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venerdì 11 luglio 2025

MILLE PECCATI... NESSUNA VIRTU'

1696_MILLE PECCATI... NESSUNA VIRTU' , Italia 1969. Regia di Sergio Martino

Accanto ai paesi esotici, quelli ritenuti abitualmente emancipati erano quindi ormai entrati definitivamente nelle mire dei Mondo-movie: lì, evidentemente, la rivoluzione sessuale di quegli anni si era concretizzata in modo sfacciato e i cineasti degli pseudo-documentari, perlopiù italiani, dovettero esserne particolarmente colpiti. O, forse, scaltramente, colsero negli effetti di quel fenomeno un modo per continuare a fare del sensazionalismo a buon mercato, ma con l’alibi della morale costituita da difendere. In effetti, che un autore come si dimostrerà in seguito Sergio Martino, si erga nel suo esordio cinematografico ad araldo della morale suona quantomeno curioso.
Il film in questione è Mille peccati… nessuna virtù, un classico shockumentary che pescava i casi degni di interesse, morboso, beninteso – tra Svezia, Germania, Olanda, Regno Unito, Danimarca, insomma, in quel nord Europa ritenuto, già al tempo, all’avanguardia come emancipazione civile. Nel film, un termine che ricorre in modo insistito è «morale», messa in discussione tanto dai comportamenti disinibiti in ambito sessuale che in quello dell’uso degli stupefacenti, due aspetti che caratterizzavano allora le società nordeuropee. Come detto, a vedere oggi il film, salta all’occhio che a dirigerlo sia stato Sergio Martino che della morale costituita non sarà certo un paladino, nel proseguo della carriera. Ma, in quest’ottica, si può cogliere l’ipocrisia borghese che criticava tali libertà che le nuove generazioni andavano a prendersi. L’«uomo della strada», che incarna alla perfezione il punto di vista di questi pseudo-documentari, non difendeva la morale tradizionale per convinzione, ma perché, nella situazione precostituita, era in grado di infrangerla senza dare troppo nell’occhio, o comunque senza incorrere in una sorta di «scomunica» civile. Questo era vero in ottica complessiva: Jacopetti costituiva, con i suoi estremismi, l’eccezione. La capacità di andare di poco oltre il limite, pensandoci bene, fu proprio una caratteristica del cinema ‘di genere’ all’italiana, soprattutto nei gialli o nelle commedie sexy, di cui Martino fu uno dei migliori interpreti. La ricetta era, grosso modo, spingersi sempre vicino o al massimo poco oltre al limite concesso dalla morale comune, per solleticare la pruderie dello spettatore, sia in campo erotico delle commediole che della violenza dei thriller. Ma, per far questo, necessitava un limite, un confine del lecito consentito, che, invece, la rivoluzione sessantottina voleva abbattere e, nei paesi nordici, aveva praticamente abbattuto. Al tempo, Martino era un regista esordiente e, di conseguenza, semisconosciuto. Nonostante ciò, e prendendo quindi in esame solo Mille peccati… nessuna virtù, la critica colse già una certa ipocrisia nel suo film: “Con un lavoro di montaggio non troppo persuasivo, Sergio e Luciano Martino ci conducono per mano nel solito itinerario del vizio europeo. Non c’è nulla di nuovo in quel finto matrimonio tra anormali celebrato da uno spretato, in quella famiglia hippy dove tutti si drogano, in quelle feste per donne sole. In più abbiamo un commento che parla di decadenza, esalta l’amore, e biasima l’industria del «proibito» che attrae gli ingenui. Ma al regista non fischiano le orecchie?”. [P. Per., I peccati sono mille, Stampa Sera, anno 101 n. 286, 15, 16 dicembre 1969, pagina 9]. L’incoerenza indicata nella recensione è, ovviamente, legata al fatto che il regista, con il suo film, cercava di attrare gli spettatori proprio con quegli elementi che poi, nel commento, criticava severamente. Il che è innegabile, anche perché si tratta di una caratteristica non solo di Mille peccati… nessuna virtù ma di tutto il genere Mondo movie. Andando nello specifico del lungometraggio, Martino ha comunque delle intuizioni argute, che, a vederle oggi, sono sorprendenti. Ad esempio, quando si lamenta che le istituzioni sociali sconfinino arrivando nell’ambito dell’educazione famigliare –si fa l’esempio che ai genitori, in Svezia, fosse proibito dalla Legge dare perfino uno scappellotto ai propri figli– e, per quanto possa sembrare un passaggio qualunquista, è purtroppo divenuto oggi un problema concreto anche nei nostri lidi. E anche la lamentela per l’eccessiva esposizione ad immagini disinibite in ambito sessuale, cui erano sottoposti i minori nei paesi nordici –al netto del moralismo fastidioso che si avverte nel commento letto da Riccardo Cucciolla– non è affatto detto che sia del tutto campata in aria. Aspetti delicati e complessi che i Mondo movie affrontavano, onestamente, un po’ troppo a cuor leggero e, al contrario, in sede di critica cinematografica è meglio evitare. Ma a cui il beneficio del dubbio si può concedere anche perché l’ideologia rivoluzionaria, di cui nel film vediamo i primi frutti applicati in pratica, aveva quegli stessi sistemi dogmatici che criticava nella società tradizionale. Un problema che, negli anni, si è perfino radicalizzato.
Il film presenta una moltitudine di segmenti, di varia natura ma, grosso modo, tesi a contestare le nuove abitudini della generazione rivoluzionaria. Oltre all’accento su cui, scaltramente, si insiste per i costumi disinibiti, prevalentemente in ambito femminile, anche gli hippy e il loro sfacciato opportunismo, in genere taciuto dall’intellighenzia e dall’élite culturale, finiscono condannati dal severo moralismo della voce fuoricampo. Come accennato, ci sono degli spunti anche condivisibili ma, nel calderone imbastito da Sergio e Luciano Martino, è francamente difficile stabilire cosa davvero meriti. Piuttosto di può notare la spiccata attitudine del regista, che confermerà nei thriller successivi, alle allucinanti scene di riti satanici di sette clandestine e affini, in questo abilmente aiutato dalla musica psichedelica di Peppino De Luca. Verrebbe da dire con passaggi degni di un trip allucinogeno, ma, visto la ferma condanna del film all’uso degli stupefacenti, sembrerebbe voler evidenziare una contraddizione di troppo.  
 



