Translate

sabato 30 marzo 2019

UNA PISTOLA PER RINGO

325_UNA PISTOLA PER RINGO . Italia, Spagna, 1965;  Regia di Duccio Tessari.

Duccio Tessari era stato tra i collaboratori alla sceneggiatura di quel Per un pugno di dollari di Sergio Leone che aveva consacrato la nascita del western all’italiana. E’ quindi naturale scorgere in Una pistola per Ringo, suo folgorante e personale apporto al filone degli spaghetti, alcune assonanze col capolavoro leoniano. Innanzitutto il personaggio protagonista, Ringo, a cui dà volto e prestanza Giuliano Gemma, può essere inteso come una versione più scanzonata del pistolero senza nome interpretato da Clint Eastwood: carisma forse meno internazionale e più fumettistico, ma nemmeno più di tanto; comunque Gemma si rivela perfetto per il ruolo di allegro anti-eroe in apparenza cinico e venale ma, appunto, solo in apparenza. Anche in Una pistola per Ringo il tema del gioco è costantemente presente, anche in modo più consistente rispetto a Per un pugno di dollari: oltre a dilettarsi continuamente in qualche divertente passatempo, nella scena di apertura, Ringo, che sta appunto giocando alla campana (il gioco con le caselle disegnate col gesso sul pavimento) con alcuni ragazzini, arriva ad uccidere, in sostanza proprio per gioco, i quattro fratelli decisi a vendicare il quinto, già precedentemente fatto fuori dal nostro eroe. Rispetto a Leone, Tessari accentua appunto l’aspetto giocoso, ma lo fa per stemperare in modo più evidente la violenza, connotando tutta la sua opera di un gusto farsesco che è bravo a tenere in equilibrio con le scene di azione e avventurose tipiche del genere. 

In questo modo anche le uccisioni in avvio perdono la loro carica drammatica e il loro peso morale sul protagonista: è evidente che Ringo uccide per gioco (per finta, come si usa dire da bambini e, in effetti, il cinema è proprio finzione), visto che tutto quanto il film è un grande giocattolo con cui potersi divertire. Del resto lo stesso Ringo, ad un certo punto, simula una sorta di plastico, improvvisando, con l’ausilio di frutta e posate, i soldatini dei cow boy, abitualmente diffusi tra i ragazzini. Senza dimenticare che, proprio come un bravo bambino, Ringo beve latte e non whiskey. Tra le analogie più marcate con l’archetipo leoniano degli spaghetti-western è anche il riferimento alla commedia dell’arte, quell’Arlecchino servo di due padroni di Carlo Goldoni già richiamato dal comportamento del personaggio di Eastwood e qui ripreso da quello di Gemma, che rimane a prima vista in bilico tra i buoni capeggiati dallo sceriffo Dan (George Martin) e i banditi di Sancho (Fernando Sancho). 

La caratteristica peculiare di Una pistola per Ringo è quindi l’ironia diffusa in tutto il lungometraggio, con numerose battute particolarmente brillanti e divertenti; la capacità di Tessari è quella di utilizzarla per smorzare gli effetti degli eccessi nei passaggi violenti, davvero notevoli, trovando una giusta alchimia che permetta di godere del film prevalentemente come opera di avventura credibile, senza cioè scadere nella farsa. Purtroppo c’è sempre qualche imprecisione di troppo, in queste produzioni nostrane, sempre protese verso l’efficacia scenica a discapito della logica narrativa. In questo caso, ad esempio, stupisce che si possa mostrare insistentemente la giacca di Pancho con fori di proiettili all’altezza della spalla sia davanti che dietro, rimediati dal bandito durante la rapina alla banca. La cosa è quantomeno curiosa, visto che Ringo, per farsi accettare dai banditi, estrae il proiettile dalla spalla del messicano, evitandogli la cancrena; ma, a questo punto, non si capisce come ci possa essere anche il foro del proiettile nel retro dell’indumento del bandito, che appare in tutto e per tutto il foro di uscita del proiettile stesso. 


Si tratta di una svista, certamente di secondaria importanza, ma che rivela il grado di approssimazione che, troppo spesso, le produzioni italiane hanno manifestato faticando a compiere il salto di qualità più complessivo che, probabilmente, passerebbe anche dall’evitare errori tanto gratuiti. Peccato per questi piccoli nei, perché nel complesso si tratta sicuramente di un film divertente e divertito, reso memorabile dai ripetuti tormentoni (“è una questione di principio”) o dai proverbi storpiati, alleggerito dalle battute scherzose, e sorretto da una sana e robusta dose di azione a suon di pugni e revolverate. 

