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mercoledì 31 maggio 2023

PHILO VANCE: LA FINE DEI GREENE

1284_PHILO VANCE: LA FINE DEI GREENE Italia,1974; Regia di Marco Leto.

Il terzo episodio della miniserie dedicata a Philo Vance, è tratto dal terzo romanzo di S. S. Van Dine (pseudonimo di Willard Huntington Wright), come del resto erano stati cronologici i due capitoli precedenti. In totale i libri dedicati al raffinato dandy newyorkese furono ben dodici: chissà se negli intenti della Rai ci fosse, all’epoca, l’idea di portarli tutti sullo schermo. In quel caso, la decisione di fermarsi alla prima stagione composta dai primi tre episodi distribuiti in sei serate, venne probabilmente maturata dal modesto risultato qualitativo dell’opera. Intendiamoci: nel complesso sono sceneggiati che si lasciano vedere con sufficiente piacere, aiutati, in questo, dalla trama gialla dei racconti che finisce sempre per coinvolgere. Ma troppi sono i limiti mostrati qua e là dall’operazione, alcuni legati alla trasposizione di Marco Leto, in regia piuttosto scialbo, ma più di qualcuno già intrinseco nell’opera letteraria. A partire dal carattere del protagonista, Philo Vance, (interpretato con trasposto da Giorgio Albertazzi) aristocratico personaggio che, nell’aiutare il suo amico procuratore distrettuale Markham (Sergio Rossi) troppo spesso esagera con il suo ostentato snobismo. Per la verità oggetto delle sue sprezzanti osservazioni è più il sergente Health (Silvio Anselmo) che non l’amico procuratore, ma l’indirizzo è, abbastanza scopertamente, la metodica d’indagine deduttiva. Quella di Sherlock Holmes o dei romanzi di Agatha Christie, che l’opera di S.S. Van Dine voleva in sostanza prendere un po’ in giro. Come tutti i progetti impostati sull’ironia, anche quello dedicato a Philo Vance ha scadenza piuttosto breve perché l’umorismo ai danni di qualcosa dura finché non si sono capiti i limiti dell’oggetto della satira, dopodiché la cosa comincia a divenire noiosa. Un problema solo sfiorato dagli sceneggiati Rai, che si fermarono, come detto, al terzo episodio ma che emerse, probabilmente in tutta la sua importanza nell’opera letteraria: un critico dell’epoca definì il declino degli ultimi romanzi davvero evidente nonché il nono degli stessi l’ultima palata di terra sulla tomba letteraria sulle avventure di Vance. La fine dei Greene non è però questa tragedia e si lascia guardare, sebbene i passaggi forzati o quantomeno poco chiari – su tutti i meccanismi nascosti o l’idea che la colpevole arrivi a spararsi per depistare i sospetti – lasciano alquanto perplessi. Poco intrigante anche il cast di contorno, questa volta – da citare almeno Micaela Esdra, Anna Maria Gherardi, Tino Bianchi – un po’ sbiadito come il ricordo che lascia l’episodio e forse anche l’intera serie.  



Michaela Esdra 


Anna Maria Gherardi 


martedì 30 maggio 2023

PHILO VANCE: LA CANARINA ASSASSINATA

1283_PHILO VANCE: LA CANARINA ASSASSINATA Italia,1974; Regia di Marco Leto.

