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sabato 27 luglio 2024

IL CACCIATORE DI UOMINI

1519_IL CACCIATORE DI UOMINI (El Canìbal). Spagna, Germania Ovest, Francia 1980; Regia di Jesùs Franco.

Una valutazione può spesso dipendere dalla prospettiva che si adotta nell’analisi: ad esempio, se Il cacciatore di uomini, film dell’ineffabile Jesús Jess Franco, lo prendiamo in sé, c’è un po’ da mettersi le mani nei capelli. Diversamente, se vi si approccia dopo aver visto La dea cannibale, opera dello stesso autore, anno, genere e tenore, allora le sensazioni potrebbero essere più positive. In effetti, Il cacciatore di uomini, ha qualche spunto positivo, o almeno migliore rispetto al citato precedente di Franco in ambito cannibal: innanzitutto l’ambientazione è assai più plausibile. Anche la tribù cannibale, forse il tasto più dolente ne La dea cannibale, è stavolta molto più presentabile, non poi meno credibile di quanto in genere queste figure non lo siano nelle produzioni a basso costo. Il canovaccio lascia qualche perplessità, a dirla tutta, ma va detto che, nella fruizione, giova la narrazione scarna che non rivela troppi dettagli, almeno nella prima parte. C’è, per la verità, un insistito montaggio alternato che viene presto a noia, soprattutto perché lascia intendere un parallelismo, tra la vita degli indigeni e quella di una moderna città occidentale, piuttosto estemporaneo. Si può leggere, in effetti, un malcelato moralismo da parte di Franco, che sembra alludere che tra le due società mostrate, quella dei cannibali e quella cosiddetta occidentale, non ci sia poi tutta questa differenza. Il confronto sembra proprio un atto di accusa ai pregiudizi dell’uomo bianco ma, poi, Franco, nella sua messa in scena, ne fa pesantemente ricorso.
La trama si snoda su passaggi poco plausibili su cui lo spettatore è chiamato a sorvolare e le bellezze discinte che imperversano sullo schermo sono un incentivo in questo senso. Un gruppo di criminali rapisce Laura, (Ursula Buchfellner), una bellissima modella, chiedendo un cospicuo riscatto. Incautamente, i rapitori portano la ragazza in una misteriosa isola popolata da una tribù cannibale; intanto, il reduce del Vietnam Peter Weston (Al Cliver alias Pierluigi Conti) è ingaggiato per liberarla. Tra i passaggi davvero troppo superficiali del racconto, salta all’occhio lo stratagemma di Peter per ingannare i criminali: il nostro prode eroe si lancia da un elicottero lasciando il velivolo libero di schiantarsi, simulando quindi un incidente. Al netto del fatto che i banditi poi manco ci cascano, viene da chiedersi se qualcuno di coloro abbia lavorato al soggetto o alla sceneggiatura, abbia una vaga idea di quanto possa costare un elicottero. Domande forse inopportune, a fronte di un film di Jess Franco, ma in un film che insiste a percorrere sentieri narrativi avventurosi sono anche ineludibili. Nel complesso, come detto, il film è gravemente insufficiente, penalizzato dai troppi elementi risolti in modo dozzinale e superficiale. Stavolta le scene cannibaliche non sono il piatto forte del film di Franco, per quanto possano essere considerate accettabili, perlomeno nel loro essere disgustose. Ursula Uschi Buchfellner, infatti, è davvero uno spettacolo e la sua bellezza folgorante riesce a rimanere immacolata anche in mezzo all’immondizia cinematografica.


Ursula Uschi Buchfellner




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giovedì 25 luglio 2024

HORIZON: AN AMERICAN SAGA. CAPITOLO 1

1518_HORIZON: AN AMERICAN SAGA. CAPITOLO 1 . Stati Uniti 2024; Regia di Kevin Costner.

