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sabato 19 aprile 2025

EUROMAIDAN: ROUGH CUT

1655_EUROMAIDAN: ROUGH CUT . Ucraina, 2014. Regia di autori vari

Proiettato al Festival Internazionale del Film Documentario dei Diritti umani di Kyiv quasi immediatamente dopo la chiusura delle proteste di Piazza Indipendenza, Euromaidan – Rough Cut è il frutto di un lavoro collettivo direttamente dal campo di battaglia –è proprio il caso di dirlo– da parte di dieci giovani registi ucraini. Il titolo dell’opera, oltre a far riferimento al nome con cui è altrimenti nota la Rivoluzione della Dignità Ucraina, lascia intendere che il film sia un prodotto grezzo, privo di un vero e proprio montaggio definitivo. In effetti l’impressione che lascia Euromaidan – Rough Cut è un po’ quella ma, sembra evidente anche dalle tempistiche ravvicinate tra eventi e presentazione dell’opera al citato Festival, è probabilmente una sorta di effetto collaterale quasi ricercato dagli autori. Ai quali non interessa presentare un prodotto raffinato quanto piuttosto un resoconto brutale dei fatti tanto quanto furono brutali gli scontri di piazza.

Le scene –realizzate, tra gli altri, da Roman Bondarchuk, Roman Liubyl e Volodymyr Tykhyy– sono prese direttamente dal cuore degli scontri, filmando la terribile escalation della violenza. Come detto, il montaggio di Bondarchuk assembla sommariamente i vari filmati e l’impatto violento delle immagini finisce per travolgere anche lo spettatore che può sperare di raccapezzarsi solamente grazie all’ausilio delle didascalie.

Naturalmente il coraggio e la volontà del collettivo di registi è da plaudire, senza se e senza ma, tuttavia va tenuto conto che si tratta di una tipica produzione militante. Del resto, il timore era che le autorità potessero insabbiare i fatti o comunque darne una lettura distorta a piacimento. Poi, visto come sono andate le cose, con la fuga del presidente Janukovyč e il cambio al potere a Kyiv, e il pericolo è stato scongiurato.

Tuttavia rimangono i punti di vista contrapposti: secondo i nazionalisti Euromaidan è stata una rivoluzione, secondo i filorussi un colpo di stato. Se dare velocemente notizia di quanto accaduto, sostituendo o affiancando i media delegati abitualmente all’informazione d’attualità, era lo scopo di Euromaidan – Rough Cut, la missione è compiuta. Per lo spettatore il film è altresì utile come strumento per farsi un’opinione sebbene vada tenuto bene a mente che, proprio per il suo essere palesemente schierato, per quanto sia un’opera che arrivi dal cuore vivo dei fatti, da solo non è sufficiente. Tuttavia questo non è affatto un limite perché, per comprendere bene qualcosa, occorrono più punti di osservazione diversi tra loro. Per i fatti di Piazza Indipendenza Euromaidan – Rough Cut è certamente uno di questi. 





giovedì 17 aprile 2025

ACID - DELIRIO DEI SENSI

1654_ACID - DELIRIO DEI SENSI . Italia, 1968. Regia di Giuseppe Scotese 

Secondo lo stesso Scotese, Acid – Delirio dei sensi fu il primo lungometraggio europeo ad occuparsi di questo potente stupefacente, e il film ebbe anche delle noie con un’interpellanza parlamentare. A detta del regista, secondo questi esponenti politici italiani, il film rischiava unicamente di fare una inutile e dannosa pubblicità ad un fenomeno che, al momento, non era presente nel nostro paese e nemmeno sarebbe mai sorto. Il film venne bocciato anche dalla censura, almeno in prima istanza. Scotese, rilasciò un’ampia dichiarazione per giustificare il proprio operato, svolto “con la collaborazione di scienziati di notorietà mondiale” [La censura boccia (in prima istanza) «Acid – Delirio dei sensi», L’Unità, domenica 17 dicembre 1967, pagina 6]. Tra questi studiosi, spicca il nome di Albert Hofmann, il chimico che per primo sintetizzò e sperimentò –su sé stesso– l’LSD [dall’intervista pubblicata su: Daniele Aramu, Apocalisse domani, Nocturno Book nr.9 – Mondorama, Nocturno Edizioni, Milano, pagina 30]. Tuttavia il risultato finale, almeno artisticamente, non fu all’altezza delle aspettative, con un montaggio che lascia più di qualche perplessità e con Scotese stesso che definì il film, in seguito, lapidariamente, “un aborto!” [Ibidem].
Scotese, tuttavia, godeva di una stampa non particolarmente ostile, almeno se paragonata ad altri autori di Mondo movie. Movimento «hippy», marijuana, LSD, diventano materia di film anche per noi. Dopo Il sesso degli angeli ed Escalation, ecco Acid – delirio dei sensi del regista Giuseppe Scotese (di cui è annunciato un documentario-inchiesta sulla fame del mondo, Il pane amaro), che tratta del problema degli allucinogeni in America con tono obiettivo, ispirandosi ai risultati d’un reportage condotto dalla televisione di New York negli ambienti dei trafficanti e dei consumatori. La ricostruzione, autentica per quanto riguarda gli «esterni», è viceversa più o meno inventata nei suoi episodi esemplificativi, dalla somma dei quali dovrebbe uscire (ma è difficile giungere a tanto sullo schermo) una spiegazione insieme fisiologica e sociologica dell’inquietante fenomeno. In effetti i «casi» raccontati dal film sfumano nel generico di un’«inquietudine» e di una correlativa «evasione» quali ci son state sempre: l’esempio della scrittrice che per dimenticare il suo infelice amore per un negro (infelice non per motivi razzistici) prende la droga, sa troppo di romanzo perché possa inquadrarsi nell’attualità del problema. Anche negli altri esempi, come quello dell’idillio della giovane giornalista col gangster, la buona intenzione di spiegare l’uso della droga come una rivolta contro la civiltà del benessere materiale, si perde nel frastaglio psicologico di un fatto privato. Meglio è riuscito il film nel tentativo di rivelarci il segreto della droga in sé, ossia di rappresentare attraverso le immagini quello che prova un consumatore di allucinogeni. Anche qui restiamo nell’approssimazione (e non così avanzata e geniale quale si ebbe in Chappaqua del giovane Conrad Rooks); ma il ricorso a filtri colorati e alla sdoppiatura e frantumazione delle immagini, non si risolve sempre in mero tecnicismo, apre qualche spiraglio attraverso il promesso «delirio dei sensi». Come non si potrebbe dubitare dell'impegno «civile» con cui il regista ha trattato il tema, serietà che spicca soprattutto nell'incorniciatura documentaria delle sequenze girate dal vero e delle interviste con medici e psichiatri. Janet Tillet, Annabella Andreoli, Stephen Forsyth, gli interpreti” [l.p., Gli allucinogeni in America, La Stampa, anno 102, nr.90, domenica 14 aprile 1968, pagina 9]. 