           

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mercoledì 9 luglio 2025

IL PRIMO PREMIO SI CHIAMA IRENE

1695_IL PRIMO PIANO SI CHIAMA IRENE , Italia 1969. Regia di Renzo Ragazzi 

Se in Svezia inferno e paradiso Scattini osservava esplicitamente, già nel titolo, come la celebrata Svezia non fosse solo un «paradiso» ma anche un «inferno», Renzo Ragazzi non si discostò poi molto, almeno nella scelta del titolo. Il primo premio si chiama Irene fa riferimento alla protagonista di una sola parte del film: protagonista era Irene Grunschwitz, un’infermiera che aveva accettato da fare «ricompensa» per il vincitore di una particolare lotteria. Per quanto la notizia possa anche essere stata vera e singolare, nell’enfatizzazione dell’evento rispetto ad un documentario che abbraccia tutta quanto la vita sociale danese, si può leggere un po’ del moralismo che, ogni tanto, riecheggia nel commento. In alcuni casi, per la verità, non si può che convenire con le critiche alla freddezza tipicamente nordica che spedisce gli anziani nelle case di riposo senza troppi convenevoli. Anche il tema dell’infanzia nei cosiddetti collettivi famigliari è un argomento su cui le perplessità manifestate dal film di Ragazzi sono condivisibili, e, seppure la «voce over» in quei frangenti possa sembrare bigotta, anche il tema della pornografia lasciata in bella mostra ai minori è un percorso scivoloso. Tuttavia, questi temi, come del resto la vocazione nudista dei danesi e, soprattutto, delle danesi, oppure le unioni omossessuali, seppur occupino uno spazio considerevole nel film di Ragazzi, non scadono mai nel tipico sensazionalismo dei Sexy mondo. Tant’è che se non fosse per la generale impostazione, per un’attenzione un po’ morbosa all’argomento sessuale e per la contingenza con gli altri Mondo movie focalizzati sui paesi culturalmente evoluti, si potrebbe anche lasciare Il primo premio si chiama Irene fuori dal genere in oggetto di questo studio. Alcuni passaggi, come la rievocazione moderna dell’Amleto di William Shakespeare, sono affascinanti, così come le osservazioni su come lo scrittore inglese abbia scelto con grande acume di ambientare proprio a Copenaghen quella sua tragedia. Interessante è anche il passaggio sulla figura triste della Sirenetta, che per incontrare il principe di cui è innamorata perse la voce, e in generale Hans Christian Andersen, citato in un paio di occasioni, offre buoni spunti. Non sono certo analisi approfondite, ma questo non è richiesto ad un documentario generico e divulgativo: tuttavia alcuni dettagli sono segnalati in modo opportuno, ad esempio il mutismo della povera Sirenetta che non potrà dichiarare il suo amore al principe, a rappresentare una certa «chiusura» del popolo danese. Il quadro generale, poi, non è affatto negativo: c’è una certa difficoltà, da parte di un autore latino come Ragazzi, ad accettare alcuni comportamenti tipici dei popoli nordeuropei, e questo è naturale. A questo aspetto va aggiunta l’insistenza sui temi piccanti da parte del regista che va in risonanza con l’eccessiva disinvoltura su argomenti delicati degli scandinavi. Il tutto va poi condito con la spropositata fiducia nel progresso e la solerte attività regolamentatrice del popolo danese. Tutti questi elementi concorrono a creare un clima non troppo entusiastico nei confronti della Danimarca, di cui pure, in numerosi passaggi, vengono ribaditi i meriti civili e sociali. Ma per un italiano di fine anni Sessanta, la famiglia, rimaneva sempre la famiglia e i figli ne erano il cemento: l’interessante chiusa, con protagonista la cicogna, è la conferma di quest’impressione. “Un tempo le cicogne erano il simbolo della Danimarca. L’uccello migratore che veniva dai lontani paesi del sud, simboleggiava l’ansia d’infinito dei danesi, ma è anche l’emblema della fecondità, della quieta serenità di un popolo di agricoltori. Le cicogne venivano chiamate confidenzialmente col nome di Peter, facevano parte della vita quotidiana, del folklore. Andersen le aveva scelte come protagoniste di molte favole. In Danimarca le cicogne si sono fatte ormai molto rare; evidentemente, non è più tempo di favole. Perché in Danimarca le cicogne sono quasi completamente scomparse? abbiamo domandato. E ci hanno risposto: perché le nostre donne, prendono ormai tutte la pillola”.
Una battuta con cui Ragazzi poteva anche chiudere la sua indagine sul paese scandinavo ma, in realtà, lo sguardo del cineasta, pur se rivolto a nord, era più introspettivo di quel che si potrebbe pensare. Il commento continuava così: “Proprio perché le cicogne sono ormai rarissime, con precisione tipicamente danese, il Parlamento, nel 1960 ha votato una legge in base alla quale il nuovo uccello che simboleggia la Danimarca è ora l’allodola, l’uccello solitario, dal canto colmo d’angoscia, l’uccello che annuncia il mattino. Il mattino di un mondo nuovo: la società danese, la società scandinava. Ma sarà il mattino di un mondo nuovo anche per noi, che siamo tanto diversi dagli scandinavi? Forse, le allodole danesi, cantano anche per noi”.    