Al di là delle recensioni, che non hanno stroncato ma nemmeno esaltato Horizon: an american saga. Capitolo 1, la nota più critica dell’opera sembra lo scarso riscontro al botteghino. Il monumentale film di Kevin Costner è costato una fortuna, in parte sborsata dallo stesso cineasta americano in prima persona, e c’è da sperare che possa completarsi nei quattro capitoli previsti, a prescindere dal box-office. La scommessa di Costner, che con Balla coi lupi [Dances with wolves, 1990], aveva sbancato Hollywood, l’Academy e tutto quanto il mondo, stavolta non sembra funzionare, nonostante le apparenti analogie. Al tempo, il cinema sul grande schermo era stato messo in crisi dalla televisione e, per parare il colpo, si era messo a scimmiottare la rivale con produzioni sempre più ordinarie e minimaliste. Costner era quindi andato completamente controcorrente: fotografia maestosa in risposta ai foschi schermi dei tubi catodici domestici, racconto ad amplissimo respiro narrativo opposto alla frenesia televisiva, lunghezza ingombrante da contrapporre ai prodotti sminuzzati, buoni per riempire qualunque momento della giornata e senza pretese di particolare attenzione, tipici della tv del periodo. In aggiunta a questo ribaltone concettuale del prodotto offerto, Balla coi lupi era un western, un genere ormai considerato obsoleto. E, ciliegina sulla torta, era un western filo indiano; non che questo fosse una novità nel cinema hollywoodiano, tutt’altro, ma lo era nella consapevolezza della proposta. A naso, possibilità che fosse un successo, davvero poche; risultato, box-office alle stelle ovunque e sette premi Oscar. Con Horizon: an american saga. Capitolo 1 Costner ci riprova: il cinema, forse, non è in crisi come alla fine degli anni Ottanta, ma certo le serie Tv stanno prendendo il sopravvento, nel gradimento del pubblico. Anche lo stato di salute del western, come genere, è forse migliore che al tempo, visto che ormai si è capito che non torneranno mai più i fasti della Golden Age degli anni Cinquanta, ma ogni tanto qualche bel film ambientato alla frontiera trova posto nelle sale cinematografiche. E non solo: Yellowstone [2018-in corso, serie Tv ideata da Taylor Sheridan e John Linson] è una produzione televisiva di grande successo e, tra l’altro, il protagonista è proprio Kevin Costner. 

Forse, è proprio il successo e la complessiva buona finitura di questa serie, ad aver contribuito a dare l’ultima spinta al cineasta americano per decidersi a produrre Horizon, un progetto che covava sin dalla fine degli anni Ottanta. Costner, azzarda quindi anche stavolta ma con una diversa strategia: la lunghezza monstre, ben quattro capitoli di cui il primo da tre ore, ricalca proprio quella di una stagione di una serie Tv. E anche con il tema western, Horizon finisce per inserirsi esattamente nella scia della recente Yellowstone: non siamo, quindi, di fronte ad una vera svolta a 180° come nel caso di Balla coi lupi, ma, semmai, c’è il tentativo di portare il format della serie televisive nelle sale cinematografiche. E, forse, anche questo è uno dei motivi che spiega la risposta tiepida del pubblico: perché andare al cinema quando prodotti simili –leggi Yellowstone, appunto– si possono vedere sullo schermo piatto da 50 pollici di casa? Al contrario, all’epoca, alla maestosità offerta da Balla coi lupi non c’era alternativa; e poi, forse, i tempi erano maturi perché la gente comune trovasse finalmente degni di interesse gli indiani d’America. Questo preambolo non è, per altro, un atto d’accusa a Horizon: an american saga. Capitolo 1; una stroncatura, insomma. È semmai una difesa, del film di Costner, che se ha funzionato poco in termini di incassi non è affatto per scarsa qualità, ma, piuttosto, per i suddetti motivi circostanziali.


Perché il primo capitolo di Horizon è un signor film, altroché.
In genere, a suscitare qualche perplessità è anche la complessità del canovaccio, con tre segmenti narrativi che procedono simultaneamente e si interrompono, spezzando vicendevolmente il ritmo delle sottotrame. Si tratta di contestazioni un po’ pretestuose perché siamo di fronte ad un normale schema narrativo, almeno in questo tipo di racconti a lunghissimo respiro, laddove ci siano da orchestrare un grande numero di personaggi che si muovono su binari che, prima di intersecarsi, hanno da compiere i loro percorsi. E così, in principio, quando si mette in modo il colossale meccanismo narrativo, occorre un po’ di tempo per carburare. Questo volendo accogliere le istanze di chi ritienga poco coinvolgente Horizon: an american saga. Capitolo 1, che, ad onor del vero, non è un blockbuster rutilante di ultima generazione. In realtà, non ci sono problemi di fruibilità nelle tre ore e la noia mai si affaccia durante la proiezione del film; casomai, per coloro hanno notato qualcosa del genere, sarebbe da chiedersi perché diamine sia ritenuto necessario che il ritmo del cinema debba andare sempre a tavoletta. Da un punto di vista narrativo, il primo capitolo di Horizon funziona a dovere; Costner conosce i tempi del cinema classico, e, seppure quell’epoca sia ormai morta e sepolta, chi ne custodisce le coordinate può tranquillamente frequentarla con profitto. Qualche saltello nella sceneggiatura –ad esempio, i pettegolezzi sull’interessamento del tenente Trent (Sam Worthington) per la bella vedova Frances Kittredge (Sienna Miller) di cui si parla sebbene nel film non ve ne sia traccia– non possono rappresentare certo un serio appunto agli sceneggiatori. È evidente che lo stesso Costner e Jon Baird, alle prese con lo script, abbiano confidato nella perspicacia degli spettatori e, a fronte di una mole di dettagli narrativi enorme, abbiano tagliato ciò che si poteva tagliare senza inficiare la funzionalità del testo.

