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lunedì 31 luglio 2023

MANICOMIO - BEDLAM

1322_MANICOMIO (Bedlam). Stati Uniti1946; Regia di Mark Robson. 

L’ultimo degli horror di serie B della RKO Radio Pictures prodotto dal mitico Val Lewton fu Manicomio, più comunemente noto anche in Italia con il titolo originale Bedlam. Era il 1946 e in quello stesso anno morì Charles Koener, boss della RKO nonché sostenitore di Lewton; con il nuovo corso dello studio, il formidabile produttore di origine russa fu lasciato senza lavoro. In ogni caso, il suo lascito artistico negli anni in cui lavorò alla sezione horror a basso costo della RKO è un corpus notevole di cui Bedlam rappresenta il degno congedo. Si dice che Lewton avesse in genere l’ultima parola su tutti i film da lui prodotti per lo studio della torre radio, sebbene non venisse in genere citato nei credits, a parte rare eccezioni. Bedlam è una di queste e forse la cosa può significare l’importanza che il film aveva per il produttore. La regia venne affidata al valido Mark Robson, autore che aveva esordito con La settima vittima (1943) e poi diretto anche The ghost ship (1943) e Il vampiro dell’isola (1945), tutte opere riconducibili all’attività di Lewton. Evidentemente Robson era un regista di cui il produttore si fidava; per la fotografia, altro elemento cruciale nei tipici film horror d’atmosfera targati RKO, fu ingaggiato l’eccellente Nicholas Musuraca. Nonostante questi elementi di valore, il vero pezzo forte, probabilmente, era ancora una volta la star della pellicola, ovvero quel Boris Karloff che Lewton aveva rilanciato con La Jena – L’uomo di mezzanotte (1945, regia di Robert Wise). Karloff stesso si disse grato a Lewton che, a suo dire, l’aveva salvato dalla condanna di Frankenstein, ruolo che, in qualche modo, era rimasto appiccicato addosso al mitico attore dopo i film horror della Universal. 

In un’intervista sul Los Angeles Times, nel 1946, al giornalista Louis Berg, Karloff definì Lewton come l’uomo che “lo ha salvato dai morti viventi e gli ha ridato, per così dire, un’anima” [Louis Berg, 12 maggio 1946, Farewell to monsters]. Non è solo una citazione curiosa, questa, ma la chiave per trovare subito il punto cruciale che rende Manicomio un film moderno e sorprendente. Il personaggio interpretato da Karloff, nel film, è Mastro Sims, sinistro individuo che, nella Londra del 1761, dirige una sorta di manicomio dell’epoca. Per la precisione, il Bethlem Royal Hospital di cui Bedlam, termine che in inglese significa anche bolgia, pandemonio, era il soprannome. Ad un primo impatto, il personaggio di Karloff non sembra poi molto diverso dal John Gray protagonista de La Jena – L’uomo di mezzanotte, prima memorabile interpretazione dell’attore per la RKO. In effetti la malvagia ambiguità di Mastro Sims, la sua capacità di intessere rapporti coi potenti, in modo ossequioso ma sottintendendo qualche possibile minaccia, rivela una natura assai simile tra i due personaggi. C’è però un passaggio che rende Bedlam più interessante e ne sposta leggermente l’ottica: è durante l’improvvisato processo a cui i pazzi sottopongono il loro aguzzino verso il finale. Messo sotto accusa, Mastro Sims perde la sua baldanza, una reazione anche prevedibile essendo da ricondurre all’indole viscida del soggetto. Quello che siamo costretti ad ammettere, tuttavia, è che un fondo di verità, nelle parole con cui cerca di difendersi, esiste: la sua deprecabile condotta non solo è tollerata dalle classi abbienti ma perfino approvata e incoraggiata. 

