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mercoledì 31 gennaio 2024

ORIZZONTE DI FUOCO

1430_ORIZZONTE DI FUOCO (Fort Yuma). Stati Uniti 1955; Regia di Lesley Selander.

B-movie che non gode di grande reputazione, Orizzonte di fuoco di Lesley Selander è, al contrario, un film comunque interessante. Intendiamoci, ha alcuni limiti del tipico prodotto di serie B: intreccio scarno, sviluppo dei rapporti tra personaggi limitato e qualche infantilismo nella trama. Come l’idea, per altro fallimentare anche nella storia, che gli indiani possano essere lasciati entrare in Fort Yuma in pieno giorno soltanto perché indossino le divise dei soldati. Spesso, queste grossolanità, infastidiscono quasi fino ad inficiare una serena visione di un film; ma in Orizzonte di fuoco c’è dell’altro che rende queste superficialità trascurabili o quantomeno sopportabili. Innanzitutto, e il film è del 1955, la questione indiana è tracciata con sorprendente sguardo lucido e onesto. Gli Apache Mimbrenos si recano a Fort Yuma per siglare un trattato di pace, ma un colono casualmente presente nel forte, vedendo il famoso Mangas Coloradas a portata di tiro non perde tempo e lo fredda. Il figlio Mangas farà pagare duramente ai bianchi il tradimento della fiducia che il padre aveva concesso ai soldati. E’ una semplificazione, ovvio, ma che descrive in modo sommario come andarono spessissimo le cose nell’ovest quando di mezzo c’erano i pellerossa. (E questo è un B-movie del 1955: e c’è ancora chi sostiene che ad Hollywood gli indiani fossero sempre i cattivi.) Ma questo è solo il contesto storico della vicenda, perché Selander si avventura in un approfondimento ancora più nel dettaglio; d’accordo, poi mancherà l’adeguato sviluppo delle psicologie, ma sullo scacchiere della trama i personaggi vengono disposti secondo un interessante disegno. 

Il grosso della vicenda è ambientato lungo il viaggio di un convoglio militare da Fort Apache a Fort Yuma. C’è il Tenente Keegan (un Peter Graves inamidato), ufficiale tutto d’un pezzo che ha in odio gli Apache; però ha una storia, tenuta clandestina, con Francisca (Joan Taylor), una bella ragazza indiana perdutamente innamorata di lui. Il sergente scout Jonas, fratello della ragazza e, ovviamente, apache pure lui, è invece più diffidente nei confronti del suo superiore; sentimento ampiamente ricambiato da Keegan che non lo vede certo di buon occhio, anche solo per il suo essere indiano. A questo punto si aggiunge una maestra missionaria, la bella Melania Crown (Joan Vohs), donna di vedute aperte e antirazziste, che si scontrerà con l’asprezza della realtà. E, a questo proposito, il film è particolarmente cruento; in principio gli fu addirittura negato il visto censura per i troppi morti in modo efferato. Nonostante gli aggiustamenti resi necessari, una certa durezza in molti passaggi rimane. Non è un dettaglio marginale, e nemmeno era la moda del periodo; sembra piuttosto la volontà di bilanciare con una sponda realistica, gli slanci illuministici di cui il personaggio di Melania è ambasciatore. Su un altro versante narrativo, va specificato che la pellicola  non cade in un eccessivo sentimentalismo, nonostante vi siano due storie d’amore intrecciate: Keegan tiene a freno i bollori di Francisca, visto che in fondo sembra ritenerla soltanto una apache; dal canto suo Jonas è troppo diffidente e si accorge dell’interesse di Melania unicamente poco prima del loro lieto fine. Tuttavia è chiaro che la traccia sentimentale è ben presente nell’economia generale di un film che dura meno di 80 minuti e vede i suoi quattro principali personaggi formare due coppie speculari: indiana & bianco e bianca & indiano. Oltre alle questioni di cuore, vi è quindi una sorta di manifesto alla società multirazziale. Ci pensa allora la diffusa ironia a stemperare il clima evitando così di trasformare un western in un film sentimentale e eccessivamente edulcorato. Tra i passaggi memorabili in questo senso, c’è Keegan che chiama ripetutamente sorella Melania, equivocando, in maniera un po’ artificiosa, l’essere missionaria della ragazza; e soprattutto c’è Milo Hallock (William Phillips), sergente che cerca d’imparare a leggere per poter diventare ufficiale, e che è la classica macchietta al contempo dotata in modo naturale di grande carica umana. Il finale è particolarmente duro: della pattuglia ci lasciano la pelle quasi tutti, si salvano solo Keegan, Melania e Jonas; Francisca muore tra le braccia dell’amato, che si rende conto dell’errore del suo pregiudizio, anche se troppo tardi. Muore anche il sergente Hallock, che non riuscirà a fare carriera; un po’ come Orizzonte di fuoco, un film con alcuni buoni spunti, che rimangono però sul terreno. Ma con sufficiente onore.   








