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martedì 31 marzo 2020

L'UOMO DAGLI OCCHI DI GHIACCIO

544_L'UOMO DAGLI OCCHI DI GHIACCIO ; Italia, Regno Unito, 1971. Regia di Alberto De Martino.

Nel 1971 Alberto De Martino è già un regista che vanta un discreto numero di pellicole al suo attivo, di vario genere e, visto che Gli insaziabili aveva ottenuto una buona distribuzione, prova ad insistere sul genere giallo-poliziesco. Si ripete quindi la formula del film americano girato all’italiana, ma con una sostanziale modifica: se il precedente film disponeva di un cast internazionale (tra cui Dorothy Malone e John Ireland) ed era girato interamente in Italia, per questo L’uomo dagli occhi di ghiaccio succede praticamente l’opposto: si impiegano attori del nostro cinema ma ci si trasferisce in Nuovo Messico per ambientare e soprattutto riprendere in loco la storia. E proprio sulla resa del protagonista principale inciampa un po’ tutta quanta l’architettura imbastita da De Martino: la storia è buona, il ritmo anche, così come l’ambientazione e pure la colonna sonora caratteristica tiene botta ma Antonio Sabato, nel ruolo di prim’attore, convince davvero poco. Meglio, assai molto meglio, Barbara Bouchet, splendida attrice tedesca ormai adottata stabilmente dal cinema nostrano. Peraltro nel cast ci sono anche attori statunitensi, tra questi merita di essere ricordato il bravo e noto Victor Buono, che contribuiscono all’ambientazione americana della storia. Pur essendo un poliziesco, il film non mette al centro un investigatore o un poliziotto, ma un giornalista, confermando l’impressione che si intenda restare nella scia del precedente Gli insaziabili. Va detto che si tratta di una scelta narrativa effettivamente un po’ ardita, nel momento in cui il film è di pura azione e il protagonista, un giornalista, si troverà coinvolto in situazioni che, almeno professionalmente, non dovrebbero vederlo troppo preparato. 



L’impressione generale non è brutta, ma il film sembra più che altro una copia, una sorta di falso: quale significato può esserci nell’andare fino nel sudovest americano per girare una storia del genere? Non si poteva ambientare in Italia? Sono domande illegittime, d’accordo, nel senso che l’autore può e deve, giustamente, fare quello che vuole, ma se avessero una risposta plausibile, dissiperebbero l’impressione di una storia ambientata negli Stati Uniti solo per scimmiottare il cinema americano e trovare un facile e superficiale riscontro nel pubblico. Insomma, un’opera che sembra anche fatta con discreta professionalità, ma troppo impersonale per, non si pretende essere, ma almeno sembrare, vera.   










    

Barbara Bouchet

  






domenica 29 marzo 2020

SIAMO UOMINI O CAPORALI

543_SIAMO UOMINI O CAPORALI ; Italia, 1955. Regia di Camillo Mastrocinque.

Che Totò sia un artista in senso universale è indiscutibile: in genere siamo abituati a vederlo solo come attore e, nello specifico, come attore prevalentemente comico; ma il principe della risata è in realtà un artista a tutto tondo, capace di cimentarsi in diverse discipline artistiche. Siamo uomini o caporali potrebbe essere un efficace esempio della sua poliedricità: nel film, sotto la regia di Camillo Mastrocinque, Totò è cabarettista, attore comico e drammatico e, volendo, anche satirico; suo è il soggetto e collabora anche come sceneggiatore; infine è anche compositore e interprete di una tipica canzone napoletana. C’è quindi molto di Totò, in questo Siamo uomini o caporali, e infatti il film è meno comico, meno leggero, di altre interpretazioni dell’artista napoletano. Purtroppo è proprio questo suo lato più sentito, più vero, ad essere anche il più debole. Intendiamoci, ci sono alcuni passaggi in Siamo uomini o caporali in cui si ride, soprattutto per certe gag rocambolesche (ad esempio quelle negli studi di Cinecittà); da questo punto di vista, il film ha alcuni ottimi spunti comici. Ma, seppur piacevoli e divertenti, questi sprazzi, questi guizzi, non bastano a salvare l’opera da un certo fastidio che suscita il qualunquismo melodrammatico che Totò può, in questo film, spargere a piene mani. Se questa sua tendenza a suscitare pietismo con cui giustificare le proprie disgrazie (ma anche lacune), riaffiora qua e là in quasi tutte le sue interpretazioni, Siamo uomini o caporali ne è invece permeato in tutti i suoi fotogrammi. Ha torto marcio Totò quando dice che ‘caporali si nasce, non si diventa’, arrivando cioè a dividere il mondo in ‘buoni e cattivi’, come nemmeno negli asili insegnano più (se mai l’hanno fatto). 