La recensione risulta, ad essere onesti, persino troppo lusinghiera, per il volonteroso ma irrisolto film di Scotese. Così come anche questa: Incerto nel tono, tra documentaristico e romanzesco, Acid – Delirio dei sensi annoda diverse storie di giovani americani dediti all'uso dello LSD: tutte, bisogna dirlo, a fine non lieto, benché i medici intervistati all’inizio del film si dimostrino piuttosto cauti nel valutare eli effetti del fenomeno, largamente diffuso oltre Oceano (si calcolano a due milioni i nuovi tossicomani). Giuseppe Scotese, il regista, ci aveva dato anni or sono una pregevole inchiesta cinematografica, Le città proibite, e ne ha pronta un’altra eccellente, Il pane amaro, sul problema della fame nel mondo. Con Acid – Delirio dei sensi egli ha fatto un passo falso, e ce ne dispiace, perché il punto di partenza non mancava d'interesse. Ma la ricostruzione «in studio» di vicende pur forse desunte dalla realtà, e un atteggiamento genericamente moralistico, infirmano in grave misura la qualità del risultato. Tra gli attori professionisti, si salva forse la nostra Annabella Andreoli. che ha un viso sensibile ed espressivo” [Acid – Delirio dei sensi, L’Unità, domenica 28 aprile 1968, pagina 16]. In effetti, se l’idea alla base poteva anche essere valida, la scelta della massiccia ricostruzione delle storie private dei protagonisti, non è poi supportata da un’adeguata messa in scena. Se la ricostruzione artefatta, in un documentario, è accettabile –da un punto di vista della credibilità scenica, lasciando stare ogni altra contestazione concettuale di questa pratica– se limitata a poche sequenze estemporanee, che rievocano appunto una ripresa dal vero e non pianificata, nel momento in cui ci si spinge oltre, occorre attrezzarsi a dovere. Oggi questo tipo di produzioni sono definite docufiction, e, sebbene neppure queste, in genere, brillino per le interpretazioni degli attori o la complessiva confezione formale, proprio una messa in scena adeguatamente credibile –quella tipica dei film di finzione, insomma– dovrebbe essere il requisito indispensabile. Tra gli interpreti di Acid – Delirio dei sensi si può citare la stuzzicante e sconosciuta Federica Sachs, che, nel film, interpreta Ursula, un personaggio spregevole seppur seducente. Forse proprio la connotazione negativa agevola l’improvvisata attrice che, in ogni caso, se la cava egregiamente aiutata anche dal physique du rôle. Scotese e Gianpaolo Santini, direttore della fotografia, in materia di riprese sapevano indubbiamente il fatto loro, tuttavia la scelta di visualizzare attraverso stratagemmi tecnici gli effetti psichedelici dell’LSD era un’impresa ardua e non si può dire che sia stata felicemente superata.   


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martedì 15 aprile 2025

LE CITTA' PROIBITE

1653_LE CITTA' PROIBITE . Italia, 1963. Regia di Giuseppe Scotese 

Prima che regista, Scotese era viaggiatore incallito: se per America di notte aveva peregrinato per il Nuovo Continente per un anno intero, per Le città proibite raddoppiò il tempo speso a spostarsi da un capo all’altro del mondo. E riguardo al suo essere cineasta, i suoi ideali erano elevati e certo non propriamente in linea con le caratteristiche intrinseche dei Mondo movie. “Oggi per il cinema è tempo di verità” confidò, infatti, ad un giornalista di Stampa sera in quell’autunno del 1963. Nell’articolo in questione, è poi illustrata un’interessante fase di realizzazione del documentario, il passaggio che colpì maggiormente la critica, ambientato nel quartiere delle prostitute di Bombay, in India. “Per questo egli, circa due anni fa, è partito con una troupe ridottissima alla ricerca dell’inconsueto, di ciò che la civiltà ha spesso vergogna di mostrare e tiene gelosamente e colpevolmente nascosto. Come il quartiere indiano in cui vivono migliaia di prostitute con i loro figli concepiti senza amore negli squallidi buchi che le autorità civili han voluto munire di inferriate. Sono quasi delle sepolte vive. Scotese fu allontanato più volte dal luogo, dalla locale polizia, con la sua cinepresa, il parco lampade e tutto il necessario per girare. Dovette riprendere qualche scorcio impressionante della vita orrenda di quelle povere disgraziate, con una 16 mm professionale, tenuta seminascosta dall’operatore Gianpaolo Santini”. [p. z., Due anni in giro per il mondo alla ricerca delle «Città Proibite», Stampa sera, anno 95, n.220, giovedì 19 – venerdì 20 settembre 1963, pagina 11]. La capacità di Scotese si manifestò anche nella scelta di utilizzare una pellicola ultrasensibile, in modo che, nella livida luce dell’alba, potessero rimane meglio impressi i volti smunti, rassegnati, sofferenti, della dolente umanità che giaceva inerte sui marciapiedi delle strade di Bombay. Il regista marchigiano, sempre disponibile al confronto, presentava così il suo film: “Che senso ha questo nostro mondo moderno? Lo abbiamo chiesto alla dolcezza dei popoli semplici, all’esperienza di quelli civili, ai popoli padroni, ai popoli servi, alle donne dei miliardari, a quelle di strada. Abbiamo percorso centomila chilometri alla ricerca dell’autentico, del reale volto delle città e degli uomini, quello di cui meno si parla” [p. z., Due anni in giro per il mondo alla ricerca delle «Città Proibite», Stampa sera, anno 95, n.220, giovedì 19 – venerdì 20 settembre 1963, pagina 11]. La critica, quando se ne occupò, riconobbe i nobili intenti di Scotese oltre all’indubbia capacità artistica: “Nel gran numero di prodotti analoghi, Le città proibite si distingue per una evidente volontà demistificatrice: se i luoghi presi di mira non sono nuovi –non sempre, almeno– allo schermo, piuttosto nuovo è lo spirito che informa la scelta delle immagini, il loro accostamento per affinità o per contrasto. Questo viaggio cinematografico ci conduce dai tradizionali quartieri del vizio di Londra, Parigi, Istanbul, Tokio, Las Vegas, alle cittadelle del denaro, alle capitali della finanza che si annidano nel cuore delle maggiori metropoli di occidente: mostra la favolosa ricchezza e la miseria estrema. II regista Giuseppe Scotese, i suoi collaboratori, gli autori del commento parlato, fanno un serio sforzo per esprimere, su quanto l'obiettivo capta, non giudizi moralistici, ma considerazioni umanamente aperte ed illuminate. Naturalmente vi sono diverse concessioni allo spettacolo, nel senso stretto della parola: ripetute volte, il gusto dell'inchiesta dal vivo è sopraffatto da un sapore meno genuino, intriso di artificioso e di preordinato. 

