame. A cavarlo dai pasticci spunta dal nulla Daisy (una Sylva Koscina in vesti attillate, convocata solo per il finale): Franju sembra voler ribaltare i cliché dei romanzi d’appendice mettendo l’eroe in pericolo (Judex legato) e la damigella Daisy che s’arrampica sulla torre per salvarlo. La presenza della Koscina vestita con un fasciante costume d’acrobata bianco è colta al volo dal regista che inscena una lotta corpo a corpo tra il personaggio dell’attrice di origine jugoslava e quello della Bergé, per l’occasione in un altrettanto sexy calzamaglia nera da cattiva. Oltre a queste due figure femminili non manca naturalmente Edith Scob nei panni più eleganti della dolce Jacqueline, figlia di Favraux e oggetto dell’amore di Judex, sorta di trait d’union tra i due personaggi maschili simbolicamente rilevanti della storia. In definitiva il film risulta piacevole, la trama è incalzante e alcuni passaggi sono pregevoli figurativamente, mentre la critica al sistema borghese non manca nemmeno stavolta. Così come la matrice surrealista, che permette di digerire in questa chiave anche gli stratagemmi tecnologici e fantasiosi tipici dei personaggi in calzamaglia. Tra questi, il più inquietante è una sorta di telecamera che, mentre riprende Favraux nella prigione di Judex, ne mostra direttamente le immagini al banchiere stesso. Franju intuisce, con larghissimo anticipo sull’opinione pubblica, che non è la ripresa di nascosto, come ci si attenderebbe da una telecamera posta in una cella, ad essere davvero nociva per il soggetto filmato ma la consapevolezza di essere osservato in continuazione. Ma non è tanto un discorso sulla privacy che interessa al regista quanto il peso morale che lo sguardo del cinema implica. E quello di Franju non è un cinema di soppiatto ma un atto di accusa senza troppe remore.  





Sylva Koscina 




Francine Bergé 



Edith Scob 



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sabato 9 marzo 2024

NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE (2022)

1450_NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE (Im Westen nichts Neues). Germania, 2022; Regia di Edward Berger.

La più forte sensazione che lascia Niente di nuovo sul fronte occidentale di Edward Berger è di colpa. Certo, lo sgomento, l’orrore, la disperazione ha fronte di immagini apocalittiche, che drammaticamente ci suonano famigliari in questo periodo storico, possono essere di maggior impatto, è chiaro. Eppure il cinema, si pensi alla scena dell’incipit, o anche i telegiornali alla Tv, basta uno degli ultimi reportage dalla contemporanea guerra in Ucraina, un po’ finiscono per assuefarci all’orrore di matrice bellica. Per quanto eccezionalmente ben riprodotta, senza alcuno sconto, quella del lungometraggio di Berger è la guerra che già conosciamo fin troppo bene. Il che potrebbe anche far pensare che, in fondo, non è che il suo film sia poi così indispensabile. Oltretutto è una trasposizione di un libro, l’omonimo romanzo di Erich Maria Remarque, che contava già due adattamenti per lo schermo. E di cui il primo, All’ovest niente di nuovo di Lewis Milestone, considerato universalmente un capolavoro. Eppure ha avuto ragione Edward Berger a rimetterci le mani e a darne per la prima volta una versione tedesca; in fondo il libro era tedesco e qualche aspetto, nelle due precedenti trasposizioni, entrambe americane, era andato perduto. Gli americani nelle loro azioni – e il cinema americano non fa certo eccezione, anzi – hanno sempre un approccio individualista, il sogno americano è fondamentalmente un ingrediente che nel loro cinema troviamo sempre, seppur in minima parte. Il cinema bellico è in questo secondo solo al western e, seppure quello di Milestone era un film smaccatamente pacifista, lo era incarnando perfettamente lo sconcerto dei giovani soldati tedeschi chiamati al fronte dopo essere stati adeguatamente indottrinati addirittura dal proprio maestro. La brutalità della guerra costringeva infatti i ragazzi protagonisti a rendersi conto di quanto fuorviante era stata la propaganda di regime. 

Il remake televisivo di Delbert Mann riprendeva questa linea inserendosi contemporaneamente nel solco antimilitarista in voga negli anni Settanta. L’impressione era di condivisione per la sorte tragica occorsa ai soldati; un moto che, per quanto il cinema, anche quello di matrice televisiva, fosse efficace, andava da una posizione moralmente più alta verso una moralmente più bassa. Gli americani, che avevano vinto e si erano eretti paladini della giustizia mondiale, provavano a fare mea culpa per l’utilizzo della guerra come sistema per redimere le questioni internazionali e per farlo chiamavano in causa il punto di vista tedesco. Un po’ come dire: la guerra è orribile anche per chi quella guerra l’ha scatenata due volte ed è universalmente riconosciuto, soprattutto al cinema, come popolo più incline all’uso della forza militare. E se è orribile per i tedeschi, figuriamoci per gli altri, noi compresi. Un metodo per rinnegare l’uso della violenza militare della guerra ma anche, più sottilmente, per prendere un po’ le distanze dalle responsabilità per averla provocata. O forse potrebbe essere proprio il non voler infierire sul popolo tedesco a tenere alzato il pedale della colpa nei due film americani: perfino ad un capolavoro come All’ovest niente di nuovo manca un sentimento di pentimento vero e forte. I giovani sono stati ingannati dai maestri; la colpa è di qualcun altro. Per gli americani vale ancora il discorso che sono stati i tedeschi; per i tedeschi che sono stati i loro governanti. Manca qualcosa, però. Che forse troviamo in Niente di nuovo sul fronte occidentale di Berger. E non sono le splendide scene di battaglia, le vicende dei soldati, le gesta in prima linea, girate in modo sontuoso ma in fondo non migliori di tanti altri film bellici. Quello che assume significato è il colloquio tra Erzberger (Daniel Brühl), incaricato dai tedeschi di trattare l’armistizio, e il generale Ferdinand Foch (Thibault de Montalembert) comandante supremo degli alleati. Tra i due, il più ostile è il generale francese. Questo è il punto nevralgico: siamo davvero totalmente in disaccordo, con l’intransigente linea tenuta da Foch? O ci rimane qualche dubbio che sia legittima, considerato come la Germani aggredì la Francia quattro anni prima? Nel caso, ecco spiegato perché la logica della guerra è ancora in vigore. 









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