Che, infatti, funziona.  
Come detto, da un punto di vista strettamente narrativo, il primo capitolo di Horizon si sviluppa seguendo tre tracce differenti, alle quali va aggiunta una parte, per ora neppure eccessiva, dedicata agli Apache. Tutto sembra ruotare intorno all’insediamento di coloni chiamato Horizon; Frances, il citato personaggio della Miller, è appunto una dei pochi sopravvissuti all’attacco degli indiani –uno dei passaggi più spettacolari del film– e il tenente Trent, con cui finisce per flirtare, è di stanza in un forte militare non troppo lontano. Hayes Ellison (Kevin Costner) è un pistolero che si trova invischiato in una faccenda pericolosa ed è costretto dalle circostanze a fare da balia alla prostituta Marigold (Abbey Lee) e al ragazzino che l’accompagna. Sulle loro tracce, i temibili fratelli Sykes, pendagli da forca degni di un sordido spaghetti-western. Questa pista narrativa comincia più a nord ma è evidente che ha il suo polo d’attrazione nella valle del fiume San Pedro dove i nostri cocciuti coloni stanno cercando di insediarsi a dispetto degli Apache. E ad Horizon è diretta anche la carovana, il cui accidentato viaggio nel selvaggio west costituisce il terzo binario del racconto: qui il personaggio principale è, per il momento, Matthew Van Weyden (Luke Wilson), il capo convoglio. Ma a colpire nel primo capitolo di Horizon, più che i dettagli narrativi, sono alcuni particolari che Costner predispone. Innanzitutto c’è da valutare come venga affrontata la «questione indiana»: in Balla coi lupi erano di scena i Lakota, comunemente noti come Sioux, una nazione che ben si prestava ad un tributo alla cultura degli indiani d’America, in un momento storico dove non erano particolarmente d’attualità. 

Non che lo siano divenuti nel frattempo, ma certo gli Apache sono un soggetto più complesso, da affrontare. Gli Apache erano, in effetti, una tribù bellicosa e, quando non fossero i bianchi a lamentare le loro scorrerie, i loro vicini, Zuni, Hopi, Pueblo tra gli altri, potevano tranquillamente confermarne la pericolosità. In sostanza: per quanto si dica che il progetto Horizon sia addirittura precedente a Balla coi lupi, nei primi anni Novanta, i Sioux erano la tribù perfetta per mettere sotto i riflettori i nativi americani. Di questi tempi, dominati dal famigerato «politicamente corretto» che pretende che si presentino le cose in modo sempre edulcorato, Costner può invece provare a sbaragliare il campo ribadendo come anche un popolo bellicoso per natura o per scelta, abbia ugualmente i suoi diritti: e gli Apache sono l’esempio quanto mai calzante. Va bene che i pellerossa non debbano essere necessariamente un argomento conosciuto ma sorprende come ci sia qualcuno che, tra i recensori, sia stupito di come gli Apache di questo primo episodio siano protagonisti quasi solamente di atrocità o comunque atti di violenza. Gli Apache vivevano di scorrerie a danno delle tribù vicine e, quando arrivarono i bianchi o i messicani, misero anche questi tra le loro possibili vittime. Va riconosciuto che i bianchi, e volendo anche i messicani, si rivelarono ben più crudeli e spietati, nel perseguire i propri propositi di conquista. Tuttavia Costner, forse per prevenire le critiche –che sono comunque piovute per l’eccessiva caratterizzazione violenta dei nativi della storia– inserisce una trama interna agli Apache, con il moderato vecchio capo Taklishim (Tatanka Means) che si oppone alla bellicosità del giovane Pionsenay (Owen Crow Shoe), in un confronto aspro ma non certo originale. 