E’ curioso che debba essere un episodio di una miniserie televisiva nemmeno troppo riuscita a darci un saggio di quello che avrebbe potuto essere la carriera di Virna Lisi, una delle attrici meno valorizzate del nostro cinema. Intendiamoci: la Lisi ha un curriculum e una considerazione di tutto rispetto, questo è evidente. Eppure quasi nessuno la pone sul piano di Sophia Loren o di Gina Lollobrigida, per citare giusto due nomi del nostro cinema. Certo, questo, si può azzardare, accadde anche in seguito ad una precisa scelta dell’attrice marchigiana quando, per citare un passaggio chiave della sua carriera, nel 1968 ruppe il contratto con la Paramount perché non voleva recitare troppo discinta nel film Barbarella (regia di Roger Vadim). Film che, tanto per capirci, lanciò definitivamente Jane Fonda nell’olimpo delle star di Hollywood. Come noto la Lisi, tornata in Italia, seppe poi farsi valere nell’ambito del cinema nostrano più impegnativo ricevendo premi e consensi della critica. Tuttavia è curioso come, soprattutto nel nostro paese, si veda sempre in contrapposizione la presenza scenica con la capacità interpretativa, tanto che c’è chi si stupì che la Lisi, a quel punto della carriera, sapesse anche recitare. Il secondo episodio della serie dedicata a Philo Vance dà invece una sorta di dimostrazione di quella che avrebbe potuto essere la carriera dell’attrice marchigiana se avesse preso altre decisioni. La serie in questione è imperniata sulle vicende del dandy newyorkese degli anni 30 investigatore per diletto, interpretato da Giorgio Albertazzi e, pur se interessante, non è certo un capolavoro della televisione italiana. Nel citato secondo episodio, La Canarina assassina, Virna è una cantante di cabaret, detta appunto la Canarina, sul cui omicidio Vance è chiamato ad investigare, invitato dall’amico procuratore distrettuale Markham (l’imperturbabile Sergio Rossi) con buona pace dello stolido sergente Health (Silvio Anselmo). L’intreccio, che si basa sul romanzo omonimo di S. S. Van Dine (al secolo Willard Huntington Wright), è valido, un filo ingarbugliato ma senza guastare più di tanto la fruizione. Albertazzi gigioneggia da par suo, Marco Leto in regia è defilato, la scenografia è modesta ma lascia spazio alla verve teatrale degli interpreti per un equilibrio che tutto sommato viene raggiunto. Non eccezionali i momenti musicali, tanti considerato il tema del racconto, e forse si poteva inserire delle versioni più riuscite delle canzoni, anche doppiando eventualmente in quei frangenti le interpreti. Oltre alla Canarina protagonista, che ha largo spazio nel film grazie all’uso ripetuto del flashback, le presenze femminili sono rilevanti e si possono ricordare almeno Lia Tanzi, deliziosa, e Anna Zamboni, miss Italia 1969. Ma torniamo alla Lisi: nel film interpreta una diva che basa il suo successo sulla sua avvenenza fisica, cosa che Virna riesce perfettamente ad incarnare. Ma poi emerge anche la sua sponda drammatica, quella di una donna di umili origini che cerca sgomitando di affermarsi nel bel mondo degli anni 30 americani. Insomma un ruolo completo, non solo legato alla sua presenza scenica e che l’attrice marchigiana risolve da grande interprete. E da grande diva, non essendo, le due cose, affatto in contraddizione. Ma, purtroppo per lei, La Canarina assassinata non è uno di quei film memorabili che rendono immortali i suoi interpreti ma solo un onesto sceneggiato televisivo.





Virna Lisi 




   Lia Tanzi 



lunedì 29 maggio 2023

PHILO VANCE: LA STRANA MORTE DEL SIGNOR BENSON

1282_PHILO VANCE: LA STRANA MORTE DEL SIGNOR BENSON . Italia,1974; Regia di Marco Leto.