Così come Fernando Sancho e i suoi sgherri sarebbero perfetti anche sulle pagine degli albi di Tex, il Ringo faccia d’angelo di Giuliano Gemma è un perfetto eroe da fumetto, aitante e agile, aiutato in modo opportuno per essere tanto efficace sullo schermo cinematografico, dal doppiaggio di Adalberto Maria Merli. Insomma, Tessari ha coraggio, prende grosso modo gli stessi ingredienti di un maestro come Leone ma li dosa in modo più leggero e, se Per un pugno di dollari è un capolavoro, Una pistola per Ringo è quantomeno un buonissimo film e una pagina memorabile del western all’italiana.



Hally Hammond aka Lorella De Luca






Nieves Navarro





giovedì 28 marzo 2019

I DUELLANTI

324_I DUELLANTI (The duellist)Regno Unito, 1977;  Regia di Ridley Scott.

A conti fatti, forse I duellanti è comunque un film pacifista. E se lo è, lo è in modo curioso, perché nell’opera il codice d’onore cavalleresco, che è uno dei pilastri della dottrina militare, non è messo in discussione apertamente. Ci sono due ufficiali Ussari dell’esercito di Napoleone, Armand D’Hubert (Keith Carradine) più raffinato, e Gabriel Feraud (Harvey Keitel) più ruspante: per un futile motivo, Feraud sfida a duello d’Hubert. Nella contesa ha la peggio il primo, che rimane ferito ad una mano: questo finisce per aggravare l’odio di Feraud per il rivale, e tutto il film sarà costellato da i loro ripetuti duelli. In sostanza, i due ufficiali francesi sono le facce della stessa medaglia (d’onore): da una parte il nobile codice cavalleresco, dall’altra la sete di sangue e il piacere per la sfida, sebbene sempre nelle regole del suddetto senso dell’onore. Per quanto la prima faccia della medaglia, a cui corrisponde D’Hubert, ci appaia più nobile e rispettabile, essa è legata in modo indissolubile alla seconda. E’ il codice d’onore che le unisce; un uomo d’armi può essere ragionevole fin che si vuole, ma se viene sfidato non può sottrarsi alla contesa. Questo vincolo è la quintessenza della follia della guerra; questo ideale che viene spacciato per onore, e che altro non è che orgoglio mal riposto, è la malta cementizia che permette la politica guerrafondaia che dai tempi antichi non è mai passata di moda. E’ per questo motivo, per questa indissolubilità delle due facce della medaglia, che D’Hubert salva la vita due volte a Feraud, prima evitandogli la condanna a morte, poi risparmiandogli il colpo di pistola definitivo. D’Hubert spera, nel commento finale, di controllare Feraud, sempre basandosi sul codice d’onore cavalleresco. 
Qui sta’ un po’ il dubbio: Ridley Scott, il regista, vuole forse dirci che è possibile tenere imbrigliata la nostra metà oscura, anche in ambito militare? Tutto il film è sembrato dirci di no, visto che D’Hubert è costretto, suo malgrado ma per dovere cavalleresco, a duellare per la vita nei continui scontri con Feraud. Ma il finale un dubbio ce lo lascia.
Non ci lascia dubbi invece l’abilità e la bravura di questo giovane regista inglese, Ridley Scott, che con il suo primo lungometraggio si mette subito in luce per un talento fuori dal comune.
L’idea di un film in costume, per un esordiente, è di notevole ambizione, perché oltre ai problemi strettamente tecnici in senso cinematografico, questo genere di pellicole presenta ulteriori ostacoli legati all’ambientazione, alle scenografie, ai costumi. 

In risposta a ciò la confezione dell’opera è superba, con particolare merito per le scene dei duelli e per le ambientazioni militari. Suggestive, anche se più oniriche che realistiche, le scene ambientate sul fronte russo danno l’idea della capacità espressiva molto personale del regista.
Volendo, questa superba abilità estetica di Scott serve a mascherare alcuni limiti del lungometraggio, forse un po’ troppo ancorato al solo aspetto simbolico del codice d’onore cavalleresco; l’opera manca infatti di profondità e i personaggi si muovono eccessivamente solo sui propri binari fissi nell’estenuante ripetizione dei duelli.
E quindi sufficiente la forza evocativa delle immagini, come unico complemento alla struttura simbolica del testo? Almeno per questo I duellanti, la risposta è si, la ricetta ha funzionato alla grande. 



Diana Quick



Gay Hamilton


Jenny Runacre



martedì 26 marzo 2019

SEI SOLO, AGENTE VINCENT

323_SEI SOLO, AGENTE VINCENT (L.A. Takedown)Stati Uniti, 1989;  Regia di Michael Mann.

