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domenica 30 giugno 2019

COME SPOSARE UN MILIONARIO

372_COME SPOSARE UN MILIONARIO (How marry a millionaire)Stati Uniti, 1953Regia di Jean Negulesco.

Come sposare un milionario è un film curioso, certamente non una pietra miliare del cinema, ma ci pone alcuni spunti di riflessione, il primo dei quali è, almeno in ordine cronologico, l’incipit con la ripresa dell’orchestra. I musicisti vengono filmati mentre suonano, e viene spontaneo domandarsi il perché di una scena tanto lunga. Forse la risposta ce la danno i titoli di testa, quando ci annunciano che il film è girato nel nuovo formato panoramico CinemaScope. E si tratta del secondo film in ordine di tempo che si pregia di questo formato, tanto grande da contenere un’intera orchestra. Se fosse così, il film avrebbe una sorta di matrice metalinguistica: un film che, a suo modo, riflette sul cinema. Un po’ come se gli autori ci stessero facendo notare le nuove potenzialità messe a disposizione della settima arte, un passaggio dimostrativo in senso pubblicitario del termine. D’altra parte il titolo sembra preso da quello di un manuale, quindi una sorta di approccio tecnico all’opera c’è. Nella pellicola ci sono altri due spunti, perlomeno curiosi, in questo senso: se a nessuno sarà sfuggito quello che rimanda la famosa battuta di Lauren Bacall (una delle protagoniste) su Bogart, che per argomentare la sua passione per gli uomini più vecchi, fa riferimento alla sua vita privata (quel tardone di Humprey Bogart), meno evidente è quello della Grable. 


Già, perché oltre a Lauren Bacall c’è anche Betty Grable, attrice e pin-up di indiscutibile fascino; la sua battuta fuori contesto (ovvero che fa riferimento alla vita reale e non al narrato cinematografico) è più difficile perché l’attrice è molto meno nota della Bacall, e anche perché il trombettista Henry James, suo marito nella vita privata, che ella asserisce di riconoscere ascoltandone la musica (sbagliandosi), è sconosciuto ai più. Ma forse in ossequio all’effetto panoramico dello schermo in CinemaScope, non è una coppia di star ad essere protagonista, ma addirittura un terzetto: e abbiamo lasciato per ultima, in questa disamina, quella più fulgida, Marilyn Monroe. La presenza di tre stelle del cinema di tale caratura, così poco omogenee tra loro, è materia troppo ardua per il regista Jean Negulesco: in comune le donne hanno solo l’eccezionale bellezza, ma solo la Bacall è un’attrice di rango, mentre la Grable è una modella e la Monroe una dea del cinema capitata per caso sulla terra. 


Con queste premesse il film non può quindi scorrere godibile come sarebbe lecito attendersi, ma qualcosa di interessante si può vedere, in una sorta di metaforico controluce: ovvero come si sviluppano i rapporti di forza all’interno di un cast, tra gli attori e il regista o la produzione. Qui pare evidente che la posizione dominante la prenda di prepotenza la Bacall, che regge il centro del ring, insulta le colleghe (nella finzione filmica, ovviamente) e il cui personaggio è l’unico che mostra un certo spessore psicologico oltre che quello che realizza la missione programmatica del titolo dell’opera. La Grable è messa a margine, e, per altro, nei suoi spazi, riesce ad essere convincente come attrice brillante. Anche la Monroe viene decentrata; il problema, per la Bacall come per tutte le altre donne, è che non basta far inciampare Marilyn durante una sfilata o farle fare la parte della ritardata miope come una talpa, per intaccarne il fascino. La diva ha anche un lato umoristico, è già la caricatura sexy della dea del cinema che al contempo è, e quindi regge alla grande le gag comiche; mentre il suo glamour mette in secondo o terzo piano chiunque altra sullo schermo. Insomma, se questo, a prima vista poteva sembrare un film minore della carriera della Monroe, è invece un altro tassello che ci mostra perché le altre possono essere anche brave attrici, ma lei è Marilyn  Monroe.  










Lauren Bacall




 Betty Grable







Marilyn Monroe






 



venerdì 28 giugno 2019

LE BACCANTI

371_LE BACCANTI Francia, Italia, 1961Regia di Giorgio Ferroni.