E vedere il dottore che, in uno dei passaggi seri del lungometraggio, ammette di aver imparato più con il colloquio con Totò che in vent’anni di carriera, farebbe sorridere, se non fosse chiaro che in quel frangente del soggetto, il principe della risata è invece serissimo. La cosa che stride maggiormente è che a salire in cattedra (perché di questo si tratta, della pretesa di Totò di insegnare come si vive) è proprio chi, almeno sullo schermo, ha sempre razzolato male. E’ difficile, anzi impossibile, raccogliere la critica al mondo dello spettacolo e la sua attenzione al solo aspetto estetico della donna, (si veda il colonnello/produttore americano Mr. Black), se poi lo stesso Totò imbastisce un numero cabarettistico che si basa essenzialmente sulle grazie della compagna Sofia (Fiorella Mari). Così come c’è da rimanere basiti nel veder organizzare una satira critica verso il gerarca fascista, mentre si impersona chi truffa, per soldi, la povera gente incolonnata ad aspettare il proprio legittimo turno. 

Quello che proprio non torna, e che mai potrà tornare, è la giustificazione, con Totò nemmeno sottointesa ma direttamente esplicita, che l’ingiustizia diffusa (e qui impersonata dai vari caporali), legittimi l’arte di arrangiarsi truffando non solo la legge ma anche il prossimo, e volendo dirla proprio tutta, fornisca anche un alibi per le colpevoli incompetenze, inefficienze e incapacità.
Questi giudizi negativi sono maggiormente legati alla morale che viene proposta del film, un punto di analisi che potrebbe anche rimanere secondario in un’opera del genere, se non fosse così pesantemente evidenziato dagli autori stessi. 

Tornando all’opera sotto ad un livello più tecnico, l’idea di far interpretare i caporali, ovvero i vari personaggi che approfittano della situazione per maltrattare il prossimo, da un unico attore (Paolo Stoppa) è certamente interessante; in parte identifica meglio il bersaglio della critica nello specifico spezzone di racconto filmico, e può anche essere un’accusa al trasformismo di chi è scaltro a cambiar bandiera pur di non perdere i propri privilegi. Ma, nel complesso, questo nuoce all’armonia del film; questa frammentazione della trama, nella quale abbiamo diverse situazioni in cui Totò (l’uomo) è contrapposto ai vari caporali (il capo delle comparse, il gerarca fascista, l’ufficiale nazista, il colonnello americano, il direttore di giornale, il figlio dell’industriale), alla fine è gestita in modo troppo grezzo.
Insomma, un film che non funziona, ma non si può dire ‘nonostante Totò’: il comico napoletano è infatti, almeno in questa occasione, il primo della lista degli insufficienti.




Fiorella Mari



venerdì 27 marzo 2020

CHIAMATE NORD 777

542_CHIAMATE NORD 777 (Call Northside 777); Stati Uniti, 1948. Regia di Henry Hathaway.