Ma non mancano le sequenze di qualità: prime fra tutte, quelle che aprono il sipario sull'infernale strada delle prostitute di Bombay: un aspetto tremendo, sconvolgente, del nostro mondo diviso. Notevoli, per l’identica ragione, le scene di Hong Kong: esistenze degradate, ai limiti dell’animalità, così lontane dalle colorate figurazioni delle agenzie turistiche. Ed ecco, anche, il rovescio del quadro: la faccia sorridente di Cuba liberata, vigile nella difesa della sua rivoluzione, ma pronta sempre a manifestare un gioioso, straripante, sentimento della vita. Tra i momenti di carattere folcloristico, fanno spicco poi le danze cerimoniali degli Aztechi, così come i cupi riti dei negri di Haiti. Il film è a colori: maggiormente incisivo, si direbbe, proprio là dove l’operatore ha lavorato quasi di frodo, carpendo autentici segreti”. [ag. Sa., Le prime: Le città proibite, L’Unità, venerdì 13 settembre 1963, pagina 7]. In quest’altro esempio, la scelta differente d’approccio di Scotese, rispetto a Jacopetti, è citata apertamente: “Le città proibite, ovvero quelle dove ci sia del marcio, variamente dissimulato. I molti realizzatori del film, che reca la firma di Giuseppe Scotese, non hanno proseguito l’assunto con l’accanimento che ci avrebbe messo Jacopetti; ma d’altra parte non sono rimasti alla superficie. Le città proibite mette fuori a tratti (basterebbero le sequenze sulle prostitute di Bombay e in generale sulla miseria dell'India) un autentico pungiglione di cinema etnologico; e soltanto per amore di cassetta ha purtroppo inserito, in un severo contesto che illumina la dolorosa ineguaglianza delle sorti umane e sconcertanti aspetti della nostra, diciamo così, civiltà, riempitivi di maniera e consueti spogliarelli, ai quali la lustra allegorica (come in quello dell’uomo «nella gabbia del desiderio») complica, ma non allevia la sconcezza. Lo spettatore tolga da questo pittoresco vagabondaggio per il mondo –Londra, Parigi, Istanbul, Greenwich Village, Virginia City, Las Vegas, Bombay, Haiti, Giamaica, Cuba, New York, Tokio eccetera– le cose veramente valide (per esempio, il «turismo organizzato» di Giamaica, persin capace di abbattere la barriera razziale), gusti il commento quando non è retorico, la bellezza delle immagini a colori; e il resto condoni ai fati commerciali di un «genere» anche troppo fortunato” [Sullo schermo, un documentario italiano, La Stampa, anno 97, n.237, domenica 6 ottobre 1963, pagina 6]. Nonostante il film sconti i soliti problemi con la veridicità di quanto mostrato, del resto comuni anche ai normali documentari, riesce alla lunga ad essere davvero convincente. Per la verità, il commento –opera dello stesso Scotese e letto da Alberto Lupo– ogni tanto scivola nel moralismo; ma, del resto, qual è il confine tra morale e moralismo? Non è semplice, affrontare i temi che angosciano la società senza rischiare, in qualche caso, di andare anche solo leggermente «oltre». E anche riguardo all’approfondimento degli argomenti trattati, che non è certo esaustivo, va tenuto a mente che si tratta di un film, un’opera destinata alla divulgazione di massa. Un lungometraggio destinato alle sale, non è, e non può essere, lo spazio per una seria e dettagliata analisi di dinamiche sociologiche: può semmai stimolare, e Le città proibite lo fa, l’interesse ad approfondire. Dopo qualche passaggio non memorabile tra Londra e Parigi, il film si fa, infatti, via via più interessante. Certo, il segmento narrativo dedicato a Bombay è davvero sconvolgente, come raccontano i recensori dell’epoca, ma anche la descrizione di come la Rivoluzione Cubana reinterpreti a suo modo gli spettacoli nel mitico Tropicana, a L’Avana, vale assolutamente la pena di essere vista. Così come al Giappone è dedicato un momento non banale. In prima istanza, con i lottatori di Sumo, la cosa sembra unicamente un dettaglio folcloristico ma poi la voce di Alberto Lupo ci fornisce alcune considerazioni che fanno riflettere. L’occupazione americana, in seguito alla sconfitta del paese nella Seconda Guerra mondiale, non ha solo sradicato la religione più diffusa, lo shintoismo, ma ha minato l’identità nazionale, tanto che, al tempo, il Giappone viveva ancora una profonda crisi interiore. Restando in linea con i cliché dei Mondo movie, Le città proibite esemplifica tale situazione mostrando come, già ai tempi, nel paese del Sol Levante si fosse persa l’usanza di avere bagni in comune per uomini e donne. Ad introdurre la malizia e il pudore, secondo Scotese, sarebbero stato il puritanesimo occidentale; è andata smarrita, così, l’innocenza in sintonia con la natura che caratterizzava la cultura sessuale nipponica. La colonna sonora, affidata a Marcello Giombini è fondamentale, nel trainare il documentario in questa fase, con il tempo che passa e il rischio di appesantire la visione, in questo genere di operazioni, è dietro l’angolo. Al contrario, Le città proibite entra proprio adesso nel vivo e si rivela, a sorpresa, uno dei migliori Mondo movie in assoluto. Scotese ci porta a Wall Street, sorta di isola nell’isola, se consideriamo il nucleo finanziario di New York all’interno di Manhattan, il cuore della Grande Mela. Di più: la sede della borsa americana è il centro finanziario del mondo, il luogo dove si crea o si disperde la ricchezza del capitalismo.
A far da contrasto, il racconto mostra Aberdeen, una zona nell’area del porto di Hong Kong: l’acqua, al tempo, era stata prosciugata dai rifiuti e dagli escrementi dei poverissimi abitanti, che vivevano miseramente su barche ormai stabilmente all’asciutto, o immerse solo parzialmente nelle scarse acque putride. Un effetto certamente della colonizzazione britannica e, quindi, un prodotto di quello stesso capitalismo di cui si erano viste poco prime le cattedrali in vetro e cemento di Lower Manhattan. Dove il documentario ritorna, per portarci ancora in un posto isolato ed esclusivo, perfino più di Wall Street: un rifugio antiatomico dove alcuni giovani stanno ballando un twist. Qui Giombini si scatena con il brano Atomic Twist, uno dei vertici musicali del documentario, e suggella un passaggio lapidario: tutta la ricchezza del mondo, per rinchiudersi in una scatola di cemento armato sottoterra. Siamo gli sgoccioli, ormai, ma c’è tempo per tre minuti di idillio, uno dei momenti più evocativi dell’intero genere: Atomic Twist sfuma, lo scenario cambia, ora c’è il sole tra le nuvole in cielo, il mare coi delfini, e la voce di Eddie Lund and his Tahitians che attacca Anaa E, meraviglioso pezzo di musica polinesiana che, clamorosamente, non verrà incluso nella Colonna Sonora ufficiale. Come da titolo, il film è stato un viaggio tra Le città proibite: qui, sull’isola in mezzo all’Oceano Pacifico, di divieti non ce n’è, e, forse, suggerisce la voce di Alberto Lupo, questa è la soluzione per i problemi e le angosce del mondo. Un ritorno alla sintonia con la Natura, senza sensi di colpa posticci da scontare, ma vivendo in armonia con il creato. Presto la dolce melodia di Eddie Lund e dei suoi Tahitians finisce, quasi fosse stato solo un sogno, e una musica grave ci ripiomba nella grigia e polemica Londra, storico ombelico del mondo civilizzato secondo il credo vigente. Siamo quasi ai titoli di coda, e, se in qualche passaggio, il commento può essere scivolato nella retorica o nel moralismo, qui Scotese riesce ad essere più calibrato, lasciando la conclusione in sospeso: “E, come sempre, quando un viaggio è finito, abbiamo cominciato a ricordare. Questa è l’immagine che per prima ci è tornata alla mente”. E Atomic Twist riparte a cannone, mentre i ragazzi che ballano nel rifugio antiatomico, sono stavolta visti in un angosciante rallenty, quasi fossero fantasmi di un futuro post disastro nucleare. Un’immagine che stride, con le pretese di un documentario, visto che non può trattarsi di qualcosa di vero, se non è ancora accaduto. Un’illuminante profezia può, però, essere più autentica di uno spento sguardo a ritroso. 
  