           

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lunedì 7 luglio 2025

SINS - PECCATI

1694_SINS - PECCATI (Sins), Stati Uniti 1986. Regia di Douglas Hickox

Mentre era ancora impegnata con Dynasty, Joan Collins cercò di sfruttare il momento propizio per fare qualcosa di diverso, in modo da non venire del tutto identificata con il personaggio di Alexis, effettivamente non semplice da «portare» per un tempo prolungato. Ma Joan non voleva rinnegare l’ambiente in cui si muoveva la Colby, e nel quale si trovava perfettamente a suo agio: amava il lusso degli anni Ottanta, e riteneva di poter interpretare un altro personaggio determinato e in grado di avere successo senza per questo essere scorretto quanto lo era Alexis. Per ottenere questo scopo, la Collins divenne addirittura produttrice, insieme al marito dell’epoca, lo svedese Peter Holm: il primo risultato fu Peccati, una miniserie dalla complessiva durata di 5 ore abbondanti. Sins, questo il titolo originale, pur essendo un prodotto televisivo tutto sommato anche simile, presentava almeno una notevole differenza rispetto a Dynasty, avendo una durata circoscritta. Per quanto i 320 minuti costituissero una discreta quantità di tempo per raccontare una vicenda, Peccati copriva un arco narrativo enorme, partendo dalla Seconda Guerra Mondiale fino ad arrivare agli al tempo odierni anni Ottanta. I colpi di scena clamorosi non mancano nemmeno in questa nuova produzione ma, a differenza che nelle Soap Opera, qui non sono svolte narrative che aprono di volta in volta nuovi scenari ma, piuttosto, servono a convogliare le trame ad un punto prefissato. Sotto questo aspetto, per la verità, il lavoro di Nicholas Bienes e Rhea Gallagher (con lo pseudonimo di Judith Gould), autori del romanzo omonimo, lascia un po’ a desiderare, al netto del sensazionalismo narrativo che contraddistingue il soggetto. Joan Collins interpreta Hélène Junot, una volitiva donna francese, dal passato tragico ma in grado di risalire la china fino a divenire una imprenditrice di successo nella rampantissima New York degli anni Ottanta. Per comprendere il tenore enfatico del racconto, che si presenta come una storia ambientata nel mondo della moda e del glamour dei Fabulous Eighties, basti prendere il passaggio in cui i nazisti, capitanati dal sadico ufficiale von Eiderfeld (Steven Berkoff), si accaniscono contro la famiglia Junot. La madre, una patriota francese, nonostante fosse incinta viene barbaramente uccisa, Hélèn, al tempo una giovinetta, violentata, il fratello e la sorellina mandati ai campi di concentramento. La Collins, che subentra nella cronologia quando la protagonista è divenuta una giovane donna, approfitta della lunghezza del tempo del racconto per sfoggiare un’impressionante guardaroba: pare che si arrivi a 85 vestiti indossati dall’attrice, molti dei quali disegnati dal famoso stilista Valentino. Va detto che Joan è particolarmente adatta alla moda degli anni Ottanta, per quanto non si può negare una evidente deriva kitsch che inebria un po’ tutto quanto. Anche il fatto che l’attrice, al tempo cinquantatreenne, vada a interpretare la Hélène di oltre vent’anni più giovane, in termini di credibilità è un azzardo rischioso, nonostante la bellezza della Collins fosse ancora abbagliante. Insomma, Peccati può senz’altro appassionare lo spettatore in cerca di emozioni forti a buon mercato, ma lo stile degli anni Ottanta, che Joan Collins qui interpreta in maniera assoluta, può risultare stucchevole. 