La presenza sullo schermo di James Stewart è già una buona garanzia e anche il regista Henry Hathaway non è certo un novellino, avendo diretto già diversi lungometraggi tra cui I lancieri del Bengala nel 1935 e Il bacio della morte nel 1947. Chiamata Nord 777 nasce quindi sotto i migliori auspici e non delude le attese. Il curioso titolo fa riferimento ad un annuncio pubblicato su un quotidiano: il tema è quindi il potere della  stampa che, nel corso della storia raccontata, si sostituisce alla Giustizia, rimediando con un inchiesta giornalistica del reporter P.J. McNeal (il nostro Jimmy Stewart) ad un grave torto commesso da quest’ultima istituzione. Lo stile dell’opera è consono al tema, visto che siamo assistiti da una voce fuori campo che ci guida, come fossimo in una sorta di cinegiornale, lungo le indagini giornalistiche di McNeal. La definizione dei vari protagonisti del racconto è di notevole caratura: se è prevedibile quella di McNeal a cui Stewart presta la sua enorme carica umana, lasciano favorevolmente impressionati anche gli altri personaggi. Franco Wiecek (interpretato da Richard Conte), l’orgoglioso e dignitoso innocente ingiustamente condannato; il direttore del giornale Brian Kelly (Lee J. Cobb) abile nello stuzzicare il suo reporter migliore; e a suo modo notevole è la terribile Wanda Skutnik (Betty Garde), la donna che falsamente accusa Wiecek. Compensano la brutta impressione di questa poco edificante esponente del genere femminile le altre tre donne della pellicola: l’accorata madre del Wiecek che dà il via alla storia pubblicando l’annuncio; la moglie, fedele fino al punto di prestare ascolto alla richiesta del marito divorziando per poi risposarsi (naturalmente questi stratagemmi sono fatti a ragion veduta, nello specifico per il bene del figlioletto); resta da citare Laura (una deliziosa Helen Walker) la moglie di McNeal. Un bel poliziesco, solido e divertente. A voler essere pignoli, visto il taglio realistico dell’opera, il colpo di scena finale sembra un po’ forzato, col dettaglio della data sul giornale che rimane visibile nonostante i ripetuti ingrandimenti. Ma è un dettaglio, appunto.   








Helen Walker




mercoledì 25 marzo 2020

IL MISTERO DELLA CAMERA GIALLA

541_IL MISTERO DELLA CAMERA GIALLA (Le mystère de la chambre jaune) ; Belgio, Francia 2003. Regia di Bruno Podalydès.

Tratto da quello che è considerato un caposaldo della letteratura gialla, l’omonimo romanzo di Gaston Leroux del 1907, Il mistero della camera gialla di Bruno Podalydès è un divertente adattamento che ricorda, nelle atmosfere costantemente spruzzate di ironia, il fumetto Tin Tin. Sotto questo aspetto, il film è certamente gradevole; i personaggi sono tutti un po’ buffi, simpatici o comunque visti sotto una luce bonaria. Il mistero della camera gialla si presenta come il più puro dei whodonit, termine che è una contrazione di who has done it? ovvero chi l’ha fatto?, chi è stato?, usato per definire il giallo deduttivo. E qui occorre mettere un piccolo avviso: attenzione alle anticipazioni sugli sviluppi dell'intreccio che, parlando di un testo simile, finiscono per essere inevitabili. Una volte annunciato gli eventuali spoiler possiamo dire che, in fin dei conti, quello in questione è un non-mistero. Nel senso che la soluzione svela che non c’era praticamente niente da scoprire, almeno non nella camera gialla quando si ipotizzava il tentativo di omicidio. Certo, c’erano dei precedenti e dei trascorsi che giustificano tutta quanta la situazione che si viene a creare ma, di fatto, di concreto, non è successo niente di quello che si pensava. Il che è anche uno spunto interessante di riflessione su questo genere di storie: in pratica, uno dei cardini della letteratura gialla deduttiva confessa il suo essere un mero pretesto senza alcuno scopo concreto. Il film, da parte sua, cerca di dare un po’ di colore, con un tocco di eleganza e un po’ di bizzarria, ma la matrice d’origine rimane ben visibile. Come si dice per giustificare le somiglianze dei figli coi genitori: la mela non cade lontano dall’albero. In ogni caso, se avete voglia di lambiccarvi il cervello seguendo le strampalate teorie che giustificano la vicenda, allora Il mistero della camera gialla è il vostro film. Ma sappiate che, se siete appassionati di soluzioni che appaghino il mero palato giallista, rischiate di rimanere a bocca asciutta. Sebbene, in quest’ottica, pare che proprio questa sia considerata l’idea geniale.








Sabine Azéma




lunedì 23 marzo 2020

I CINQUE DELL'ADAMELLO

540_I CINQUE DELL'ADAMELLO ; Italia 1954. Regia di Pino Mercanti.