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domenica 13 aprile 2025

LE DERNIER MELODRAMA

1652_LE DERNIER MELODRAMA . Francia, 1979. Regia di Georges Franju

Raramente la carriera di un cineasta, o anche di un artista in genere, ha avuto un’uscita di scena tanto simbolica e rappresentativa quanto quella di Georges Franju. Il regista la cui poetica era stata definita realismo fantastico lascia il mondo dello spettacolo con un’opera suggestiva che vede al centro della scena alcuni commedianti ambulanti. Si tratta di un altro film televisivo per la serie Cinéma 16, dopo quello realizzato dal regista bretone l’anno precedente: Le dernier mélodrame [L’ultimo melodramma] è l’emblematico titolo di una storia che ha protagonista, come detto, una compagnia teatrale itinerante. All’inizio della carriera Franju era stato realizzatore di fondali per il teatro e, con gusto che ricorda la sua vena simbolica surrealista, lì fa ritorno per chiuderla. Il palco allestito dai saltimbanchi del Grand Théâtre Larémolière fa infatti sfoggio per tutto il racconto di una serie di sfondi pregevoli ed evocativi che rendono particolare questo film televisivo. Non eccezionale, sia chiaro, dal punto di vista del ritmo e della storia in sé: l’autore accusa una certa stanchezza e si premunisce di esplicitarla attraverso le parole del protagonista, Larémole de Larémoliere (Michel Vitold) che, analogamente al precedente Bernard interpretato da Daniel Gelin ne La discorde, ha per Franju un ruolo semi-autobiografico. Anzi, anche maggiore rispetto al citato uomo d’affari, visto che Larémoliére è figura di spettacolo e, oltre che attore, anche regista della compagnia. Lo stesso nome, poi, riecheggia ovviamente Molière, celeberrimo commediografo francese, ma l’aggettivo Grand del teatro e la vaga somiglianza del nome stesso riporta alla mente anche Le Grand Méliès, cortometraggio di Franju dedicato al pioniere del cinema d’oltralpe. Il congedo del regista bretone sembra cosciente e queste citazioni paiono nostalgici ricordi della propria carriera: la presenza di una ancora deliziosa Edith Scob (è Lilette) – attrice feticcio dell’autore – è la più evidente ma c’è anche la scena del macellaio – con la testa bovina aperta a colpi di mannaia – che ricorda spudoratamente Le Sang des Bêtes (1948) mentre la trama gialla nel finale ci riporta ai suoi primi lungometraggi. Quello che emerge tristemente da Le dernier mélodrame è che la Francia è cambiata e per gli artisti come Franju, legati alla propria tradizione culturale, non ci sia più posto. Un discorso che si riallaccia al citato La discorde dove il protagonista non riconosceva più la società francese dopo i dieci anni passati in Argentina. Tornando ai nostri saltimbanchi, nella prima città in cui si esibiscono un gruppo di scapestrati giovinastri motociclisti arriva con il solo scopo di creare disordini durante lo spettacolo. Sul momento il sindaco, presente in un palco dedicato, aizza contro i teppisti i suoi gendarmi; poi, dopo l’opportuno consiglio della moglie – in fondo i ragazzi sono figli di possibili elettori – l’opinione del primo cittadino muta di 180° gradi. Il Grand Théâtre Larémolière è costretto a sloggiare e si trasferisce in un piccolissimo borgo: qui, in principio, le cose sembrano migliori. Ma la mentalità dei paesani è ancora ristretta e i testi teatrali possono sembrare anche sconvenienti, in questo caso una torbida pièce con protagonisti i Borgia ambientata in Vaticano. La società francese, insomma, secondo Franju o è in decadimento oppure ancora troppo arretrata. Perché presto il vento cambia anche in paese e ora i saltimbanchi cominciano ad essere malvisti; l’appesantito barista Alphonse (Bernard Diney) inizia a non sopportare più le quotidiane visite del vecchio Frédréric (Raymond Bussières) che si ubriaca tutti i giorni. Maria (Juliette Mills), l’ancora piacente moglie di Alphonse, scorge la possibilità di eleminare il marito, imbruttito e malato di cuore, di cui ormai è stanca. E se a farne le spese sarà il Grand Théâtre Larémolière poco male: l’arte ormai conta meno di una banale storia matrimoniale sommersa dalla noia. E così, al termine di un parapiglia comunque abbastanza efficace, Alphonse tira le cuoia di infarto, scioccato da una fucilata sparata a salve dei saltimbanchi. Gli artisti erano stati preventivamente allertati delle intenzioni incendiare del barista dalla stessa Maria, che opera un doppio gioco mirato a spaventare fatalmente il marito. Il quale, codardo com’era, non aveva avuto il coraggio di appiccare il fuoco alla benzina con cui aveva inondato il teatro, per la verità; Maria, in ogni caso, lo conosceva bene ed è lesta a cogliere l’attimo. Il teatro va in fumo, in tutti i sensi. Chissà, forse la donna, a quel punto, poteva anche risparmiarselo: ormai Alphonse era morto, il suo scopo raggiunto. Ma era anche tempo per Franju, che quel teatro incarnava, di chiudere, e allora perché non approfittare di un finale ad effetto?
Fantastico e credibile, in fondo. Addio, Maestro. E grazie di tutto. 


venerdì 11 aprile 2025

THE SHROUDS

1651_THE SHROUDS . Francia, Canada, 2025. Regia di David Cronenberg

Proiettato in anteprima nazionale al BAFF, Busto Arsizio Film Festival, The Shrouds: segreti sepolti avrebbe dovuto giovarsi della presenza sul palco del suo autore in persona, David Cronenberg: purtroppo una banale influenza ha tenuto lontano il regista che si è comunque connesso in videochiamata per rispondere alle domande di Gianni Canova, critico cinematografico, e Giulio Sangiorgio, direttore artistico del Festival. Curioso annotare come un virus –ricordate il filone virale dei primi film di Cronenberg? – si sia a suo modo vendicato impedendo al regista di muoversi con il proprio corpo – e ricordate anche quello della «nuova carne»? In ogni caso, Cronenberg, nel suo collegamento, è stato molto presente, anzi si può dire anche puntuale e pungente, ad esempio quando ha negato, in buona sostanza, i rimandi a Hitchcock di cui chiedeva Canova, o quando ha risposto allo stesso critico che non fosse necessario approfondire sui riferimenti autobiografici del film. Punto di vista comprensibile da parte di un autore, dovuto a quella sorta di pudore d’artista misto ad un pizzico di sadico piacere nel tenere celati i propri assi, anche questo peculiarità dei creativi d’arte. Ma ha ragione da vendere Canova, critico italiano per eccellenza in ambito cinematografico e di Cronenberg nello specifico. Il recente tragico passato di Cronenberg, la morte della moglie Carolyn avvenuta nel 2017 e quella della sorella Denise nel 2020, avevano già avuto un’importante influenza nel cortometraggio di un minuto scarso The death of David Cronenberg, codiretto con la figlia Caitlin dallo stesso David, e importanti sono anche le eredità di questi lutti che The Shrouds: segreti sepolti si porta addosso. A partire sin dal titolo originale, The Shrouds, che significa «i sudari», ma anche nella trama stessa, con Karsh (Vincente Cassel), vedovo inconsolabile che cerca conforto nella sua attività di inventore di cimiteri tecnologici. Cassel, per pettinatura, aspetto generale, istrionico carisma, è il nuovo e convincente avatar di Cronenberg: e anche questo è un dettaglio autobiografico. Ma, a questo punto, subentrano i rimandi ad Hitchcock accennati da Canova: perché, dal 1940, qualunque indimenticabile «prima moglie» dello schermo deve confrontarsi con la Rebecca del famoso film del «maestro del brivido» inglese, autentica pietra angolare cinematografica. [Rebecca - La prima moglie (Rebecca), Alfred Hitchcock, 1940]. 

Per sgomberare il campo da qualsivoglia obiezione, basti dire che, effettivamente, la defunta consorte di Karsh, al di là del diminutivo Becca con ci si riferisce a lei nel film, si chiama appunto Rebecca (interpretata, nei flashback, da Diane Krueger). Ma i rimandi a Hitch non finiscono qui: Terry, la cognata del protagonista e sorella di sua moglie, è praticamente identica a lei, acconciatura più casual della Krueger, che interpreta entrambi i personaggi, a parte. È lampante sin dal primo incontro tra Karsh e Terry a cui assistiamo che i due finiranno, prima o poi, a letto, proprio per via della forte somiglianza tra le due sorelle. L’uomo è attratto dalla donna non come soggetto in sé, ma in quanto simulacro, sosia, della sua amata consorte: ogni riferimento a La donna che visse due volte [La donna che visse due volte (Vertigo), Alfred Hitchcock, 1958] è evidentemente voluto. Questi rimandi al cinema di Hitchcock sono sorprendenti, dal momento in cui Cronenberg, in tutta la sua carriera, pur frequentando il cinema di generi anche simili al maestro inglese, come il thriller o l’horror, aveva sempre avuto un approccio completamente diverso. Tuttavia, un primo motivo per cui il canadese si rivolge ad Hitchcock appare abbastanza chiaro: tutto il plot narrativo di The Shrouds, di cui si potrebbe parlare per ore, è un gigantesco MacGuffin, il celebre pretesto narrativo citato spesso dal regista britannico. Tra l’altro, il castello di colpi e contro-colpi di scena è talmente ricco e ben orchestrato che quest’ultima fatica del regista nato a Toronto, nonostante la verbosità dei dialoghi, scorre in modo assai più decifrabile dei suoi abituali film. A tal proposito, si possono annotare le numerose e colorite espressioni di Karsh che, sostanzialmente per tutto il racconto, viene stupito da una serie di sorprese non sempre gradite, come l’atto vandalico al suo cimitero, il passato fedifrago della moglie o il doppio gioco del cognato Maury (Guy Pearce). Se la trama sembra essere un gigantesco pretesto narrativo, alcuni elementi sono tipici della poetica di Cronenberg, anche nel loro essere spiazzanti e inaspettati, come il cimitero tecnologico di Karsh. 