sabato 5 luglio 2025

LE PICCANTI AVVENTURE DI TOM JONES

1693_LE PICCANTI AVVENTURE DI TOM JONES (The Badwy Adventures of Tom Jones), Regno Unito 1976. Regia di Cliff Owen

In sé, Le piccanti avventure di Tom Jones è uno scollacciato e divertente film in costume che racconta in tono picaresco le disavventure del protagonista, il Tom Jones (Nicky Henson) citato nel titolo. In questo senso, le peripezie di questo giovanotto dalle presunte umili origini, che si trova a rivaleggiare con il coetaneo e aristocratico Bliffil (Murray Mervyn), rappresentano un tipico passatempo cinematografico degli anni Settanta. Un’epoca in cui evocare i contenuti sessuali era un elemento sufficiente a suscitare l’interesse del pubblico delle sale cinematografiche. Non ci sono, infatti, scene particolarmente spinte ne Le piccanti avventure di Tom Jones; del resto il testo all’origine, Tom Jones [nell’originale The history of Tom Jones, a Foundling] è un romanzo di Henry Fielding del 1749. Grosso modo, il senso del racconto originale è rispettato e il tema è un classico della cultura europea, ovvero quello del protagonista dalle umili origini. Se a prima vista questo argomento sembra veicolare un messaggio progressista, non lo è mai fino in fondo, e rischia piuttosto di essere una conferma delle convinzioni più reazionarie. Infatti, puntualmente anche in Tom Jones, dopo che il protagonista si è fatto valere pur non avendo un pedigree che ne certifichi il valore preventivamente –leggi un titolo nobiliare– si scopre che il Nostro, in realtà, è un rappresentante dell’aristocrazia. Il che è un clamoroso autogol, almeno in chiave di riscatto sociale, perché è come dire che se non si ha il sangue blu non sia possibile elevarsi dalla massa. Ovviamente questa non è una critica specifica nei confronti di Henry Fielding, l’autore del romanzo, mentre qualche dubbio, forse, il regista di Le piccanti avventure di Tom Jones, Cliff Owen, se lo poteva anche porre, visto i secoli passati. Tuttavia è evidente che, nella cultura e tradizione europea –a partire dei testi sacri, si pensi alle origini nobili di Gesù Cristo– questa sia sostanzialmente sempre stata l’impostazione di questo genere di racconti. Saranno gli americani –e ci sono splendidi esempi nel cinema, come i film di Frank Capra Mr. Smith va a Washington o Arriva John Doe– che metteranno l’uomo qualunque al centro del loro racconto, senza alcuna dietrologia riguardo alle sue origini. Tuttavia, nonostante questa impostazione un po’ datata del suo film, Cliff Owen e i suoi sceneggiatori hanno almeno un merito originale nella realizzazione de Le piccanti avventure di Tom Jones: ovvero l’inserimento del personaggio di Black Bess nel copione. Stando ai resoconti, Black Bess era il nome del cavallo del celebre brigante inglese Dick Turpin, un bandito vissuto agli inizi del XVIII secolo e famoso per le rapine ai convogli lungo le strade di periferia, oltre che una serie di altri svariati crimini. 