In quest’ottica sembra ascriversi anche l’attenzione formale del tenente Trent e del bravo sergente maggiore Riordan (Michael Rooker) che ricorrono a termini quali «indigeni» o «aborigeni» davvero improbabili per l’epoca per definire gli indiani ostili. Concessioni di Costner al citato «politically correct» che non inficiano la qualità della proposta, anche perché si tratta di dettagli marginali. E, a proposito di dettagli, ce ne sono di ben più cruciali e illuminanti. Ad esempio, il film si apre con un’inquadratura su alcune formiche: fugace citazione de Il Mucchio Selvaggio [The Wild Bunch, 1969, di Sam Peckinpah]? Probabile, del resto c’è anche una breve scena sotto il portico di una casa, che funge da cornice all’immagine, che ricorda un altro capolavoro western, Sentieri selvaggi [The Searchers, 1956, di John Ford]. Ma il paletto di legno, quadrato, che viene impiantato e scombina i poveri insetti, le formiche dell’incipit, ci dice che siamo di fronte anche ad una metafora: alcuni esseri viventi sono impegnati nelle loro beghe quando l’arrivo di altre creature manda all’aria il loro stesso mondo. E a confermare che siamo sulla pista giusta ci pensa la trama: in quel mentre, alcuni Apache stanno giusto guardando con non poca perplessità quello che accade. Sono infatti arrivati i primi coloni di Horizon, intenzionati ad insediarsi proprio lì, in pieno territorio indiano. L’aspetto più interessante della scena, nonostante sia una situazione che, ai nostri occhi, pare piuttosto intuibile, è l’incapacità di alcuni ragazzini apache di comprendere cosa stiano facendo gli «occhi bianchi» con i loro paletti di legno. Gli autori, attenti a non offendere i nativi e a non offrire sponde a critiche pretestuose, mettono in scena questo dialogo tra due ragazzini; se ne potrebbe dedurre che il loro spaesamento di fronte alle operazioni di lottizzazione del futuro insediamento, sia dovuto all’inesperienza. In realtà, per popolazioni «non alfabeta» quali erano gli indiani, il concetto di «dividere la terra» era fuori dalla capacità di comprensione. Fu questo il problema principale dei nativi al cospetto degli invasori, oltre, ovviamente, alla maggior evoluzione tecnologica di questi che, per altro, era una diretta conseguenza della mentalità alfabetizzata degli europei. 

Questo sembra essere il tema, almeno come coordinata principale, di Horizon: an american saga: l’impatto di una cultura alfabetizzata in un ambiente primitivo. Questa era, in sostanza, la condizione degli originali abitanti dell’America, che non avevano neppure scoperto la ruota, o forse, stante l’ambiente favorevole, non avevano avuto la necessità di farlo. Ma, in seguito, si trovarono al cospetto di invasori che, dopo l’invenzione di Gutenberg –la stampa a caratteri mobili– la Rivoluzione Industriale e tutto quanto il resto, avevano maturato una mentalità efficacemente spietata in ogni ambito dello scibile umano. Non è un caso che il dettaglio centrale e cruciale su cui gira tutto quanto Horizon sia un ciclostilato che pubblicizza l’insediamento nella valle del San Pedro. La stampa è stata l’invenzione, dopo la ruota e l’alfabeto, cruciale della civiltà occidentale che ha fornito gli europei di uno schema mentale brutalmente risoluto ed efficace –razionale, in una parola– totalmente sconosciuto alle popolazioni non alfabetizzate. E, infatti, non è ancora una volta un caso che il protagonista di Horizon, Hayes Ellison, come prima cosa che fa, quando entra in scena, si rechi a dettare una lettera. E, alle maliziose allusioni di Marigold, risponde che, unendo gli sforzi a quelli del commesso, è in grado di saper leggere e scrivere quanto basta. Intanto, il marito della coppia di piedidolci snob che viaggia con la carovana è tutto preso a disegnare e annotare qualsiasi cosa veda dal suo conestoga. Ecco la superiore forma di evoluzione degli «occhi bianchi», non i fucili a ripetizione o i cannoni: la presunzione di agire per una nobile causa –la scienza– e l’incapacità di comprendere l’altro –gli indiani. La stessa incapacità dei ragazzini apache dell’incipit, ma vista dal versante opposto. Tanto le popolazioni non alfabetizzate hanno difficoltà a comprendere infatti la nostra civiltà, quanto noi di comprendere la loro: saranno anche popolazioni primitive, ma, a differenza nostra, utilizzano al meglio tutti e cinque sensi. La nostra cultura, quando ha mutato il linguaggio in una forma concettuale che ha trasformato in simboli grafici visivi quelli fonetici, perfino quelli più arditi come le consonanti, ha progressivamente relegato in soffitta tutti gli altri organi di senso.  Le popolazioni non alfabetizzate, come gli Apache, quei sensi li adoperavano invece tutti, perché gli erano necessari per sopravvivere nell’ambiente ostile in cui abitavano. Per i coloni, gli indiani erano quindi altrettanto incomprensibili di quanto loro stessi non lo fossero agli occhi dei nativi.
Sul piano concreto, la maggior tecnologia a disposizione è l’elemento che decise le sorti dell’invasione; le armi da fuoco, certo, perfino i cannoni, all’occorrenza. Eppure la vera arma finale dei bianchi è quella che, nel finale del capitolo 1 di Horizon, in quella lunga sequenza di immagini che è una sorta di anteprima per il proseguo del film, è sinistramente riproposta a più riprese, nel suo martellante e incessante lavoro: la macchina da stampa.