Il talento è una cosa difficile da tenere nascosta; specialmente al cinema, visto che il lavoro dell’autore viene spiattellato sullo schermo. In questo caso, in Sei solo, agente Vincent (titolo italiano, tanto per cambiare, piuttosto arduo da connettere col testo filmico), lo schermo previsto era quello televisivo, perché il lavoro di Michael Mann doveva essere una sorta di episodio pilota di un progetto seriale poi non andato in porto. Di questo aspetto rimangono alcune tracce: l’importanza data a Los Angeles dal punto di vista visivo, con le ripetute panoramiche aeree sulla città, o la colonna sonora rockeggiante sulle note di L.A. woman dei Doors nell’interpretazione di Billy Idol. Si tratta di classici elementi delle fiction televisive dell’epoca (e non solo), che per altro non disturbano la fruizione dell’opera in se stessa. Perché in fin della fiera Sei solo, agente Vincent funziona molto bene come poliziesco, nel quale, tra l’altro, a detta dello stesso regista, Mann prese le misure per girare, sei anni dopo, il remake The heat-La sfida, capolavoro con Rober De Niro e Al Pacino. Però è pericoloso scomodare quel formidabile esempio di cinema degli anni novanta, in quanto è chiaro che Sei solo, agente Vincent ne uscirebbe con le ossa rotte sotto tutti gli aspetti, primo fra tutti il confronto d’attori. Per quanto Scott Plank (Vincent Hanna, il poliziotto) e Alex McArthur  (Patrick McLaren, il rapinatore), facciano la loro parte, è evidente che si tratta di due attori di medio cabotaggio, buoni per una fiction o poco più. E tipici di un prodotto televisivo (e nemmeno dei migliori, ad onor del vero) sono anche i dialoghi, in particolar modo quelli sul versante sentimentale, davvero troppo didascalici per essere credibili. 

E non si pensi che, in un film d’azione, questo sia un limite relativo: i rapporti con le rispettive compagne, Lilyan (Ely Pouget), fidanzata di Vincent, e Eady (Laura Harrington) la ragazza che incontra Patrick, fanno parte di un gioco di specchi narrativo da non sottovalutare. Perché Mann, anche in un prodotto come questo, in genere non così raffinato da questo punto di vista, utilizza un linguaggio narrativo strutturato, con una serie di rimandi e contro-rimandi che rendono perfettamente comprensibile il rapporto speculare tra i due uomini al centro della storia. Innanzitutto i due personaggi sembrano entrambi uscire direttamente dalla serie TV Miami Vice (di cui Mann era il produttore esecutivo) e, curiosamente, sembra proprio il cattivo, Patrick, ad assomigliare maggiormente a Don Johnson, che nel telefilm era uno dei detective protagonisti. 

Nella loro vita professionale, tutte e due sono i leader del proprio gruppo di lavoro: determinati, efficienti, carismatici, a volte anche sbrigativi. Inoltre, entrambi hanno alle spalle un’organizzazione che lavora per loro, e qui va detto che è sorprendente la struttura di quella malavitosa. La simmetria diventa speculare quando i due personaggi si scambiano ripetutamente i ruoli tra spia e spiato, e quest’idea si rafforza negli sviluppi sentimentali. All’inizio della storia Vincent è felicemente accasato (il film comincia con lui e Lilyan che fanno l’amore), mentre Patrick non ha la compagna; poi le situazioni si rovesciano. Infine, poco prima del finale, quasi in un montaggio alternato, osserviamo la ricomposizione della coppia dei buoni, mentre il cattivo rimane di nuovo da solo. 

C’è anche un punto di incrocio, tra queste due storie intrecciate: quando Patrick e Vincent si incontrano casualmente al parcheggio, si riconoscono e si bevono un  caffè insieme, parlando tranquillamente della loro situazione di avversari. Si, avversari e non nemici, perché c’è una sorta di rispetto reciproco per le capacità altrui; ma avversari mortali, sia chiaro. Al di là delle lodevoli e intuibili intenzioni, Mann non riesce comunque, bisogna ammetterlo, a dare spessore a questi suoi personaggi. Scott Plank non è troppo credibile quando recita al poliziotto coscienzioso; meglio sembra andare a Alex McArthur, che deve rendere l’idea di un uomo reso duro e spietato dalle circostanze, ma il risultato è comunque troppo semplicistico. Pur con questi presupposti, si intuisce che il poliziotto è un tipo tosto ma onesto e il bandito è un criminale che però ha un suo codice d’onore: in fondo non c’è tutta questa differenza, come appunto esplicitato visivamente dalla specularità della struttura del film. O forse c’è ma, sembra dirci il regista, a difesa del fuorilegge va riconosciuto che se si incappa nel bivio sbagliato, poi la vita di porta su una cattiva strada dalla quale è impossibile (o quasi) fare marcia indietro. E in ogni caso c’è differenza tra l’essere un criminale come Patrick o come Waingro (Xander Berkeley): Mann dimostra non solo di apprezzare la coerenza (pur nell’essere un bandito) del primo nei confronti del secondo, ma anche la superiore efficienza e professionalità (anche se riferite ad attività illecite) . Il regista sembra infatti mettere in dubbio l’importanza di un quadro morale per valutare la situazione generale, come se questo fosse unicamente una convenzione. 