In questo senso emerge l’aspetto politico sociale del film, la sua condanna non tanto per individui malvagi e meschini come Mastro Sims, che spesso finiscono per essere l’unico capro espiatorio. Ad essere sotto accusa è quella società che, attraverso la sua élite economico sociale, se ne serve per gestire i soggetti che dal suo punto di vista rappresentano un problema anziché una risorsa da sfruttare. La matrice rivoluzionaria del cinema dell’orrore, che spesso rimane latente in molti film appartenenti al genere, emerge in questo caso in modo lampante. Una rivoluzione non strumentale ma che mira alla sostanza, alla base del pensiero comune: come in Freaks (1932, di Tod Browing), il valore positivo del concetto di normalità è messo seriamente in discussione. I diversi, i fenomeni da baraccone del film di Browing e i malati di mente di Bedlam, si rivelano essere persone come le altre, nel senso che hanno gli stessi sentimenti e le stesse possibilità di essere buone o cattive, dei soggetti cosiddetti normali. Il cinema dell’orrore, abitualmente, nel suo stigmatizzare esteriormente le caratteristiche dei cattivi – il vampiro, il mostro, ecc. – ce li presentava come diversi, con un’impostazione che poteva essere intesa come conservatrice. Una chiave di lettura dove le persone normali erano i buoni e, di contro, i diversi erano i cattivi. In realtà, come è noto, la parola mostro ha come significato alla radice qualcosa che desta meraviglia, stupore, ammirazione. Cosa che era, almeno in parte, ad esempio, la componente principale del fascino dei mostri Universal – e in genere dei mostri delle storie di paura. 

Il cinema dell’orrore, in sostanza, seppure può essere interpretato in chiave conservatrice, per sua natura scardina l’ordine consueto, la normalità, suscitando con le sue manifestazioni fuori dall’ordinario paura, è vero, ma anche ammirazione. Il diverso, in pratica, non è necessariamente qualcosa di cattivo: certo Dracula lo era, ma era al tempo stesso un distinto signore ben vestito e, se facciamo riferimento a quello cinematografico, Bela Lugosi nel film del 1930 sembrava davvero un borghese modello. Ma, di lì a poco, in ogni caso, già con Frankenstein, la questione veniva approfondita meglio, in chiave certamente più sociale. I film horror della RKO degli anni Quaranta furono, insieme al noir, la corrente che meglio interpretò le angosce che il mondo, scosso dalla Seconda Guerra Mondiale, stava sopportando. Era, in sostanza, un fenomeno che rispondeva ad un’esigenza urgente, quasi fisiologica, e le sue coordinate erano strettamente legate a quelle specifiche motivazioni. 

Il senso di paura diffuso tra la gente, vessata dalle conseguenze del conflitto mondiale, trovava sfogo nelle storie pregne d’inquietanti atmosfere tipiche della RKO e tanto avrebbe potuto anche bastare. In realtà Lewton ed il regista di turno seguivano poi un’impostazione ambigua e sfumata che, anche e soprattutto considerato l’epoca, era assai inusuale e innovativa. Con Bedlam tutte queste sfumature si condensano e prendono decisamente corpo in un’opera smaccatamente politica. La società occidentale, che discende direttamente da quella inglese del XIII secolo, non accetta i diversi, li reclude per levarseli dalla vista e, nel caso debba comunque averli sotto gli occhi, non fa che dileggiarli, in sostanza una forma nobile e raffinata di disprezzo. Lord Mortimer (Billy House) è il tipico rappresentante della società bene del tempo ma, in fin dei conti, non così diverso da un borghese benestante contemporaneo. Volendo vedere, anche vagamente politicamente corretto – e quindi più evoluto in quel senso, rispetto all’epoca dell’uscita nelle sale – considerato che non approfitta della situazione per fare sesso con la sua dama di compagnia Nell (una ardente Anna Lee). Per la verità, il tema erotico o comunque la sponda piccante presente in ogni storia sentimentale, è castigata in ogni forma, probabilmente per timore che la censura potesse equivocare poi sulle devianze degli ospiti di Bedlam. Anche perché l’eroe maschile della storia è Hanney (un Richard Fraser un po’ troppo apatico), un quacchero che, considerato il suo credo, può contribuire assai poco in questo senso. Insomma, Robson e Lewton non vogliono distrazioni: il punto del loro discorso è politico e una focosa storia d’amore che si sovrapponga potrebbe avere una funzione consolatoria pericolosa. In fondo, anche le stesse scene di paura, che dovrebbero essere la matrice di un horror, non sono poi così tremende. Qui, prima di rabbrividire, occorre riflettere su ciò che si sta vedendo, sul fatto che, seppur ambientata nel 1761, la vicenda è ancora troppo attuale. Ecco, questo fa davvero paura.   




Anna Lee





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domenica 30 luglio 2023

BARBIE

1320_BARBIE . Stati Uniti, Regno Unito 2023; Regia di Greta Gerwig.