Dopo la sua esecuzione avvenuta a York nel 1739, Turpin accrebbe la sua popolarità fino a divenire una leggenda grazie alle ballate e al teatro popolare del XVIII secolo e all’opera letteraria Black Bess, The Knight of the road, in genere attribuita a Edward Viles, uscita nel secolo successivo. Nel XX secolo fu la volta del cinema ad occuparsi delle gesta di Dick Turpin con i corti di inizio secolo e i primi lungometraggi degli anni Venti ma, probabilmente, la più iconica e affascinante versione del tipico brigante da strada inglese sarebbe arrivata grazie ai videoclip musicali, agli inizi degli anni 80. Il video di Stand and Deliver, il singolo degli Adam and the Ants uscito nel 1981 e in grado di arrivare al numero 1 della classifica britannica, presenta un protagonista, Adam Ant (al secolo Stuart Leslie Goddard), nelle vesti di un bandito dandy che diverrà una delle figure più influenti, sebbene forse meno note ai più, dell’epoca. Adam Ant, all’apice del successo, fu convocato perfino dalla regina Elisabetta II, mentre si può vedere parte della sua iconica eredità nel personaggio di Jack Sparrow interpretato da Johnny Deep nella saga dei Pirati dei Caraibi, che spopolò a livello mondiale nei primi anni del terzo millennio. La figura di Adam Ant, soprattutto in Stand and Deliver, è davvero formidabile e, sebbene il suo “Stand and deliver: your money or your life!” [Traduzione Alzati e consegna: i tuoi soldi o la tua vita!] fosse la tipica espressione in voga presso i briganti di strada dell’Inghilterra del XIX secolo, paiono evidenti i rimandi al Black Bess di Le piccanti avventure di Tom Jones. L’aspetto più rilevante, di tutta quanta questa vicenda, è l’ambiguità sessuale di fondo, nel senso che il personaggio alimenta il mistero che lo circonda anche sotto questo profilo. 

Del resto Adam Ant utilizzava un pesante make-up che, in parte, si rifaceva alla moda dell’epoca rievocata nel video ma cavalcava anche l’onda promiscua del suo tempo contemporaneo.  Del resto perfino Johnny Depp, Ne I Pirati dei Caraibi, non può certo essere preso per campione di virile brutalità con i suoi occhi truccati e il suo modo di fare. Non si tratta di un equivocare sulla propria sessualità in modo deciso o esplicito, e il successo con il gentil sesso sia di Adam Ant che di Johnny Depp elimina ogni dubbio in proposito. Piuttosto, c’è la consapevolezza che alcuni confini ormai codificati da anni di conformismo sessuale non corrispondano al vero fascino dell’attrazione. In questo senso, è emblematico che la figura di Black Bess ne Le piccanti avventure di Tom Jones, ovvero quella ha originato questa nuova versione del bandito dandy, sia interpretata da una donna: Joan Collins. La scena che introduce nella storia la favolosa Joan è la tipica rapina alla diligenza dell’epoca, in pratica quella del citato video Stand and Deliver, con alcune allusioni sessuali che sono gestite con la consueta classe e nonchalance dall’attrice inglese. Joan Collins nei panni di Black Bess ha un ruolo secondario, nel film, eppure è di gran lunga il personaggio più memorabile: la bellezza dell’attrice è alimentata dai costumi che ne esaltano il fascino grazie ad alcuni richiami fetish e s/m. Il suo destreggiarsi con la pistola o la spada, con cui sconfigge i due uomini della diligenza, nonché la sua intraprendenza che mette ripetutamente alle corde il protagonista, sono il rovesciamento di molti cliché classici di quell’epoca in cui le dame erano tipicamente in pericolo in attesa del cavaliere che arrivasse a salvarle. Joan mostra come una donna possa essere tanto damigella che cavaliere ed esserlo nello stesso tempo, mantenendo intatta la femminilità senza per questo dover rinunciare all’autonomia. Insomma, il film è divertente, si è detto; Joan Collins, nei panni di Black Bess, assolutamente imperdibile.       


    