 Joan Vohs 





Joan Taylor



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lunedì 29 gennaio 2024

ARRIVA JESSE JAMES

1429_ARRIVA JESSE JAMES (Alias Jesse James). Stati Uniti 1959; Regia di Norman Z. McLeod.

Il regista Norman Z. McLeod e l’attore Bob Hope, due artisti esperti in materia di commedie ed umorismo, sono i principali artefici di Arriva Jesse James, una bonaria presa in giro di un autentico mito americano. In effetti, che un paese che si professa civile, possa avere tra i propri numi tutelari un criminale è cosa che qualche perplessità dovrebbe indurla. Jesse James fu un fuorilegge e di quelli più tosti; certo aveva delle ragioni, a suo carico, ma niente che potesse giustificare una tale dedizione al crimine. Il cinema americano, nello specifico i film Jess il bandito (di Henry King, 1939) e il remake La vera storia di Jess il bandito (di Nicholas Ray), pur con i loro distinguo, avevano comunque contribuito a crearne un autentico mito. La figura del fuorilegge era da sempre affascinante, si pensi ad esempio a Robin Hood; ma Jesse James era un autentico criminale e non un romantico avventuriero. A dispetto della volontà generale, ovvero che James potesse avere delle giustificazioni che ne legittimassero l’agire fuori dalle regole, le evidenze contrarie dimostravano che, in realtà, ci si trovava in una situazione paradossale. Gli autori di Arriva Jesse James colgono al volo questa opportunità: rinverdita dal citato film di Nicholas Ray sul personaggio, che era uscito nelle sale solo un paio di anni prima, la popolarità del bandito inafferrabile era sempre largamente diffusa. Insomma, che la figura di Jesse James potesse essere accettata come modello, come riferimento dalla comunità permetteva di ambientare facilmente una parodia, tanto era assurda come idea. 

E dato che il mito di James aveva dei riflessi nella moderna società americana, anzi era stato creato dal più potente strumento di propaganda di essa, il cinema, addirittura sorprende l’arguzia degli autori che cominciano questa commedia western con alcune inquadrature di una contemporanea città statunitense. La motivazione narrativa è legata alle conseguenze dirette sul presente del sistema assicurativo che, agli arbori dell’unificazione degli States, cominciava a diffondersi nel paese; scelte di allora avevano ripercussioni oggi e c’è quindi un esplicito parallelo tra la storia western mostrata e la nostra realtà quotidiana. Naturalmente nulla viene approfondito, visto il tono dell’operazione ma, per imbastire la sua farsa, il film sfrutta semplicemente l’assurdità di una situazione, un fuorilegge considerato influente membro della comunità, senza dover faticare per costruirla a livello narrativo, visto che è sostanzialmente conosciuta e accettata da tutti. Trattandosi di un film su Jesse James, gli autori si premurano di rispettare, ovviamente in chiave parodistica, i vari cliché: ci sono le vetrate infrante, l’inseguimento del treno in sella al cavallo e la successiva camminata in silhouette sopra i vagoni con il convoglio lanciato. Nel suo campo, Bob Hope, che interpreta un timido e inconcludente assicuratore, se la cava molto bene, con alcune gags davvero funzionali. Nel finale intervengono, a mo’ di cameo, numerosi artisti legati al mondo del west: Gary Cooper nel ruolo dello sceriffo di Mezzogiorno di fuoco, James Gardner, James Arness, Bing Crosby, Roy Rogers, Ward Bond, Fess Parker, Hugh O’Brian, Jail Silverheels e Gail Davis. Ma, a parte questa folta e curiosa partecipazione, in merito al cast certamente Rhonda Fleming, nelle eleganti vesti di Cora Lee Collins, mette tutti in fila. La Regina del Technicolor è in forma smagliante, in fatto a bellezza e prestanza scenica non teme rivali, sa il fatto suo in materia di recitazione e qui si cimenta anche in duetto canoro con Hope nella godibile Ain’t an Hankerin’. Che dire, la presenza di Rhonda rende superfluo tutto quanto detto: se c’è la possibilità di vederla, il film è meritevole a prescindere.




Rhonda Fleming 













Gloria Talbott 




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