Una piccola speranza era legittima. Barbie, il film di Greta Gerwig con Margot Robbie, poteva essere l’occasione per prendersi una pausa dall’opprimente politically correct che sovrasta ora ogni ambito. Che è sano e salutare quando viene applicato dove serve, cioè nei parlamenti, nelle sedi legislative o nei tribunali: è sacrosanto che le leggi non debbano favorire o sfavorire alcuno. Ma nell’arte, al cinema, in letteratura, nella musica et similia, è la morte della creatività; e nella vita reale è ormai divenuto fardello ossessionante. In fondo, sembrava quella l’idea di quegli spettatori che si sono recati nelle sale cinematografiche rispettando il dress code che imponeva qualche indumento rosa o fucsia, come avevano anticipato i vip e le starlette nelle premiere sparse per il globo. Insomma, ma sì, forse la Barbie è davvero un simbolo conformista, capitalista e perfino fascista – come sostiene Sasha (Ariana Greenblatt) la ragazzina problematica nel film. Ma, diamine, quando nel 1959 la Mattel mise in vendita la prima Barbie, la bambolina era mora; solo in seguito è apparsa quella bionda che, se ha sbaragliato il campo, non è certo perché è stata imposta da chicchessia ma semplicemente per la scelta dei clienti. E’ un problema se la Barbie bionda, quella stereotipata, stando al film della Gerwig, è la bambola preferita nel mondo, almeno quello occidentale? Pare di sì. Almeno per la regista e la splendida attrice, qui anche nelle vesti di produttrice e quindi maggiormente coinvolta nel progetto rispetto ad una semplice interprete. Nel canovaccio, la Gerwig e il fido Noah Baumbach – marito nonché cosceneggiatore – spingono forte sulla rivendicazione femminista e sulla contestazione del patriarcato, contrapposto, nel film, a Barbieland. 

Una teoria buona per chi ci vuole credere, perché che la Barbie forse non è quel demonio che per anni ci hanno davvero paventato, ma da lì a credere che possa diventare paladina di una qualche ideologia sembra un filo azzardato. Tuttavia tanto la regia che Margot Robbie nella sua prestazione attoriale sembrano davvero convinte e tanto basta, almeno per quel che riguarda il film. Costatato che l’occasione per uscire dalla cappa dell’ossessionante quotidiana ipocrisia è quindi non solo sfumata ma ci si è finiti immersi mani e piedi, rimangono alcune pieghe che gli sforzi degli autori non sono riusciti a spianare. Ad esempio: Barbieland, con tutti quegli incarichi distribuiti con calcolato opportunismo – dalla Presidentessa donna e di colore in giù – in fin della fiera riesce ad essere un posto migliore della realtà mostrata nel film? In effetti, la risposta è già nella storia, visto che Barbie alla fine sceglie il mondo reale. Che poi tanto reale non è, ovviamente, visto che siamo all’interno di un film di purissima finzione. Ma, se all’ottimo Ryan Gosling, per interpretare Ken, è stata imposta una forma fisica impeccabile, le imperfezioni esibite con insistenza, vedi le inquadrature da tergo, della comunque meravigliosa Margot Robbie sono volute? 

Cioè, da un lato passa senz’altro il ribaltamento dei ruoli, per una volta sia il maschio a dover essere perfetto da un punto di vista fisico. Ma, il dubbio che sorge è: ma davvero la Robbie ha voluto dimostrare che, a 33 anni, può ancora interpretare l’icona di bellezza per antonomasia facendoci accettare anche i suoi lievi difetti? Un’idea che trova conferma nella diffusione delle voci che l’attrice abbia voluto che sullo schermo apparisse sempre lei, anche nelle famigerate scene dei piedi arcuati che, pare, siano state piuttosto impegnative da girare. Quasi che un ideale di bellezza, quale che può essere appunto inteso dalla bambola della Mattel, rappresenti un problema e occorra necessariamente ricondurlo alla realtà. Anche per una sventola come la Robbie. Ma, del resto, la questione la chiarisce ulteriormente la scena finale che risolve il problema dei problemi: il sesso. Insormontabile, evidentemente, concepire il fatto che tanto Barbie che Ken, non abbiano i genitali; per la verità non devono avere rapporti, per cui la cosa risponde anche a una sua logica. La sospensione creata dalla Mattel, al tempo, era la cosa forse migliore del giocattolo: la Barbie veicolava concetti sessuali – la bellezza, il fisico da pin up, l’attenzione alla moda, ecc. – ma ovviamente si fermava prima di affondare il colpo. Volutamente. In quello spazio sospeso stava il potenziale educativo, pensa un po’, del giocattolo. Un po’ come i simboli che, nella loro stilizzazione, indicano certamente una via da seguire, ma poi la strada te la devi anche e soprattutto scoprire da te. Allo stesso modo la bellezza stereotipata di Barbie era un’idea a cui ispirarsi, non certo un modello a cui aderire pedestremente. Proprio l’impossibilità di raggiungere tale perfezione, era la chiave per comprendere che si trattava di un concetto più che di una forma pratica da perseguire. La stessa Mattel ha nel tempo rinnegato questa sua impostazione, cercando di parare le critiche pretestuose ma agguerrite, finendo per divenire tra i più clamorosi portabandiera dell’opposto di tutto ciò, vale a dire il famigerato politicamente corretto, reso manifesto proprio in Barbieland. Purtroppo, quelli degli autori sono sforzi non solo vani, ma forse anche deleteri. Seguendo la loro stessa logica, il rischio è che, per le ragazzine la cui salute sembra così a cuore di autori e produttori, sia più arduo il confronto con Margot Robbie nei panni di Barbie che quello con una bambolina palesemente finta. Al di là di questo, Barbie, il film, rimane soprattutto un’ammissione esplicita di incapacità della nostra società: non siamo più in grado di gestire l’idea di simbolo. Bye Bye. 