 Joan Collins 





giovedì 3 luglio 2025

GRAN BOLLITO

1692_GRAN BOLLITO, Italia 1977. Regia di Mauro Bolognini 

La didascalia iniziale confessa che l’ispirazione per il film siano stati alcuni fatti avvenuti in America, Egitto e Italia: si tratta forse di un tentativo di smarcare Gran bollito da una mera rappresentazione degli omicidi legati alla «saponificatrice di Collegno»? Forse sì, anche perché il dubbio che pone la visione del film del 1977 è di stretta natura cinematografica ma al tempo stesso legato all’argomento trattato: per quale motivo il regista Mauro Bolognini ha scelto un registro tanto grottesco per immergervi una vicenda tanto tragica? Pur nella loro scarsa razionalità, nella loro scarsa comprensione razionale, i brutali e bizzarri omicidi attribuiti a Leonarda Cianciulli (nel film, un’intensa Shelley Winters è Lea) sono un argomento serio e terribile. Certo, nel 1977, dai delitti di Collegno erano passati quasi quarant’anni e poi Bolognini ha, come registro stilistico, una capacità autoriale che gli permette di trattare qualsiasi argomento con il distacco artistico adeguato. Gran Bollito, insomma, non è assolutamente irriverente per le tre povere vittime, finite nelle saponette di Lea, anche nel caso il rimando, come appare evidente, sia alle tre donne della vicenda reale. Tuttavia non può non destare un certo stupore scoprire che per interpretare queste tre donne sole che la saponificatrice scelse astutamente come vittime, nel film chiamate Lisa, Stella e Berta, Bolognini abbia arruolato nell’ordine Max von Sydow, Renato Pozzetto e Alberto Lionello. Che sono tre uomini, come è evidente, e recitano nei ruoli delle vittime «en travesti» senza che nessuno, nel film, se ne accorga o adombri anche solo una perplessità in merito. Che poi, già la composizione del cast è del tutto spiazzante: la Winters, attempata ma comunque una star di Hollywood, von Sydow, icona del cinema di Ingmar Berman, Pozzetto, comico del cabaret televisivo, Lionello, attore a tutto tondo tra teatro, TV e cinema, e poi ancora Milena Vukotic (è Tina), Mario Scaccia (Rosario), Rita Tushingham (Maria) e si potrebbe continuare a lungo, concludendo necessariamente con Laura Antonelli (Sandra), figura che non passa inosservata oggi e figuriamoci al tempo. Rifacendosi sempre alla citata didascalia iniziale, Bolognini afferma che non sono da ricercare spiegazioni psicoanalitiche o sociali, che il mistero riguarda la follia collettiva e non individuale. In conclusione, fa un’equivalenza tra questi delitti e i tanti di cui l’umanità ha disseminato la Storia, dimenticandosene sempre velocemente. 

La mancanza di senso che il regista prova ad attribuire alla vicenda, può essere rappresentata dalla presenza di Renato Pozzetto, maestro del nonsense lombardo, a cui è infatti è affidato anche un importante ruolo nel concretizzare, con le sue buffe performance, le canzoni di Enzo Jannacci, altro nome tutelare della comicità surreal-demenziale meneghina. Il buon Renato dà il meglio di sé nell’interpretazioni canterine, ma il vederlo affiancato a due attori dal registro tanto diverso, almeno stando alle rispettive carriere, sembra appunto voler dire che non conta se sei un comico della televisione o l’attore preferito da Bergman, perché comunque nelle saponette devi finire. E lo stesso si potrebbe quindi dire anche per Mina, coinvolta nella colonna sonora insieme a Jannacci e Pozzetto, e che, con la sua Vita vita che accompagna titoli di testa e di coda, sembra calarci nel tempo e nell’atmosfera potenzialmente straziante della vicenda. Ma il suo sentito contributo vale tanto quanto le canzonette surreali di Jannacci e Pozzetto. La battuta conclusiva del film è lasciata significativamente a Lea che, mentre sente la folla gridarle “mostro!”, si volta stupita e chiede: “Chi, io? Ma siete pazzi!?”. Il film si chiude sulla sua replica e questo ha necessariamente un significato, quasi che Bolognini rovesci il punto di vista consueto e attribuisca la pazzia non al singolo deviato, l’assassino di turno, ma alla collettività. Del resto è lo stesso concetto espresso dalla didascalia iniziale. Tra l’altro, stando alle cronache, Leonarda Cianciulli sostenne di aver compiuto gli omicidi come sacrifici magici per avere in cambio la salvezza dell’amato figlio. Il timore era legato all’incombente Seconda Guerra Mondiale, un massacro su larga scala che anche il film di Bolognini sembra mettere in rapporto con gli omicidi di Lea, cogliendo lo spunto nel memoriale scritto dalla saponificatrice di Collegno. In realtà, benché sempre di macelleria gratuita si tratti, questa assimilazione è quantomeno discutibile. L’intento provocatorio del regista è evidente, e il nocciolo della questione sembra essere che sia quantomeno ipocrita che Lea sia definita «mostro» quando è solo una povera donna ignorante, e sia invece tollerato quando non giustificato un abominio come la guerra. Ora, la guerra è inaccettabile sempre e comunque e questo è un dato di fatto; tuttavia porre sullo stesso piano, o quantomeno paragonare, l’indifferenza borghese, nel senso dell’individuo che guarda solo il proprio orticello e che permette o tollera la guerra, a chi decide di armare la propria mano è un’operazione da rigettare assolutamente, anche quando la si veni di grottesco. 