Sienna Miller 



Abbey Lee 



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martedì 23 luglio 2024

LAMBORGHINI - THE MAN BEHIND THE LEGEND

1517_LAMBORGHINI - THE MAN BEHIND THE LEGEND . Stati Uniti 2022; Regia di Bobby Moresco.

Probabilmente, una figura come Lamborghini –sia che la si intenda come l’imprenditore Ferruccio (Frank Grillo) che come marchio aziendale riferito principalmente alle lussuose auto sportive– meritava un trattamento migliore di quello che il regista Bobby Moresco faccia nel suo Lamborghini – The man behind the legend. Non che il film sia brutto, anche perché è oggettivamente impossibile quando si hanno a disposizione simili argomenti: le auto sportive italiane sono state la quintessenza del capitalismo, la fusione di tutti gli elementi d’eccellenza della nostra società. La bellezza aiutata dall’aereodinamica, che si esprime subito a colpo d’occhio, ma ad un secondo sguardo si possono cogliere la cura artigianale e maniacale dei dettagli e delle rifiniture.  E poi tutte le altre leccornie meccaniche e tecnologiche: dai motori potentissimi agli altri componenti, freni, sospensioni, trasmissione, fino agli pneumatici, evoluti e costosissimi anch’essi. Perché l’aspetto economico, nell’idea dell’auto e dell’auto sportiva di lusso in particolare, è un elemento cruciale: per quale motivo, spendere tutti quei soldi per un’auto che è, probabilmente, il bene che si deprezza in modo più rapido? Non ha senso, da un punto di vista razionale. Meno ancora ce l’ha comprare un’auto di lusso; e ancor meno un’auto di lusso ultra-sportiva. Ed è proprio in questa mancanza di logica, che si sublima l’intero sistema capitalista, abitualmente teso a celebrare l’efficienza e la razionalità dei suoi alfieri, gli uomini d’affari. Oltre a ciò le auto sportive, come le Ferrari, le Maserati o le Lamborghini, non sono macchine ordinarie, ma straordinarie, e quindi basta già la loro presenza per creare interesse. Questo per dire come un film imperniato su questi argomenti, raramente può annoiare: comunque una Lamborghini Miura lascia sempre a bocca aperta ed è uno spettacolo nello spettacolo. Il film di Moresco, per quanto come qualità possa essere paragonato ad una nostrana fiction, si basa sull’articolata vita di Ferruccio, e questo poi è un ulteriore vantaggio. La fonte d’ispirazione è, per essere precisi, il libro Ferruccio Lamborghini, la storia ufficiale, scritta nientemeno che dal figlio Tonino e, quindi, si spera attendibile. Per altro, nei passaggi salienti, è cosa nota: Lamborghini era divenuto costruttore di trattori e quando cercò un confronto con Enzo Ferrari, fu trattato con malcelata sufficienza. 

In effetti il Drake, figura mitologica, non è rimasto alle cronache per essere un gentiluomo, mentre, da parte sua, Ferruccio Lamborghini aveva una personalità esuberante ed è quindi plausibile che il loro incontro non sia andato liscio come l’olio. Pare che Lamborghini, ormai imprenditore arricchito, avesse avuto noie sulla frizione usando le Ferrari che si era comprato: mentre cercava di risolvere il problema si accorse che la componentistica meccanica era la stessa che le sue officine utilizzavano per realizzare i trattori. Qui va specificato che il film differisce un poco dalla versione dei fatti più conosciuta, ma, sostanzialmente, l’ardire di Lamborghini nell’opera di Moresco rimane inalterato, con Ferruccio che si presenta senza troppi giri di parole da Enzo Ferrari per lamentarsi di questa paradossale situazione: auto sportive che costano una fortuna fatte con i pezzi meccanici uguali a quelli dei trattori? Il Drake liquidò Lamborghini senza troppa enfasi, invitandolo a tornare ai suoi mezzi agricoli. Questo passaggio è cruciale, perché fu la molla, almeno secondo lo stesso Ferruccio, che spinse Lamborghini a produrre auto sportive, come moto di rivalsa alle parole sprezzanti di Ferrari. In Lamborghini – The man behind the legend la scena in questione patisce forse un po’ l’interpretazione di Gabriel Byrne, chiamato ad interpretare Ferrari senza averne la monumentale presenza fisica, indispensabile per rendere sullo schermo l’enorme influenza che, sulla società dell’epoca, l’Ingegnere riusciva a manifestare anche da un punto di vista fisico. Peraltro, come detto, non è che il film di Moresco sia indimenticabile ma va anche riconosciuto, proprio come certe produzioni televisive a cui è assimilabile, che si pone come scopo un obiettivo vagamente divulgativo. Nello specifico, far conoscere la storia di Ferruccio Lamborghini. Può bastare? A patto di non prendere l’abitudine a questo tipo di film, perché a limitate pretese corrispondono limitate soddisfazioni.    