L’attività della GraveTech, la società del protagonista, è l’ennesimo colpo geniale del cinema Cronenberg: un’azienda che, attraverso l’utilizzo di sudari speciali, permette ai propri clienti di monitorare costantemente lo stato delle salme seppellite in un cimitero appositamente allestito. L’utente, quando si reca in visita al cimitero, può connettersi tramite App sullo smartphone al monitor posto sulla lapide, e osservare a che punto è la putrefazione del caro estinto. O forse non è proprio questo lo scopo, forse c’è un tentativo di rimanere connessi, almeno visivamente, al defunto. Già, parlando di monitor e di sudari che funzionano come telecamere, è chiaro che uno dei temi portanti di The Shrouds sia l’atto di vedere, cosa naturalmente anche prevedibile essendo quello di Cronenberg un cinema metalinguistico e la vista il senso maggiormente coinvolto nella settima arte. Ma, del resto, è l’intera nostra società ad essere dominata dal senso della vista, stando a Marshall McLuhan già dalla scoperta della tipografia a caratteri mobili, nel XV secolo. Oggi, siamo talmente abituati ad avere nella vista il massimo e supremo riferimento, che un’idea come quella della GraveTech ci appare geniale, pur nel suo lato malsano e, probabilmente, immorale. Manca qualcosa nel rispetto che si deve alla vita, se pensiamo che filmare un cadavere sia un tentativo in qualche modo plausibile di elaborare un lutto. Cronenberg sta provocando, è evidente, ma non in modo gratuito: considerato le assurdità a cui stiamo assistendo quotidianamente, piazzare una telecamera in una bara non è poi così fuori luogo, anzi. Ma, oltre alla vista, esistono anche altri modi per comprendere, capire, cosa ci sta attorno e Cronenberg ce lo dice sin dalla prima scena, quando Karsh è nello studio dentistico e il dottore azzarda una curiosa teoria, secondo cui il dolore ai denti del suo paziente sia un’espressione della sofferenza per la morte della moglie. Un’altra brillante provocazione cronenberghiana, d’accordo, però è innegabile che anche il dolore sia un mezzo per comprendere la realtà. La società occidentale, al contrario, si fonda essenzialmente su ciò che può vedere. Il protagonista, ad esempio, si fida di Hunny, il suo assistente digitale, finché lo vede nelle fattezze umane di una ragazza mentre lo trova inaffidabile se assume quelle di un koala. Con lo stesso criterio, è attratto da Terry sostanzialmente perché questa è esteticamente uguale a Becca, del resto è sempre la Krueger ad interpretare entrambi i personaggi. Il problema di Karsh, e di tutta la società occidentale, è che la vista è un senso parziale ma, al contempo, talmente acuto e incisivo al punto da ingannarci, da indurci a credere che sia totale, in grado di fornirci un quadro completo ed esaustivo. Già Giovanni Verga e i veristi, che furono affascinati dalla fotografia, e in seguito Dziga Vertov, l’avanguardista russo del «cineocchio», si erano già, a loro modo, scontrati con la difficoltà di rappresentare la realtà pura e semplice attraverso una visione pur fedele della stessa. Son passati decenni, la tecnologia si è raffinata in modo esponenziale, ma un qualunque appassionato di calcio può confermare le inaspettate difficoltà riscontrate dal VAR (Video Assistant Referee, assistenza video all’arbitro) nello stabilire ciò che accade sui campi da gioco, nonostante le tante differenti e contemporanee angolature delle riprese. 

L’avvento del VAR, al netto del risultato specifico ottenuto dello strumento, ha avuto l’effetto di alimentare nuovi dubbi, nuove incertezze, ottenendo il risultato opposto a quanto prefissato. Allo stesso modo, le tante immagini da cui siamo bombardati, non chiariscono la situazione ma, semmai, offrono il fianco a nuovi interrogativi. In The Shrouds, una telecamera in una bara dovrebbe forse svelarci cosa succede dopo la morte e, al contrario, ecco che si scoprono strane protuberanze che sorgono sulle ossa di Becca e altri defunti del cimitero GraveTech. Strane e inspiegabili, almeno dalla scienza conosciuta: e qui si arriva al cuore del discorso di Cronenberg. Perché una spiegazione è possibile, ed è la stessa spiegazione a cui ormai, chi più chi meno, siamo abituati a rivolgerci: il complotto. Cronenberg, nel rispondere ad una domanda di Sangiorgio, il direttore artistico del BAFF, lo rivela esplicitamente: il complottismo può essere una sorta di rifugio del suo protagonista, e questa soluzione, considerata la natura del cinema di Cronenberg, possiamo intenderla valida anche per l’uomo dei nostri giorni. Con questo non è che il regista canadese voglia perorare il complottismo in senso letterale ma si tratta di una sorta di provocazione simile a quella del precedente Crimes of the future, dove aveva sostanzialmente insinuato il dubbio di essere un conformista borghese. Qualcosa che, almeno artisticamente, gli era totalmente estraneo. Con The Strouds il regista canadese invita a riflettere sul tanto diffuso complottismo, dando una spiegazione folgorante è illuminata al fenomeno. E per rendere più evidente il discorso, utilizza la geopolitica, i russi e i cinesi del racconto, in un vortice di intrighi che ci confonde e non ci permette di capire cosa sia vero o cosa frutto di congetture. Non a caso, alla fine, Karsh tra Terry, che lo attrae perché soddisfa il desiderio di rivedere sua moglie, e Soo-Min (Sandrine Holt), sceglie quest’ultima. La donna, moglie di un possibile facoltoso cliente in fin di vita, è cieca –e quindi ha sviluppato altre capacità di percezione della realtà, si veda la scena della registrazione audio– oltre ad essere coreana e vivere a Budapest – la Corea, almeno quella del Nord, e l’Ungheria sono tra i paesi meno allineati alla comunità occidentale. Soo-Min veicola quindi due elementi, totalmente diversi ma che, nel loro esserlo, rappresentano il cortocircuito finale della società occidentale. L’essere non-vedente della donna ci riporta ai tempi precedenti alla alfabetizzazione estrema introdotta dalla stampa a caratteri mobili, quando l’udito, il tatto e gli altri sensi avevano almeno lo stesso valore della vista. E quando il concetto stesso di meccanizzazione scomponibile del linguaggio studiato da McLuhan non aveva ancora reso l’uomo occidentale quello che è stato finora. I rimandi geopolitici intrinseci alla figura di Soo-Min, come detto Ungheria e Corea del Nord sono due tra gli agenti più coinvolti negli intrighi internazionali, simboleggiano il fenomeno del complottismo, il luogo terminale in cui ci si rifugia tutti quanti da quando, subissati dalle tante informazioni contraddittorie, perlopiù sotto forma di immagini, non sappiamo più in cosa credere. McLuhan disse che, con l’invenzione della consonante (scritta) abbiamo dato un orecchio per avere in cambio un altro occhio. Adesso che l’occhio, sopraffatto dalla sua stessa ingordigia di immagini, ci inganna, non sappiamo più come fare per capire cosa sia vero o cosa non lo sia. In questa situazione, il complottismo, diviene la nostra ultima spiaggia. Dopo aver fatto ammenda sull’inutilità del suo cinema con Crimes of the future e con il paragone al cinema morale di Fritz Lang, Cronenberg ne rivendica l’importanza in qualità di MacGuffin che, come il complottismo, è uno strumento per cercare di sopravvivere.
Sempre McLuhan disse che il medium è il messaggio; Hitchcock, dal canto suo, diceva che la trama, (plot, in inglese), era unicamente un pretesto. Cronenberg, in The Shrouds, fa una sorta di sintesi e ci dice che il complotto (plot, in inglese) è sia pretesto che messaggio. È il senso di tutto quanto, perlomeno quello che possiamo illuderci di trovare. Ed è tutto ciò che ci rimane.
A parte il buon sesso.   