Liberamente tratto dall’omonima tragedia greca, Le Baccanti di Giorgio Ferroni è un peplum mitologico ambientato a Tebe, nell’antica Grecia. Il regista nato a Perugia ha la mano ancora calda dal sorprendente horror Il mulino delle donne di pietra e, al suo approccio al genere storico/mitologico all’italiana, trova subito una sintonia personale e adeguata. Le Baccanti ha delle differenze, come è comprensibile, rispetto alla tragedia di Euripide del 400 a.C. ma, in fondo, riesce a farne rivivere vividamente alcuni echi sul grande schermo. Al centro del racconto è Dioniso (Pierre Brice), il dio del vino, successivamente conosciuto a Roma come Bacco; da cui il nome delle figure femminili a cui, un po’ impropriamente, il film è intitolato: le baccanti, ovvero le donne che celebrano Bacco. In effetti il vino non è che abbia poi tutta questa rilevanza, nella vicenda, che è piuttosto una storia di intrighi di potere, laddove Penteo (un ottimo Alberto Lupo) usurpa il trono di sovrano di Tebe che sarebbe spettato legittimamente a Lacdanos (Raf Mattioli). Beghe politiche a parte, è curioso come la questione religiosa imbastita dal dio Dionisio, preveda un culto che celebri non solo il vino, ma anche il piacere in senso generale. Penteo, per contrastare una simile religione, si affida al culto della più parca e morigerata dea Minerva, che però nel film non si palesa e rimane soltanto come presenza evocata. La prospettiva del film in ogni caso è completamente sbilanciata a favore del dio che sponsorizza il piacere e il divertimento, e questo è un assist che Ferroni coglie al volo per declinare il suo peplum ad una sorta di musical, con alcuni pregevoli numeri coreografici di danza. 
Per la verità, non sono solo i balletti capitanati
dalla bella e brava Taina Elg (nel film è Birce), eccellenti anche grazie alle preziose coreografie di Herbert Ross, ma sono anche i movimenti coordinati delle guardie, le entrate e le uscite di scena, a richiamare un tipico spettacolo musicale. Il tutto supportato dalle belle scenografie: geometrici e ariosi i palazzi e onirici e un po’ psichedelici gli ambienti sotterranei. A suggellare una confezione visiva di buon pregio, sia il formato panoramico e il colore sono ben sfruttati da Ferroni. Della storia, oltre alle coordinate di base citate, va segnalato il bel colpo di scena finale, con il fulmine che colpisce proprio all’ultimo istante il sacerdote incaricato di sacrificare la povera Manto (Alessandra Panaro), spiazzando non solo gli astanti ma anche gli spettatori. Insomma, un film che ci parla di religione per dirci che dobbiamo bere vino, ballare e divertirci. Cosa si vuole di più? 




Taina Elg



Alessandra Panaro

 

mercoledì 26 giugno 2019

LA FREDDA ALBA DEL COMMISSARIO JOSS

370_LA FREDDA ALBA DEL COMMISSARIO JOSS (Le Pacha)Francia, Italia, 1968Regia di George Lautner.

Nel 1968 Jean Gabin ha 64 anni; ma sono stati evidentemente 64 anni molto intensi, perché quello che vediamo ne La fredda alba del commissario Joss (in cui l’attore francese interpreta il poliziotto protagonista) è un uomo appesantito e stanco, che dimostra più della sua età anagrafica. Il che non significa affatto che ci ritroviamo davanti ad un Jean Gabin fiaccato o minato nel carattere. Al contrario. Il monumentale attore interpreta perfettamente il commissario Joss, un uomo tutto d’un pezzo, ligio alla sua ferrea morale più che alla legge e che, ormai disgustato dalla corruzione del mondo che lo circonda, decide di andare dritto per la sua strada, senza perdere tempo con i cavilli e le pastoie dei regolamenti. I frequenti primi piani della regia di Geroge Lautner danno modo a Gabin di sfoderare una serie di espressioni tra loro anche variegate, ma costrette nella esigua gamma che va dal disilluso al disgustato. Gli ottimi dialoghi di Michel Audiard danno ritmo alla sceneggiatura, tra un interrogatorio ed una visita di cortesia, all’informatore o alla puttana frequentata dal collega Gouvion (Robert Dalban), rimasto ucciso in modo ambiguo. Ecco, questa è forse la goccia che fa traboccare il vaso del commissario Joss: per le morti dei malavitosi che si succedono nella storia l’uomo non sembra sprecare turbamento; e nemmeno quando a finire all’obitorio è Nathalie (Dany Carrel), la ragazza di vita di cui si diceva, sembra scomporsi. Quello che rode a Joss è che l’amico d’infanzia Gouvion fosse invischiato in un brutto giro, per colpa delle frequentazioni della stessa Nathalie e, soprattutto, per recuperare contante con cui coprirla di regali. 
E Joss, non solo non ne sospettava nulla, ma nemmeno lo avrebbe mai sospettato. Lautner scandaglia con l’obiettivo della sua macchina da presa tutte le rughe del volto di Gabin, e possiamo scorgere il contegno con cui il commissario Joss cerca, e tutto sommato riesce, a mascherare il disappunto: Gouvion era un corrotto. Ma Joss è prossimo alla pensione (e giustamente, verrebbe da dire vedendo l’aspetto invecchiato di Gabin), sei mesi e poi tanti saluti. E allora, al diavolo la corruzione da un lato e i formalismi burocratici dall’altro. E’ la definitiva sconfitta per Joss, e per i suoi metodi rigorosi ma onesti e corretti. Ma, prima di mollare tutto quanto, va archiviato questo caso, e andrà fatto per bene: perché non ci sarà nessuno scandalo. 
Gouvion era un poliziotto onesto, brontolone, forse pavido; ma onesto, e chiuso l’argomento. Anzi no: la sua morte non fu un incidente con la pistola, ma neppure suicidio (che lascerebbe intendere il rimorso e quindi la sua corruzione). No, Gouvion è stato ucciso dalla malavita che combatteva: e se lo dice Joss, o meglio Jean Gabin, difficile obiettare qualcosa anche a fronte di dubbi se non di evidenze vere e proprie, visto la condotta poco limpida del collega. Ma la scena finale, nella quale Joss prima prende la mira, preme il grilletto e senza farsi scrupoli fredda Quinquin (André Pousse) e solo dopo gli intima di arrendersi sparando un colpo in aria, rende l’idea di quanto sia saggio non contraddirlo. E’ davvero finita un’epoca se anche Jean Gabin si comporta come un ammazzasette qualsiasi.    





Dany Carrel