Mira Sorvino 


Hanna van der Westhuysen 


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domenica 21 luglio 2024

FERRARI

 1516_FERRARI . Stati Uniti 2023; Regia di Michael Mann.

Ci sono diversi modi per approcciare un film a suo modo capitale come Ferrari di Michael Mann: il più immediato è intenderlo come un biopic e, di conseguenza, osservare come il regista americano tratteggi la figura del celebre costruttore di automobili sportive. Però, se è innegabile che Enzo Ferrari (Adam Driver, più che convincente) sia il protagonista del film, è curioso che la storia raccontata si limiti ad un periodo assai breve della vita e anche della carriera professionale dell’Ingegnere, come era soprannominato l’imprenditore italiano. Le vicende narrate si limitano, infatti, al 1957, quando l’azienda Ferrari rischiava la bancarotta perché i soldi spesi dal reparto corse superavano, e di gran lunga, le entrate dalla vendite delle vetture di serie. Contestualmente, Ferrari era un uomo in profonda crisi: non era riuscito a superare la morte, in seguito ad una malattia incurabile, del figlio Dino, il matrimonio con Laura (Penelope Cruz, strepitosa) era sostanzialmente finito, mentre con l’amante Lina Lardi (Shailene Woodley), le cose sembravano andare un po’ meglio. Sembravano: perché anche lì c’era una grana mica da ridere, con il figlio avuto dalla ragazza, Piero (Giuseppe Festinese), che Ferrari avrebbe voluto riconoscere, forse anche solo per avere un erede, ma non poteva, perché Laura era stata tenuta all’oscuro di tutto. E Laura era socia al cinquanta percento nella società Ferrari, particolare non trascurabile. Il suo assenso era quindi indispensabile, all’Ingegnere, per cavarsi dagli impicci finanziari in cui si era ficcato. Ecco, già da questi brevi cenni –e ancora non ci si è addentrati nelle questioni sportive, con i piloti che morivano come mosche per portare i suoi bolidi oltre il limite– si può intuire che razza di uomo fosse il Drake, come era conosciuto oltremanica Enzo Ferrari. Secondo Michael Mann, naturalmente, bisognerebbe aggiungere; se non fosse che Ferrari era davvero un uomo così: risoluto e determinato a conseguire i propri scopi. E gli scrupoli, morali, etici, umani? Quelli ti facevano arrivare secondo e l’Ingegnere voleva vincere, anzi, stravincere. Una filosofia, nel complesso, deprecabile, è chiaro, eppure l’ossessiva capacità dell’imprenditore emiliano di stare concentrato sul suo punto focale aveva anche dei lati positivi. 

Ad esempio, quando, nel film, dichiara “la Jaguar corre per vendere automobili. Io vendo per correre” rivela come sottoponga gli interessi alla pura passione, e questo è sicuramente un merito oltre che uno dei motivi che ne hanno fatto un mito del XX secolo. Un altro dettaglio, in questo senso, non troppo approfondito nel film di Mann ma comunque molto presente, è l’attenzione alla “purezza” delle sue vetture: le Ferrari erano auto da corsa e non cartelloni pubblicitari a quattro ruote, come già cominciavano ad essere, ad esempio, le Maserati, su cui, nel film, si vede campeggiare la pubblicità della Buitoni. Sembra più interessato, Mann –per sottolineare questa necessità di Ferrari di restare concentrato sul primo obiettivo, imporsi in tutti i modi possibili– quando fa notare come l’Ingegnere fosse infastidito dalla presenza delle belle ragazze intorno ai suoi bolidi, a cominciare dall’attrice Linda Christian (Sarah Gadon), fidanzata del pilota Alfonso De Portago (Gabriel Leone). I fotografi e i giornalisti, categorie con le quali Ferrari aveva in quel periodo ulteriori noie, venivano, infatti, distratti dalle «carrozzerie» sbagliate, trascurando quelle delle sempre fiammanti vetture. Questa filosofia che permea la Ferrari come idea, come concetto, e che deriva dal suo creatore, non è secondaria: perché Ferrari è sinonimo di automobile sportiva, e quindi di lusso per definizione; il che significa che è l’essenza stessa del capitalismo, come una nota pubblicità efficacemente sintetizzava nella definizione «motus symbol». Che il prodotto per eccellenza del sistema capitalistico rifiutasse, in un certo senso, di mercificarsi ulteriormente divenendo mezzo pubblicitario, è un aspetto della questione interessante.