Conoscendo l’istrionismo di Giorgio Albertazzi, non si rimarrà certo sopresi o spiazzati di fronte all’incipit del primo episodio della miniserie Rai dedicata al bizzarro ‘investigatore per diletto’ Philo Vance. Nell’attacco de La strana morte del signor Benson, Albertazzi introduce infatti alla sua maniera – parlando direttamente agli spettatori – il personaggio che interpreta, protagonista dei gialli di S. S. Van Dine (pseudonimo di Willard Huntington Wright) ambientati nella New York degli anni 30 del XX secolo. Vance è un eccentrico critico d’arte che collabora giusto per curiosità con la polizia, mettendone alla berlina i metodi investigativi ordinari. In effetti, detta così, Vance non è che susciti troppa simpatia; ma è un aspetto che lo stesso Albertazzi anticipa, nel suo citato cappello introduttivo. In realtà, perlomeno il Vance di Giorgio Albertazzi non è antipatico più di tanto – almeno in questo primo episodio – anche perché l’attore toscano ha un tale carisma da riuscire comunque convincente perfino quando si diverte a fare il presuntuoso con il suo piglio autocompiaciuto. Nel complesso La strana morte del signor Benson è un’opera riuscita: l’origine letteraria garantisce solidità che il bravo Biagio Proietti, coadiuvato da Belisario Randone, adatta con efficacia ai tempi dello sceneggiato Rai dell’epoca. La regia di Marco Leto è discreta, c’è forse qualche inserto d’ambientazione – immagini d’epoca degli anni 30 newyorkesi o cose del genere – che si potevano anche evitare, ma sembrano peccati veniali. Le scenografie sono modeste ma presto ci si adegua e la verve attoriale di matrice teatrale degli interpreti occupa adeguatamente gli spazi lasciati liberi dalla povertà della messa in scena. Albertazzi va sul velluto in un ruolo che si vede benissimo che lo diverte e il suo pavoneggiarsi negli eleganti panni del dandy americano contribuisce a definire ancora meglio il personaggio. A fargli da spalla, due poliziotti che, come prevedibile a questo punto, sono costretti a svolgere la parte degli ottusi. L’impassibile procuratore distrettuale Markham interpretato da Sergio Rossi non sembra curarsi dei continui smacchi ricevuti mentre ancora più sbertucciato è il sergente Health che Silvio Anselmo ha il suo bel daffare a rendere convincente. In principio, infatti, nell’enfatizzazione del carattere poco acuto del sergente, Anselmo qualche volta esagera, in un limite che emerge spesso negli sceneggiati dell’epoca, recitati spesso su un tono troppo accentuato. Con l’andar del tempo, un po’ gli interpreti trovano il registro giusto, un po’ lo spettatore si adegua, e tutto fila se non proprio per il meglio in modo comunque più che dignitoso. Insomma, nel complesso La strana morte del signor Benson lascia una buona dose di curiosità di vedere all’opera il nostro Vance e i suoi amici nel successivo episodio. Tra le note liete da segnalare manca da evidenziare l’attenzione dell’opera al gentil sesso nell’ottica del tempo, affare in cui una stuzzicante e deliziosa Paola Quattrini se la cava più che egregiamente.      



Paola Quattrini 

domenica 28 maggio 2023

LA TRAPPOLA DEGLI INDIANI

1281_LA TRAPPOLA DEGLI INDIANI (Little Big Horn). Stati Uniti,1951; Regia di Charles Marquis Warren. 

Alla metà degli anni Quaranta Robert L. Lippert, proprietario di una catena di sale cinematografiche, ebbe la geniale idea di fondare uno studio che andasse a colmare il vuoto che le majors, con le loro mire ambiziose, avevano creato. Dopo una serie di operazioni, la Lippert Pictures raggiunse così un ruolo importante nella produzione di B-movies, ormai snobbati dai grandi studi, tra cui vale la pena ricordare i primi film di Samuel Fuller. Tuttavia in genere quelli dello studio Lippert erano operazioni esplicitamente a basso costo, spesso anche troppo basso. Marie Windsor, a proposito de La trappola degli indiani, disse che ad un certo punto uno dei produttori arrivò sul set annunciando che i soldi erano finiti prima del previsto: le pagine di sceneggiatura non ancora girate vennero stracciate e il film fu montato con il girato fin lì realizzato. Ad onor del vero, questa eventuale mancanza non si nota poi molto, nel film di Charles Marquis Warren che, nel complesso, è più che apprezzabile. Certo, salta all’occhio che proprio il personaggio della Windsor, Celie, scompaia dal film troppo presto, peraltro con una motivazione narrativa innegabilmente plausibile. I suoi due uomini si erano infilati in una missione suicida, pur dal nobile intento, che poi si è rivelata davvero tale e pensare che in quelle pagine ci fosse una fine molto diversa non è che sia poi così semplice. Il film si apre a Fort Lincoln, con Celie che è accompagnata al suo alloggio dal tenente Haywood (John Ireland). 

I due non sono marito e moglie e la loro relazione non sembra vista di buon occhio al Forte; men che meno dal marito della donna, il capitano Donlin (Lyon Bridges) che era già stato inopinatamente di ritorno e sorprende moglie e amante in atteggiamento intimo. Un tipico intreccio dei western dell’epoca, anche perché la Windsor, pur non essendo una bellezza classica, non era attrice che si poteva mettere all’angolo. La traccia romantica, che aveva appunto avuto grande rilievo nei western del decennio appena concluso, sembra quindi ergersi a protagonista, con Donlin e Haywood a contendersi la bella Celie. Ma, pur non sapendo se e quanto nelle scelte finali centri il citato taglio di intere pagine di sceneggiatura – e non sembra un caso che a riportarlo sia proprio la Windsor – sta di fatto che la Storia incombe e le vicende private devono essere messe da parte. 