mercoledì 9 aprile 2025

L'OCCHIO SELVAGGIO

1650_L'OCCHIO SELVAGGIO . Italia, 1967. Regia di Paolo Cavara

A quella che è probabilmente la sua miglior qualità, sono connessi i limi de L’occhio selvaggio, secondo lungometraggio firmato interamente da Paolo Cavara. Già con il suo esordio, I Malamondo, il regista nato a Bologna aveva cercato di smarcarsi dal cinema sensazionalista che aveva condiviso nei suoi primi lavori in collaborazione con Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, Mondo cane e La donna nel mondo. Tuttavia I Malamondo non convinceva né come presa di distanze dal modello jacopettiano, tantomeno come opera in sé, che sarebbe trascurabile se non fosse iscritta all’interno di un movimento in grande fermento in quegli anni e, quindi, interessante se non come prodotto artistico, perlomeno come fenomeno di costume. In ogni caso, la natura degli scrupoli di coscienza di Cavara dovette essere assai profonda, e legata ai sistemi utilizzati per realizzare le sue prime collaborazioni con Jacopetti e Prosperi, perché il regista decise di affrontare, stavolta sostanzialmente senza alcun filtro, la questione. E lo fece con un testo metalinguistico, L’occhio selvaggio, che è una durissima requisitoria rivolta al cinema sensazionalista alla Mondo cane; anzi, per la verità, ha tutta l’aria di essere un’accusa diretta personalmente a Gualtiero Jacopetti. In questo trasparente livore, nella lucida e spietata descrizione della meschinità del protagonista, che è tratteggiato in maniera inequivocabile sulle caratteristiche personali di Jacopetti, c’è l’aspetto migliore del film. Intendiamoci, non è che si tratti di condividere o meno il punto di vista di Cavara a proposito del suo ingombrante ex collaboratore, quello che si apprezza è la sincerità del regista che si esprime senza alcuna reticenza. Non solo al cinema, ma in qualunque forma di comunicazione civile e sociale, è raro vedere i sentimenti e i pensieri di un individuo messi così a nudo, senza alcuna censura di natura opportunistica. È chiaro, infatti, che scagliarsi in questo modo contro Jacopetti, voleva dire anche mettere sotto accusa un intero sistema: collaboratori, produttori, e perfino lo stesso pubblico dei Mondo movie, in L’occhio selvaggio non è che ci facciano una grande figura. Ciononostante, Cavara non fa sconti e, probabilmente, persino esagera, nel demolire la figura di regista «alla Jacopetti», enfatizzandone il cinismo al limite dell’accettabile per una persona che si possa dire umana. E questo, in effetti, è un po’ il limite de L’occhio selvaggio che, come film, pur se godibile nel complesso, è troppo monocorde nel suo battere sull’unico tasto che preme al suo autore: il protagonista è una vera canaglia. Scrisse, infatti, il critico Ermanno Comuzio: “difficile pensare che un essere pensante possa giungere a tali eccessi. La dimostrazione ne viene così alquanto compromessa” [Ermanno Comuzio, Film sul cinema sensazione con Philippe Leroy e Delia Boccardo, Il Giornale di Bergamo, 28 settembre 1967, pagina 6]

Ma, come detto, nonostante i limiti connessi da un punto di vista artistico ad una simile operazione, va riconosciuta la genuinità della confessione di Cavara. Perché, il protagonista, interpretato da un solido Philippe Leroy, si chiama Paolo, proprio come Cavara, e, ripensando alla co-partecipazione dell’autore ai primi film di Jacopetti, viene da credere che L’occhio selvaggio abbia avuto anche una funzione in qualche modo catartica, proprio come il sacramento religioso in cui si ammettono i propri peccati. Scrisse ancora Comuzio: “L’occhio selvaggio resta sempre una fatica originale, un rispecchiamento coraggioso di certo cinema che si giudica da solo e si fa orrore, oltre che un chiaro invito agli spettatori dei futuri film-inchiesta o film-reportage, di pensarci bene prima di prendere per oro colato quello che vedono sullo schermo con tutta l’apparenza della realtà. È lo stesso cinema, che lo confessa, che ammette come il cinema tradisca spesso la sua missione per farsi strumento della menzogna. Da meditare” [Ermanno Comuzio, Film sul cinema sensazione con Philippe Leroy e Delia Boccardo, Il Giornale di Bergamo, 28 settembre 1967, pagina 6]. C’è però un altro limite del film che venne denunciato dalla critica del tempo, anzi, fu probabilmente il difetto più evidente imputato all’opera. Già l’inviato di Bianco e Nero al Festival di Mosca, dove L’occhio selvaggio fu presentato in anteprima, liquidò in modo sbrigativo il film di Cavara: “Di analogo velleitarismo risente L’occhio selvaggio (riferendosi a I Malamondo, NdA) che, abbozzando il ritratto di un cinico regista teso alla ricerca ad ogni costo di immagini sconvolgenti, senza rinunciare a predisporle, se necessario, o a sacrificare per esse i valori più autentici, vorrebbe essere una condanna a certo di certo «documentarismo a sensazione» ben noto specialmente in Italia; mentre invece , a causa del sommario disegno psicologico, il film si risolve in un raccontino schematico, il quale non evita di speculare, alla fin fine, sugli stessi effetti che vorrebbe deplorare” [Leonardo Autera, I festival dell’estate: Mosca, Bianco e Nero, n. 7-8-9 Luglio-agosto-settembre, 1967]. Sergio Frosali fu altrettanto severo: “Mentre denunzia i risvolti tragici o cinici di un certo modo di inseguire (o di tradire) la realtà, se ne fa partecipe e tradisce la sua impossibilità di respirare aria diversa. Jacopetti ha di che sorridere di questo ex allievo ribelle” [Sergio Frosali, La Nazione, 29 novembre 1967, da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 168]. 