Curioso film che racconta di cinque alpini rimasti sepolti sotto una coltre di ghiaccio durante la Prima Guerra Mondiale, I cinque dell’Adamello di Pino Mercanti, riesce, pur con qualche fatica di troppo, a portare a casa un risultato più o meno dignitoso. Non è certo un capolavoro, è evidente, e nemmeno un film di particolare rilievo: ma Mercanti ci mette cura nell’imbastire la sua trama corale e anche se non possiede il ritmo narrativo per appassionare con quello lo spettatore, si aiuta in quel senso con i tanti intermezzi musicali. Le tante canzoni, nel film, più che far pendere il genere della pellicola verso il musical, cercano di alleggerire la narrazione restituendo, nel contempo, l’atmosfera del tempo, e quest’ultima cosa in modo certamente efficace. Possono invece poco per dare più verve al testo, che è anche gravato da alcuni orpelli stucchevoli come i ripetuti stacchi palesemente ridondanti (la bambola punita picchiandola sul lavandino che si dissolve nell’analogo movimento della bacchetta dell’ausiliario nella classe scolastica e via di questo passo). E va anche detto che il tema degli accennati struggenti passaggi musicali di fatto alimenta la vetusta retorica dell’epoca che, nel film, fa più di qualche capolino qua e là. Può essere che, nel 1954, con l’Italia che faticava ad uscire dal dopoguerra, si cercasse di recuperare lo spirito patriottico legato alla Grande Guerra, ma di fatto il ricorso ai temi d’annunziani fa correre più di un rischio al tenore del racconto. E’ un peccato, dal punto di vista cinematografico, perché si tratta di uno stile pesante ed eccessivo, ma non se consideriamo l’opera come una sorta di ‘documento storico’ su un certo modo italiano, retorico ed accorato, di ‘raccontare’ la patria. Questi aspetti, certamente presenti nel film, non lo permeano del tutto, perché la storia corale ha il vantaggio di avere tanti personaggi, in particolar modo i cinque alpini poi finiti sotto ghiaccio che, con la loro carica umana, chi più chi meno, alleggeriscono i toni e rendono anche divertente il racconto. La vicenda narrata è un lungo flashback, incorniciato dalle scene ambientate nei più recenti giorni in cui furono rinvenuti i poveri alpini. 

Tra gli interpreti Fausto Tozzi è Leonida, figlio di uno dei cinque alpini del titolo, un giornalista piuttosto scettico sull’opportunità di andare a recuperare le salme; teme che la retorica popolare e delle istituzioni sia in agguato, non sospettando il tiro mancino che gli riservano gli autori. Proprio mentre commenta con disappunto la preghiera rivolta dai suoi compaesani ai cinque caduti, che sono stati riseppelliti sotto una nuova valanga, il vento gli porta tra i piedi il cappello di uno di loro, che scopre essere quello di suo padre. Passaggio in tutta onestà davvero eccessivo ma, a quel punto, persino tollerabile. Il padre di Leonida, Renato è l’alpino di idee rivoluzionarie interpretato da Franco Balducci; Mario Colli è Momi, il padre della bambina un po’ capricciosa; Dario Michelis è il d’annunziano Pinin; Walter Santesso è Piero, il ricco che vuole fare l’inventore; Attilio Bossio è Doschei, il contrabbandiere. 

Buone comparse, ma nessuno con il piglio giusto per prendersi sulle spalle la storia e dargli almeno un bello strappo: e così quello che rimane è un lavoro collettivo comunque poco incisivo. Volendo, meglio fanno le ragazze della storia: perlomeno tra loro c’è un’attrice di rango come Nadia Gray, a cui bastano pochi minuti nei panni di Magda, la vedette del varietà, per tratteggiare un personaggio affascinante, probabilmente il migliore del film. Certo, il Phisique du Role l’aiuta, questo è innegabile; ma, che ci volete fare, il cinema è un arte prevalentemente visiva. E anche Piera Simoni e Rita Rosa, pur non essendo interpreti particolarmente memorabili, se la cavano in modo dignitoso. Ma certo non sono questi gli elementi che possano salvare I cinque dell’Adamello. Nel complesso il film risulta interessante perché  riporta alla memoria un’idea patriottica diffusa ai tempi della Grande Guerra e che la situazione tragica del secondo dopoguerra aveva certamente disperso. Sul piano prettamente cinematografico, con gli elementi a disposizione, si poteva certamente far meglio, ma tant’è.       


Sonia Gray