Ma questi elementi, per quanto siano ovviamente presenti, sono meno oppressivi del tema della morte, che, con la sua onnipresenza, permea tutta quanta la storia raccontata dal film. Il film si apre con il notevole incipit, nel quale Ferrari si sveglia e lascia nel letto la donna, saluta il ragazzino ancora addormentato e lascia il casolare: sembra una normale scena famigliare; in realtà si trattava dell’amante e del figlio illegittimo. Poi l’uomo si reca al cimitero a trovare il figlio Dino, morto l’anno prima, ma, nella scena, sullo sfondo, si vede anche la tomba del fratello di Enzo, che si chiamava Dino a sua volta, anch’egli defunto. Poi ci sono le morti dei piloti: Eugenio Castellotti (Marino Franchitti) e il già citato de Portago, infine le vittime dell’incidente di Guidizzolo, nove spettatori tra cui cinque bambini, avvenuto durante la Mille Miglia. La morte incombe sul film di Mann e sulla figura di Ferrari che, nell’incapacità di gestire quella del figlio Dino, mostra una debolezza umana che, se non altro, ispira un minimo di commiserazione ed empatia. Per il resto, per la noncuranza con cui arruola de Portago, fino ad allora completamente ignorato, mentre Castellotti giace ancora sulla pista –come detto, morto in incidente al volante di una delle sue auto da corsa– Ferrari è una persona per la quale è impossibile provare una qualche forma di apprezzamento. E viene da chiedersi, quindi, perché Mann abbia voluto fare un film biografico su una persona tanto meschina, una persona vile che tradisce la moglie ma che, quando viene scoperto, confessa subito, con la scaltrezza di chi si rende conto con tempismo perfetto di quando è ora di abbandonare la nave. Non ha niente di eroico, Enzo Ferrari: le sue auto primeggiano le gare perché egli sacrifica tutto quanto sull’altare della vittoria, prime fra tutte le vite dei suoi piloti. Ma sono le auto a vincere, non lui; Ferrari non è un pilota. È un imprenditore, e, anche sotto questo profilo, Mann non ci racconta niente di straordinario del suo lavoro, se non che sa mentire ai giornalisti, all’avvocato Agnelli o in qualsiasi altro contesto che gli sia utile; mentire è, del resto, un’attività a cui, nella vita privata, si è specializzato, conducendo una doppia vita alle spalle della moglie. 

La Cruz, nella sua interpretazione, è quasi l’incarnazione della morte che accompagna quest’uomo ordinario che l’ottusa cocciutaggine ha trasformato in un’icona immortale del  nostro tempo. E qui si comincia a delineare meglio l’intento del regista americano; anche perché Ferrari non può certo dirsi un film di genere sportivo. Per la verità, probabilmente a Mann, da americano, sarebbe anche piaciuto, fare un film sulle corse: le sequenze sulla pista e sulla strada sono, infatti, eccezionali, del resto il cineasta statunitense è un maestro nello sfruttamento della maestosità del grande schermo. Le scene degli incidenti, poi, sono stupefacenti, in particolar modo quella con lo schianto di Guidizzolo con tutte quelle vite umane falciate da una morte che, mai come in quell’occasione, vola dipinta di rosso su quattro ruote. Quello del pericolo, dell’ebbrezza del brivido è un tema importante, perché è uno degli ingredienti di quel mondo in cui si muoveva Enzo Ferrari, e che gli permise di ritagliarsi una figura statuaria sull’ordinarietà delle persone comuni. Tuttavia, come detto, Ferrari non era un pilota, ci aveva provato, in gioventù, ma non ne aveva la stoffa, la tempra; in concreto, come mostrato implacabilmente dal film di Mann, il Drake era un uomo ordinario. Un imprenditore scaltro ed opportunista, unicamente proteso ad ottenere il massimo, senza lasciarsi toccare da ciò che gli accade intorno: il perfetto capitalista. E se gli occhiali neri, perennemente indossati, potevano servire a nasconderne l’anima nera, ma sono anche un dettaglio biografico, l’opera di Mann, che differenzia le tecniche di ripresa del protagonista e della moglie al cospetto della tomba del figlio, esprime il concetto in campo prettamente cinematografico. 