Sono osservazioni legittime, che trovano facile riscontro sin dalla prima scena con il forsennato inseguimento alla gazzella nella savana africana, o ancor più drammaticamente in quella in cui i fumatori d’oppio vengono duramente bastonati. Ma, se l’animale è sicuramente indotto ad una fuga a perdifiato dal fuoristrada che lo insegue, e questo corrisponde alla realtà anche al di fuori del film, è del tutto ipotizzabile che le bastonate inflitte ai poveri drogati siano invece fittizie. Ed è proprio in questo senso che Cavara deve aver provato –non riuscendoci, secondo alcuni critici– a parare questa eventuale osservazione: il film si fonda sulle atrocità indotte da Paolo, il protagonista del film, ma, in questo caso, si tratta indiscutibilmente di ricostruzioni e, quindi, rientranti a pieno titolo nella facoltà artistica del cinema di finzione. In sostanza, quella indirizzata a L’occhio selvaggio è una critica non dissimile da quella rivolta spesso al cinema dell’orrore o ai Crime-movie, dove la violenza è, di fatto, l’elemento che desta maggiore attenzione ma non per questo deve essere assimilata a quella reale. Nel film, accanto a Leroy, che come detto interpreta Paolo, il cinico regista di pseudo-documentari alla Mondo cane, troviamo una Delia Boccardo, alle prime armi ma comunque tutto sommato convincente, nel ruolo di Barbara. Certo, lo schematismo del film non le richiede queste grandi capacità interpretative, ma, almeno dal punto di vista della presenza scenica, l’attrice genovese se la cava più che dignitosamente. Sulla stessa falsariga l’interpretazione di Gabriele Tinti, nei panni di Valentino, l’operatore di macchina, un ruolo in cui Cavara sembra volersi quasi identificare, almeno per quel che riguarda le sue collaborazioni con Jacopetti. Paolo, il protagonista del film, spesso guida tenendo per le spalle Valentino mentre questi sta riprendendo, ribadendo di essere l’unica mente pensante dietro all’obiettivo della macchina da presa. Un rapporto, del resto condiviso in modo universale, secondo il quale nei film come Mondo cane o La donna nel mondo, il contributo tanto di Cavara che di Prosperi, fosse subordinato a quello di Jacopetti e comunque alla sua supervisione ed approvazione. Il ruolo simbolico della Boccardo è invece almeno duplice. Da una parte interpreta le donne di Jacopetti, a partire dalla sfortunata Belinda Lee, con cui Barbara, il personaggio de L’occhio selvaggio, condivide il tragico destino. Ma, soprattutto, la protagonista femminile del film di Cavara rappresenta il pubblico, sedotto inesorabilmente dalla scaltra capacità manipolatrice di Jacopetti, in grado di intuirne la falsità e l’essere strumentale ma incapace di opporgli resistenza. Hanno però ragione i severi recensori: L’occhio selvaggio, non va oltre la mera applicazione di questa metafora e, alla lunga, il ripetersi delle stesse situazioni finisce per far perdere mordente al racconto. Eppure… eppure è proprio in questa analisi un po’ semplicistica, che opera Cavara con il suo film metalinguistico, che si può cogliere il dramma non solo di un «genere» cinematografico, ma di un intero paese, almeno in chiave profetica. Le ambizioni di certa critica, lamentarono anche la limitata portata dell’opera artistica del film. Dopo la proiezione al Festival di Mosca, Aggeo Savioli scrisse: “Sul piano psicologico, la figura di Paolo è priva di consistenza: viene dichiarata all’inizio, in maniera massiccia, e non ha sviluppi, ma solo monotone repliche” e fin qui, viene ribadito un concetto già osservato. Ma il critico entra poi nel vivo del suo discorso: “Come emblema di una società che «riduce a prodotto di consumo anche il sacrificio di un bonzo» (il riferimento qui è al monaco buddista Thích Quảng Đức, che si era dato fuoco, nell’ambito della Crisi Buddista del Vietnam del Sud, protagonista della famosa scena ricostruita presente in Mondo cane n.2, NdA), non funziona lo stesso, perché manca di legami proprio con questo mondo disumanato, di cui un certo tipo d’autore di cinema dovrebbe essere la proiezione e lo strumento. In sostanza, Paolo (il protagonista del film, NdA) è solo un «magliaro» della cultura di massa, una macchietta secondaria, su cui sembra inutile aver fissato tanta attenzione”. Qui, Savioli coglie involontariamente il bersaglio, ma non sembra rendersene del tutto conto. Tant’è che focalizza altrove la chiusa della sua recensione: “E Cavara ha anche perduto l’occasione di guardare con occhio, magari non selvaggio ma limpido, le cose che il suo personaggio è indotto a deformare e falsificare: non gli è riuscito, cioè, di istituite un possibile confronto tra la situazione oggettiva e la sua rappresentazione adulterata” [Aggeo Savioli, L’occhio selvaggio sui trucchi del magliaro, L’Unità, 18 luglio 1967, pagina 9]. 

Una questione ribadita poi, sulle pagine dello stesso quotidiano, una volta che il film approdò nelle sale italiane: “Ma d’altra parte, forse il limite estetico fondamentale del film –come lo ha già accennato Savioli– è il suo essere irrimediabilmente un film «di finzione» che tende tuttavia alla critica di un certo «documentarismo» quando, proprio in questo caso, un film brechtianamente  critico, avrebbe dovuto dialetticamente mettere a confronto diretto la mistificazione della realtà con la documentazione sanguinante di essa: e ci saremmo trovati di fronte, forse, a un’opera originale dove la Verità e la Poesia avrebbero avuto il volto della tragedia” [Vice, L’occhio selvaggio, L’Unità, primo settembre 1967, pagina 7]. In sostanza, i recensori dell’Unità avrebbero voluto che Cavara, che conosceva la realtà dei fatti ripresi da Jacopetti, li mettesse in confronto con la rappresentazione sofisticata di questi. Ma, la cosa era più facile a dirsi che a farsi, come si può evincere anche delle parole nel merito di Ermanno Comuzio: “L’occhio selvaggio diventa una presa di posizione sulle potenzialità espressive della macchina da presa e, di conseguenza, sull’etica di chi la impugna. L’uomo con la macchina da presa, si chiamava così un film di Dziga Vertov, il padre del cinema-verità, colui che sosteneva l’onnipotenza dell’obiettivo rispetto ad una realtà che doveva essere accettata così com’è, senza diaframmi, ma i cui film –basati su un montaggio personalissimo e vigorosamente costruttivo– contraddicevano il «miracolismo» della macchina. Il «cine-occhio» è sempre lo strumento di una volontà, che deve essere sempre rispettosa della realtà, anche quando vuole restare vergine, «selvaggio»” [Ermanno Comuzio, L’occhio selvaggio, Cineforum, da pagina 843]. Una lezione già imparata, volendo vedere, da Giovanni Verga e dal Verismo, che aveva chiarito come qualunque visione fosse per sua natura soggettiva e mai oggettiva. Non si può quindi imputare una gran colpa, soprattutto ad un regista come Paolo Cavara, al suo secondo film diretto in completa autonomia, nell’aver scelto un racconto di finzione, in modo da svincolarsi preventivamente da qualsiasi accusa di scarsa attendibilità al vero. Piuttosto, come detto, la citata recensione di Savioli evidenzia un aspetto profetico de L’occhio selvaggio, ovvero quando rimprovera Cavara di aver dato eccessiva importanza ad “un «magliaro» della cultura di massa, una macchietta secondaria” [Aggeo Savioli, L’occhio selvaggio sui trucchi del magliaro, L’Unità, 18 luglio 1967, pagina 9]. Al contrario, è proprio qui che Cavara è illuminante: il suo tentativo, è evidente, è quello di denigrare Paolo, il suo protagonista –ovvero Jacopetti– per la sua scarsa cifra morale, ma quello che rende questi davvero seducente agli occhi di Barbara –il pubblico– è, per assurdo, proprio il suo essere un imbonitore, un ciarlatano. E il problema cinematografico, rappresentato dalla falsificazione della realtà da parte dei Mondo movie, diviene quindi unicamente la spia di segnalazione di un guasto al «sistema» di natura assai più grave. Nel momento in cui il giullare del re, ovvero l’unico che, in ambito medioevale, poteva dire a sua maestà quello che gli passava per la testa, vero o falso che fosse, senza rimettercela, diviene l’oracolo della Verità, il guaio è ormai irreparabile. Il danno, in Italia, non fu tanto che lo stile di Jacopetti –non solo del suo cinema, ma anche dei cinegiornali Ieri, oggi, domani, o della rivista Le Cronache– divenne modello per l’informazione televisiva, da Blob a Striscia la notizia fino a Le Iene. Se Blob si è mantenuto negli anni nell’ambito della critica alternativa al potere –per quanto sarebbe interessante valutare la sua influenza nella presunta superiorità morale che da decenni, in Italia, la Sinistra ha arbitrariamente assunto– ben peggiori saranno gli effetti delle altre trasmissioni citate. Per anni, Striscia la notizia, sulla carta presentato come «TG satirico» è stato il telegiornale di riferimento del paese, nell’ottica di creare l’opinione pubblica. Le Iene sono diventate, ormai da tempo, il programma d’approfondimento dalle cui labbra pendono acriticamente milioni di spettatori, in modo diretto o indiretto. Gli esempi dell’influenza di questa trasmissione sono molteplici e spaziano in ogni settore, la conferma dell’impatto che ha sul popolo italiano la si può avere quotidianamente. I sistemi utilizzati per realizzare questi programmi, non sono dissimili da quelli di Jacopetti; di per sé la cosa non sarebbe grave e, del resto, è già in uso da decenni nella stampa, ambiente dal quale, non a caso, proveniva il giornalista toscano. Mondo cane nel suo essere cialtronesco, era stato un film sorprendente e anche positivo: era la moderna versione del giullare che si faceva beffe del potere, nulla di nuovo se non la geniale confezione formale. L’incapacità di interpretare correttamente il significato del film, un’incapacità generale che coinvolgeva dagli autori al pubblico, includendo anche critica e addetti ai lavori, era forse una delle cause che determinò la successiva evoluzione totalmente negativa. Jacopetti e i suoi collaboratori, a cui l’ostilità della critica non faceva altro che assecondare il gioco, si ersero a cronisti della Storia, sempre senza utilizzare uno straccio di etica o morale se non quella del proprio tornaconto o del pragmatismo borghese. Era il tempo di Africa addio nei quali il giullare diveniva ambasciatore della Storia. La metafora era completa e, oltretutto, realizzata con qualche decennio di anticipo sui tempi. I giullari di quella che viene definita Prima Repubblica, assursero successivamente a riferimento dell’opinione pubblica, non solo i citati programmi televisivi come Striscia la notizia o Le Iene, ma, addirittura, il comico Beppe Grillo divenne leader carismatico di un partito politico, i 5 Stelle, che riuscirà perfino a vincere le elezioni nel 2018 e, in ogni caso, ad ergersi stabilmente tra le principali forze politiche del paese. Il parallelo tra Grillo e Jacopetti è particolarmente calzante, non solo per i sistemi di «costruzione» delle informazioni, ma anche se si considera l’approccio similare. Mondo cane era sostanzialmente un’imprecazione toscana e il comico ligure raccolse i primi consensi politici con il Vaffa-day che era, in concreto, qualcosa di analogo. I Mondo movie, nella parabola che andava da Mondo cane a Africa addio, avevano mostrato potenzialità, di far satira in modo intelligente e stimolante, ma si trovarono a franare –almeno da un punto di vista funzionale se non si vuole ancora tirare in ballo la morale– completamente nel momento in cui le trovate sensazionalistiche, utili a sollevare un’obiezione, un problema, pretesero di divenirne la soluzione. Il fallimento, sostanziale, del «genere» cinematografico, sarà poca cosa rispetto a quello che attenderà il paese in seguito, quando i giullari diverranno giornalisti e, addirittura, leader politici. 




Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE




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lunedì 7 aprile 2025

MAL D'AFRICA

1649_MAL D'AFRICA . Italia, 1967. Regia di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi

Lo squillante suono di una tromba, introduce una vivace musica, mentre le immagini creano un leggero spiazzamento: si intravvede un uomo di colore –del resto, il film che sta cominciando, si intitola Mal d’Africa– poi l’inquadratura si allarga, compare la proboscide di un elefante, e infine si capisce che siamo in uno zoo, non proprio l’ambiente che ci saremmo attesi. Intanto Riz Ortolani, autore della musica, conduce la colonna sonora col solito brio, annunciando i titoli di testa, subito imminenti. Il logo della Cineriz, i caratteri in giallo intenso, il tono delle immagini ironiche e il loro giocare con ambiguità, insomma, sembra davvero di essere in procinto di vedere un documentario «alla Jacopetti». Del resto, alla regia troviamo Stanislao Nievo –citato come Stanis– che era stato fido collaboratore nei film di Jacopetti e Prosperi, nel ruolo di organizzatore delle riprese; e poi la fotografia è curata da un altro fedelissimo del clan, Antonio Climati. Era una situazione anche comprensibile: nel 1966 era uscito Africa addio, film che era costato ingenti quantità di denaro, e che aveva, per altro, reso benissimo al botteghino. Due elementi che spingevano Angelo Rizzoli, titolare della casa di produzione, a proporre l’anno seguente, il 1967, un film che sfruttasse a dovere il momento propizio. Cosa che si poteva fare ottimizzando i costi, recuperando parte del materiale che Jacopetti non aveva utilizzato per il suo film africano. Nonostante tutte queste premesse, Mal d’Africa nel bene e nel male, non può essere considerato una sorta di sequel di Africa addio. È sicuramente un film più onesto, nel cercare di inquadrare la situazione africana con un minimo di criterio storico, ma gli manca il nerbo e la verve tipica di Jacopetti. Sulla presa di distanza dal modello jacopettiano, è evidente che si tratti di una precisa scelta dell’autore. Confermata, tra l’altro, dalle parole della moglie di Nievo, Consuelo: “Jacopetti e Prosperi gli diedero (a Nievo, NdA) del materiale che era rimasto da Africa addio; poi lui girò altre scene per conto suo, cercando di dare al film un tono diverso da Africa addio, un tono meno aspro, meno duro”. [Intervista a Consuelo Nievo, Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 162]. La critica, non diede però molto credito a Nievo. Ermanno Comuzio, concluse così la sua recensione: “Pensavamo che il vezzo jacoppettiano degli spunti impressionistici, delle frenetiche virtuosità dei teleobiettivi e delle «zoomate», dei collegamenti tenuti insieme dalle battute di spirito fosse esaurito. Invece ha fatto nuovi proseliti” [E.C., Mal d’Africa, Il giornale di Bergamo, 18 febbraio 1968, pagina 10]

Il commento, come la critica in generale, per la verità, è un po’ troppo severo. Mal d’Africa è, nel complesso, abbastanza sobrio, e si ascrive a pieno titolo nei Mondo movie solo per alcuni passaggi effettivamente un po’ troppo sopra le righe. Il fatto che ce ne siano quasi per ogni tipologia che contraddistingue il «genere», sostanzialmente i cliché dei Mondo movie, lascia credere che sia una sorta di scelta di appartenenza. In sostanza, Nievo smorza i toni, ma non rinnega i suoi trascorsi. Esempi di questi topoi cinematografici sono l’esecuzione quasi in apertura, che è probabilmente il passaggio più truce del film, le scene di caccia grossa, con l’elefante abbattuto dopo una decina di colpi di fucile, e, immancabile, il passaggio erotico con la scuola di spogliarello che appare davvero improbabile nel contesto complessivo. Interessanti invece i dettagli storici: dall’intolleranza verso i missionari, alla questione boera, alla situazione in Algeria e a quella in Angola. Non comuni anche le pennellate dedicate alla Rhodesia, ai leader africani come Kenyatta fino ai momenti con protagonisti i mercenari o la Legione Straniera. Manca ogni sorta di approfondimento, del resto un documentario di un’ora e mezza su un continente enorme come l’Africa, in anni di continuo fermento, è un’operazione priva di ogni speranza in tal senso. In quest’ottica, forse può dare un po’ fastidio il commento, letto da Nino Dal Fabbro, che prova a darsi un tono che, francamente, a volte sembra gratuito. Curiosità: per «mal d’Africa» in genere si intende la profonda nostalgia che assale coloro i quali abbiano avuto la fortuna di visitare il Continente Nero. Nievo, al contrario, lo utilizza per riassumere un po’ tutti i problemi dell’Africa: scelta legittima, ma vedendo il film si prova appunto nostalgia per il consueto significato. 





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