Non è forse un caso che il film sia del 1977, ovvero l’apice degli «anni di piombo», quando la lotta armata era legittimata dall’intellighenzia del Paese, visto che combatteva il «Sistema». Bolognini utilizza un registro sfumato, ma il senso del suo discorso è pesante e militante: la condanna al sistema borghese, che ricorre senza alcuno scrupolo alla guerra per tutelare i propri interessi, si può leggere anche nella scelta dei tre attori travestiti. Lisa, Stella e Berta sono donne che non possono procreare –questo nella messa in scena filmica è più che evidente, essendo uomini– e possono benissimo essere sacrificate. I tre attori tornano poi per fugaci camei in cui interpretano tre ruoli di potere, il banchiere, il maresciallo, il carabiniere, quasi a confermare la differenza che c’è, nel sistema borghese, tra nascere donna o nascere uomo. Lo stesso individuo è sacrificabile in un caso mentre assume importanza nell’altro, semplicemente in base al sesso di appartenenza. E questo forse il senso della frase finale? Può essere definita «mostro» la povera Lea, quando non vengono considerati tali quegli uomini responsabili della guerra? È lo stesso meccanismo della protesta armata che combatteva armi in pugno uno Stato che, poi è effettivamente stato dimostrato, non giocava pulito. In sintesi: se lo Stato utilizza la forza anche io che mi oppongo devo farlo. Lea, per evitare che suo figlio morisse in guerra, sacrificò tre donne innocenti, che possono essere paragonate ai poliziotti che facevano la scorta ad Aldo Moro, per esempio. È una logica accettabile? Solo nell’ottica dello scontro, della guerra. E, allora, ecco qual è lo scopo di togliere il senso, le responsabilità individuali, della didascalia iniziale, legittimare la guerra al Sistema. Legittimare la guerra.
È un film fatto bene, Gran bollito, confezione d’autore.
Ma al di là di questo, non tanto bene, purtroppo.
          










martedì 1 luglio 2025

MASTRO DON GESUALDO

1691_MASTRO DON GESUALDO , Italia 1964. Regia di Giacomo Vaccari

Il regista Giacomo Vaccari non ha una filmografia particolarmente corposa: una trentina scarsa di titoli per la televisione, perlopiù assai difficili da reperire. In compenso, i pochi film ancora disponibili per la visioni sono molto interessanti, come nel caso de Il club dei suicidi (1957), tratto da Robert Louis Stevenson o L’idiota (1959), da Fëdor Dostoevskij. Purtroppo, pare che La Pisana (1964), sceneggiato ispirato a Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, sia andato perduto. In ogni caso, rimane reperibile quello che forse è il suo capolavoro: Mastro don Gesualdo, tratto dal sostanzialmente omonimo romanzo di Giovanni Verga. Lo sceneggiato venne trasmesso dal Secondo Programma della Rai nel 1964, quando lo sfortunato regista era già morto da un anno. L’opera detiene un paio di curiosità che possono essere utili a tratteggiarne alcune caratteristiche: è il primo sceneggiato ad essere impresso su pellicola cinematografica, ed è anche il primo inedito trasmesso dalla seconda rete Rai, che fino allora aveva mandato in onda solo repliche. Il che è un record quantomeno insolito: perché essere relegato sul «secondo» non può certo essere un vanto per l’opera in questione, in quanto il Nazionale, l’odierna Rai Uno, era anche più di oggi considerata universalmente l’ammiraglia dell’emittente di stato. Se consideriamo l’enorme sforzo produttivo di Mastro don Gesualdo, sia per l’uso della pellicola, ma anche per l’accuratezza delle ricostruzioni e della scelta delle location, per l’attenzione al linguaggio, ai passaggi della trama, la cosa desta un po’ di stupore. Tra gli attori, che dire poi di Enrico Maria Salerno, che per incarnare il protagonista dà corpo ad una prestazione di assoluto rilievo, riempendo lo schermo con la sua verve interpretativa. Benissimo poi anche Lydia Alfonsi, triste e dolente Bianca Trao, la moglie nobile presa da Mastro Gesualdo per provare, vanamente, ad agganciarsi alla nobiltà; ma tutto il cast è di ottimo livello, a partire da Sergio Tofano e Romolo Costa, nei panni degli stralunati fratelli Trao, personaggi caricaturali ed emblematici della vetusta e decadente nobiltà siciliana dell’epoca. 