Se già Forte Lincoln e il riferimento agli indiani del titolo non vi hanno detto niente l’appellativo originale chiarirà di quale ingombrante argomento stiamo parlando: Little Big Horn. Il colonnello Custer, per una volta, in un film che parla di quella che è nota per essere la più grande disfatta dell’esercito americano sul proprio suolo – i nativi avranno legittimamente di che obiettare sul diritto di proprietà – non è presente direttamente ma è lui l’oggetto della spedizione che vede coinvolto il reparto del capitano Donlin. Con un manipolo di uomini l’ufficiale deve andare ad avvertire Custer che si sta infilando in una trappola; presto lo raggiunge anche Haywood, con l’ordine di rientrare. Custer ormai è già partito ed è praticamente irraggiungibile: ma il capitano non sente ragioni e non intende abbandonare la sua missione anzi, con malcelato sadismo, costringe il tenente a rimanere aggregato a quella che sarà, in modo evidente, un’azione suicida. C’è da raggiungere Custer prima del suo arrivo al fiume Little Big Horn e per farlo non rimane che passare in mezzo ad un territorio sempre più intasato da indiani bellicosi. Pur nella evidente povertà di mezzi, si vedano le scene dei torrenti che sembrano palesi ricostruzioni in studio, Warren fa un ottimo lavoro tratteggiando con rara maestria le varie personalità della truppa. Tra i quali val la pena ricordare Zecca (Wally Cassell), che da comico fifone si trasforma in uomo coraggioso; Arika (Rodd Redwing) lo scout Crow valoroso e leale, che smentisce preventivamente una possibile interpretazione razzista dell’opera; il burbero sergente Grierson (Reed Hadley); il baro DeWalt (Hugh O’Brian) che sorprende tutti con il suo eroismo; Corbo (King Donovan) che durante la missione trova il cadavere della ragazza che attendeva dal Canada, uccisa dagli indiani; il Sergente Veterinario McLoud (John Pickard) che si prende cura dei cavalli; Hofsetter (Gordon Wynn) che, preoccupato per la moglie in cinta, arriva a disertare ma viene salvato dal tenente Haywood, nonostante nel tentativo di fuga perda la vita Harvey (Ted Avery) che voleva tornare al forte per curarsi la dissenteria; il giovane Mason (Richard Sherwood) che si unisce volontario alla missione suicida perché suo padre è con Custer; e il prezioso scout Quince (Sheb Wooley) che, una volta torturato dai Sioux, è pietosamente finito da Zecca; insomma, ogni singolo militare della truppa è tratteggiato con cura e sentimento. 

Il film è dominato da una sensazione cupa: da una parte perché è evidente che le speranze di sopravvivenza siano poche, dall’altra perché la motivazione che fornisce il capitano, sacrificarne pochi per salvarne molti, non sembra la vera ragione della missione. O almeno un dubbio rimane sospeso: che peso hanno le vicende private di Donlin? In effetti, potrebbe benissimo essere che, l’ufficiale, perse le speranze con Celie, sia in cerca di un’uscita di scena più gloriosa dal passare per cornuto. La sua condizione di uomo tradito dalla moglie inizialmente lo pone in posizione di favore presso alcuni uomini del reparto; quasi che anche la regia solidarizzi con lui. Questo appoggio viene meno in seguito: Doolin, infatti, quando scorge la possibilità di danneggiare Haywood, sembra proprio che ci si butti a capofitto senza curarsi delle conseguenze che coinvolgeranno altri uomini. Da parte sua il tenente, prima visto con disprezzo dalla truppa, è poi apprezzato per le sue qualità umane. Ma il quesito rimane sempre quello: cosa spinge Donlin, disperata rivalsa nei confronti di Haywood? Oppure è davvero sincero il suo eroico senso del dovere? La morte sul campo di battaglia può bastare a salvarne la memoria? Ma il fatto che sia stato, come prevedibile, un sacrificio inutile – e, cosa molto più grave, non solo il suo – cosa comporta? Domande superflue, essendo una storia di finzione, un western di serie B? Mica tanto, perché sono le stesse che si possono fare a riguardo del colonnello Custer, al netto delle interpretazioni faziose.
Per tanto, ottimo davvero il risultato de La trappola degli indiani. E pazienza per le pagine perse.  