In risposta ad una sequenza frammentaria, significativa di una personalità scomposta, opportunistica a seconda delle esigenze, tipica di Ferrari, il regista regala un monumentale primo piano di rara intensità alla Cruz che lo ripaga con tutta la sua potenza espressiva. Il personaggio interpretato da Penelope Cruz nel film Ferrari è una grande donna; Enzo, un uomo incapace di comprendere la morte del figlio e, in questa sua debolezza, c’erano, come già accennato, le uniche note, se non positive, quantomeno umane della sua persona. Ma se il protagonista è discutibile e il tema, quello sportivo, non è centrato –in fondo Ferrari, in prima persona, non rischia la vita ma soltanto soldi– qual è la ragion d’essere del film di Mann? Forse, noi italiani potremmo essere favoriti, nel comprenderlo, nel momento in cui riusciremo a levarci il fastidio di vederci dipinti come una cartolina stereotipata. Ferrari di Mann è solo l’ultimo di una serie di film hollywoodiani ambientati nel Belpaese –qualche passaggio in Rush [2013, di Ron Howard] e Lamborghini – The man behind the legend [2022, di Bobby Moresco], per rimanere in ambito sportivo, ma anche e soprattutto Tutti i soldi del mondo [All the money in the world, 2017, di Ridley Scott] e House of Gucci [2021, sempre di Scott], dove troviamo lo stesso Adam Driver di Ferrari come protagonista– che mostrano l’Italia con l’utilizzo di una serie di cliché ambientali un filo troppo pacchiani. Una sensazione fastidiosa, per la verità, osservando questi elementi dei film dal punto di vista di chi quel paese, rappresentato in modo tanto superficiale, lo conosce nel profondo. Poi va detto che perfino la Walt Disney, in collaborazione con la Pixar, ha recentemente scelto l’Italia del boom economico come luogo esotico per ambientarci Luca [2021, di Enrico Casarosa] e, forse, l’operazione di stilizzazione necessaria a realizzare un film d’animazione può aiutare a capire. 

Forse Michael Mann, Ridley Scott e Ron Howard nella loro rappresentazione dello Stivale zeppa di luoghi comuni non fanno nient’altro che quello che ha sempre fatto il cinema: semplificare la realtà, per raccontare qualcosa in più, o di diverso, della semplice descrizione della stessa. Per capirci: il western è un genere che utilizza una serie sconfinata di stereotipi –il cowboy, lo sceriffo, il bandito, gli indiani, i soldati, ecc. ecc.– e non è per nulla attendibile dal punto di vista storico. Il western classico ebbe il compito di fungere da epica degli Stati Uniti e, in questo senso, è davvero poco rispettoso della realtà, basti pensare all’utilizzo strumentale che fece della Monument Valley, paesaggio scenografico di grandissimo impatto ma usato sostanzialmente senza alcun rigore storico. Quello che salta fuori, da questa intuizione, è che, probabilmente, in Italia si è sottovalutato l’importanza del periodo che dagli anni Sessanta arriva forse fino ai Novanta: in mezzo ci furono i Settanta, i terribili anni di piombo, è vero, ma è in questi tempi che, nel mondo, si affermò il marchio Made in Italy e, forse ancor più, prese piede l’idea dell’Italian Style. Valentino, Gucci, Armani, Versace per la moda, Ferrari, Lamborghini, Maserati, per le auto, e, nell’ambito del bello e del buon gusto si potrebbe andare avanti ancora a lungo, sono nomi che rappresentano la massima espressione della cultura capitalista, e questo laboratorio di idee artistiche alla ricerca della bellezza, non furono gli Stati Uniti, la potenza dominante economicamente, e neppure il Regno Unito, che ancora si ergeva come baluardo dell’Ancien Regime, e neanche la Germania, che, nel frattempo, tornava prepotentemente alla ribalta sul piano industriale. Il luogo dove il mondo occidentale trovava ancora una volta la sua massima espressione artistica, era, come nel Rinascimento, l’Italia.
Ed Enzo Ferrari, con i suoi limiti di uomo, ne fu uno dei massimi artefici: il film di Mann, splendido, anche in questa chiave di lettura, è il degno tributo di Hollywood alla sua grandezza.  


Penelope Cruz 



Shailene  Woodley 


Sarah Gadon 





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