Nonostante la ricchezza anche numerica del cast e una presenza ingombrante come quella di Salerno, Vaccari riesce a mettere in primo piano il contesto, per un risultato in cui, nonostante la verve di quello che è il protagonista assoluto della vicenda, a rimanere nella memoria è l’affresco generale. Un’operazione clamorosamente ben riuscita, perché la mano in regia di Vaccari è autorevole, e forse in questo senso è da pensare la scelta della pellicola in luogo dei tradizionali sistemi audiovisivi: il capolavoro di Verga trova quindi degna rappresentazione sullo schermo. Scrisse, in proposito, Aldo Grasso: “Vaccari firma il suo capolavoro, scardinando le regole linguistiche che fino allora avevano informato i teleromanzi, consuetudini ereditate dalla tradizione teatrale e tradotte in norme televisive tese a facilitare la sicura comprensione da parte del pubblico della vicenda raccontata. (…) Vaccari utilizza in parte il dialetto e riproduce i quadri corali di Verga attraverso il sovrapporsi di voci chiassose; anche queste scelte ribadiscono il rifiuto dell'impostazione pedagogica a vantaggio di un deciso accostamento alla sensibilità e alle suggestioni cinematografiche». [
dal blog di Silvia Iannello, pagina web https://silvia-iannello.blogspot.com/2013/06/giacomo-vaccari-e-i-grandi-sceneggiati.html, visitata l’ultima volta il 15 giugno 2025]. Ma, anche grazie a questo lavoro di attualizzazione, i temi del maestro siciliano risaltarono nitidamente, proprio quando stavano probabilmente divenendo davvero attuali, in quel 1964, dal momento che si può tranquillamente dire che per l’epoca di pubblicazione del romanzo fossero in anticipo. Ovviamente tali spunti erano presenti già ai tempi, al punto che un genio come Verga poté appunto coglierli, ma solo con il noto «miracolo italiano» la scalata sociale, l’individualismo materiale, l’ossessione per la ricchezza –la celebre «roba» verghiana– contageranno in modo diretto o indiretto grosso modo chiunque nel Belpaese, senza fare prigionieri. Verga non difendeva, come si evince splendidamente proprio da Mastro don Gesualdo – il sistema in vigore in precedenza, con la ferrea divisione in classi sociali, ma stigmatizza anche il nuovo corso sociale che propone come ricetta per superarlo l’arrivismo senza scrupoli. Un avvertimento inascoltato.  


domenica 29 giugno 2025

LA PISANA

1690_LA PISANA , Italia 1960. Regia di Giacomo Vaccari

Questo interessante sceneggiato di Giacomo Vaccari è andato distrutto in un incendio e non ne rimane che un frammento. Tuttavia, stante la scarsità di opere riconducibili a Vaccari, vale la pena approfondire un minimo un serial televisivo che, stando a quanto si può intuire, era davvero di pregevole fattura. La Pisana è tratto da Le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo e, secondo Aldo Grasso è una felice trasposizione televisiva del romanzo: “La voce fuori campo del protagonista, che rivive il suo appassionato amore adolescenziale, ripropone la limpida prosa di Nievo, alternando le vicende sentimentali a quelle patriottiche. (…) Vaccari, impegnato in una delle sue prime prove, dimostra grande abilità nel tratteggiare le scene con pochi e sapienti tocchi.» [dal blog di Silvia Iannello, pagina web https://silvia-iannello.blogspot.com/2013/06/giacomo-vaccari-e-i-grandi-sceneggiati.html, visitata l’ultima volta il 15 giugno 2025]. Aldo Nicolaj, che curò la sceneggiatura insieme a Marcello Sartarelli, descrisse sulla pagine del Radiocorriere l’attenzione con cui si adattarono le pagine di Nievo: “Crediamo di non aver mai tradito il Nievo, in quanto abbiamo sempre preso dalle pagine del suo romanzo lo spunto e l’ispirazione per rendere più accessibile al grande pubblico quest’opera (…) Molti erano i modi di affrontare la riduzione: noi abbiamo preferito penetrare nel vivo del romanzo attraverso lo stesso racconto del protagonista, che consente di far arrivare al pubblico – quando la narrazione lo permette – l’armoniosa prosa del Nievo. Attraverso la voce del protagonista, rivivrà così l’appassionata storia d’amore tra la Pisana (Lydia Alfonsi) e Carlino (Giulio Bosetti), sullo sfondo storico della vita italiana negli anni che vanno dalla Rivoluzione Francese alla morte di Napoleone. (…) Logicamente, nello sceneggiato, così come nelle pagine di Nievo, la storia d’amore tra la Pisana e Carlino non è fine a sé stessa, ma costituisce un pretesto romantico per raccontare com’è stata dura e sanguinosa la nostra Storia negli anni prerisorgimentali, quando pochi uomini, col loro sacrificio, hanno preparato l’avvenire dell’Italia”. [Aldo Nicolaj, La Pisana, Radiocorriere Tv, n. 43, 1960, pag. 43]. E, leggendo queste parole, il rimpianto per l’impossibilità di una visione completa dell’opera, non può che aumentare.