Marie Windsor 




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sabato 27 maggio 2023

SONO FOTOGENICO

1280_SONO FOTOGENICO . Italia,1980; Regia di Dino Risi.

In un’opera come Sono fotogenico di Dino Risi, oltre quarant’anni dopo la sua uscita, la matrice metalinguistica appare forse ancora più evidente. E allora più che quello che il film racconta – o forse si potrebbe azzardare un “consapevolmente finge di raccontare” – l’attenzione cade proprio sugli intenti riflessivi di Risi. E tra questi, dopo tutti questi anni dalla realizzazione di Sono fotogenico, incuriosisce capire cosa sia riuscito a scampare al cinismo intriso di umorismo da commedia del regista milanese. La commedia italiana era spesso stata poco tenera ma raramente si era visto uno sguardo tanto malevolo, seppur ammantato di finta ironia. Anche perché, come detto, l’opera è metalinguistica e quindi l’oggetto della satira di Risi è lo stesso cinema; e se il cinema è lo specchio della realtà, mettendo alla berlina l’uno inevitabilmente si mettono a nudo le miserie dell’altra. L’idea di Risi è quella di prendere uno sprovveduto – e chi meglio di un provinciale come Antonio Barozzi alias Renato Pozzetto poteva incarnarlo? – e immergerlo nel mondo del cinema, da Cinecittà a Hollywood, per vedere come se la potesse cavare alle prese con il peggiore degli scenari. A ben vedere, al di là del cinismo di facciata, Risi mostra infatti un po’ di amara delusione per quel mondo di cui lui è un artefice in prima persona. Barozzi, il suo protagonista, al contrario, non cede di un millimetro, assolutamente imperturbabile come sagacemente evidenziato nella scena in cui non cambia mai espressione pur dovendo interpretare stati d’animo diversi, durante un provino. Pozzetto sostiene che fu farina del suo sacco: lo sarebbe stato in ogni caso, anche se la scena fosse stata nel copione. 

Perché l’attore lombardo è il primo su cui rimbalza il cinismo di Risi; la celeberrima battuta “meglio Laveno”, riferita al confronto con Hollywood, è in parte un’interpretazione della vicenda della volpe e l’uva ma, allo stesso tempo, sembra quasi un’ottima filosofia di vita. Anche l’attricetta femminile di turno se la cava alla grande: tanto la bellissima Edwige Fenech – è Cinzia, nel ruolo della protagonista principale che approfitta spudoratamente delle proprie grazie per far carriera – che una splendida Barbara Bouchet – in un cameo significativo dove gioca a fare la grande diva – sembrano farsi beffe del tono acido della storia. Il parterre de rois convocato per il cast e composto, tra gli altri, da Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi e Mario Monicelli – nella parte di loro stessi – da parte sua si presta sfacciatamente divertito al gioco dissacrante del regista. 

Ma il ‘tutti contro tutti’ forse finisce per depotenziare un po’ la manovra del regista, la cui critica per colpire colpisce, solamente nessuno pare curarsene. O forse, come si sottintendeva all’inizio, è solo l’impressione che ne rimane oggi, dopo quarant’anni. In ogni caso, tra gli interpreti principali, non rimane che il personaggio di Aldo Maccione, considerato la sua parte attiva nell’incarnare la satira di Risi, ma è un tale gaglioffo che non può certo essere preso seriamente in considerazione. Bravo Maccione, questo sì, ma il suo è un personaggio visto dozzine di volte, un cliché, in buona sostanza; e, anche nel suo caso, con un elevato grado di consapevolezza e di autocompiacimento. Ma, quindi, qual è il bersaglio di Risi? La cialtroneria italica? E il riferimento ad Hollywood, allora? Forse la cialtroneria del cinema? Della società umana? Una cialtroneria alla cui permeante invadenza solo la stolida ingenuità di un provinciale può risultare immune? “Meglio Laveno” davvero, a ‘sto punto.        





Edwige Fenech 




Barbara Bouchet 




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