Ci sono i buoni e ci sono i cattivi, d’accordo, ma in fondo possono essere interpretati in modo molto simile, e quindi potrebbe essere facile cadere in errore. In questo senso si può cogliere la presenza, all’interno degli agenti della squadra di Vincent, di Bosko, interpretato da quel Michael Rooker che è stato battezzato cinematograficamente dal lapidario e folgorante Henry pioggia di sangue (1986, regia di John McNaughton) che dell’assenza di una struttura morale al suo interno faceva il suo sconvolgente punto di forza. E’ un peccato, perciò, che un film tanto ricco di spunti si perda poi nella banalità dei dialoghi sentimentali o in abbozzi poco approfonditi della trama (come la pista delle prostitute ammazzate).  
Però, che passaggio, quello nel finale: dopo una violentissima sparatoria, ferito in modo letale, Patrick confida al rivale che Eady l’ha lasciato, e sta quindi morendo solo come un cane. Ma Vincent non può permetterlo, e allora si ferma con lui, in un momento di grande solidarietà umana; il quadro morale c’è eccome, nel cinema di Michael Mann, soltanto non è quello conformista a cui siamo abituati. L’unica morale che merita rispetto la fa il valore degli uomini e, in qualche caso, c’è qualcosa di morale in loro anche se stanno dalla parte sbagliata. 



Ely Pouget







domenica 24 marzo 2019

LA PANTERA ROSA

322_LA PANTERA ROSA (The Pink Panther)Stati Uniti, 1963;  Regia di Blake Edwards.

La Pantera Rosa che da il titolo all’opera di Blake Edwards è una gemma preziosa che un famigerato ladro, detto la Primula (alias Sir Charles alias David Niven) vuole rubare. Prima di addentrarci nei dettagli del lungometraggio vero e proprio, va subito precisato che le gemme in quest’opera sono tre e non una sola: oltre alla pietra, c’è il cartone animato dei titoli di testa, una simpaticissima pantera rosa, appunto, e il tema musicale che li accompagna, del validissimo Henry Mancini. Non è che si voglia delegittimare l’importanza della storia narrata poi nel film vero e proprio, ma si ha l’impressione che si tratti di una pellicola che rimarrà nella storia più che altro per gli straordinari titoli di apertura. Ma questo non vuol dire La Pantera Rosa abbia poi uno sviluppo brutto o noioso; tutt’altro. Oltre a Niven, il cast è di prim’ordine: Peter Selles è lo spassoso Ispettore Clouseau, di cui l’elegante Capucine la moglie Simone; una Claudia Cardinale in buona forma la principessa Dala e Robert Wagner è George, il nipote di Sir Charles. Blake Edwards gioca con la commedia e i suoi tempi con leggerezza, senza forzature; i colori pastello dipingono le immagini come cartoline, come perenni feste in costume. I personaggi si mascherano e si scambiano di ruolo, le coppie si formano e si lasciano: Simone è la moglie di Clouseau e l’amante di Sir Charles ma deve sedurre George; Sir Charles è l’amante di Simone ma deve sedurre la principessa Dala; tra la stessa Dala e George non fa in tempo a scoccare la scintilla, ma ci si va vicino. In mezzo a questi intrecci, l’Ispettore Clouseau cerca di catturare la Primula e di fare l’amore con la moglie Simone, senza riuscire in nessuna delle due cose e senza accorgersi che nella sua stanza ci sono Sir Charles e George, mentre entrano ed escono fattorini e cameriere.  
Il tutto, come detto, con leggerezza e comicità, soprattutto grazie a Peter Selles, vero mattatore della pellicola. Edwards dirige con tranquillità il suo lavoro, sempre con puntuale garbo, ma se volgiamo farli un appunto, sopravvaluta le capacità di David Niven: è un bravo attore, ma non ha tutta quella classe ostentata, e se portato per le lunghe, come nella scena della seduzione con la Cardinale, mostra il fiato corto.
Ma si tratta di un peccato veniale, ben inteso: La Pantera Rosa è un film divertente e divertito, come abituale quando di mezzo c’è Blake Edwards.










Capucine








Claudia Cardinale