Margot Robbie 





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sabato 29 luglio 2023

SFIDA NELLA CITTA' MORTA

1320_SFIDA NELLA CITTA' MORTE (The Law and Jake Wade). Stati Uniti1958; Regia di John Sturges. 

Suo terzo western in tre anni, Sfida nella città morta conferma la solida mano del regista John Sturges e la sua competenza in questo specifico tipo di pellicole. Il regista che passerà alla storia per aver chiuso la Golden Age del genere – nel 1960, con I Magnifici Sette – semina già in questi suoi ultimi film degli anni Cinquanta i primi elementi che incrinano le certezze del periodo classico. Infatti, pur mettendo in gioco praticamente tutti i tipici elementi del genere, gli sceriffi, i banditi, i cavalleggeri, i pellerossa, la bella ragazza in pericolo, la città di frontiera, la ghost town – quella del titolo italiano – i canyon e le Montagne Rocciose, il film non è affatto un prodotto tipico del tempo. In concreto perché la maggioranza dei temi in questione ha un ruolo marginale, visto che Sturges si concentra unicamente sulle figure del bandito e dello sceriffo, in un doppio confronto: salta subito all’occhio quello tra i protagonisti della vicenda, Jake Wade (Robert Taylor), lo sceriffo, e Clint (Richard Widark), il bandito. Ma c’è un altro confronto, stavolta tutto interiore a Jake Wade, visto che prima di fare lo sceriffo l’uomo era stato un fuorilegge, complice appunto di Clint. E il titolo originale, The Law and Jake Wade allude forse a questo: che rapporto ha il nostro eroe, con la legge? Qualche dubbio sulla sua integrità viene, alla ragazza – la sua ragazza – Peggy (Patricia Owens) visto che il nostro non si fida nemmeno di lei pur avendola già promessa in sposa, scegliendo di non rivelarle i segreti del suo passato. 

Anche perché lo stesso Jake ha il timore di averla combinata grossa, durante una rapina, nei suoi trascorsi da bandito. Ma non per questo pensa di fare ammenda; no, basta andare in nuova città e farsi una nuova vita. Addirittura si pone come tutore della legge, per altro ben considerato e rispettato. Eppure, per rendere il favore ad un vecchio compagno di malefatte – Clint, appunto – il nostro stimato sceriffo non esita ad infrangere la legge per far evadere l’ex compare: come se gli affari privati fossero più importanti di quella legge che, come tutore, dovrebbe invece aver premura di rispettare sopra ogni cosa. Nello snocciolarsi della trama, la sua posizione viene poi ammorbidita: il bambino di cui pensava di aver causato la morte, durante la citata rapina, pare fosse già morto al momento della sua comparsa sulla scena, per mano di qualche altro della banda, evidentemente. Il che, se toglie un bel peso dalla coscienza a Jake, non sgombra del tutto le perplessità; e nel momento del duello finale, quando lancia la pistola lontano invece di consegnarla sportivamente al rivale, lo sceriffo rivela ancora – e ammette – la sua natura poco pulita. Del resto, è almeno dagli anni Quaranta che abbiamo capito che nei western i cattivi sono quelli che hanno il cappello nero – black hat era il nome con cui venivano definiti – e Wade, addirittura, è sempre interamente vestito di scuro. Per la verità, in materia di simbolismi, in linea con la sua apparente risalita morale all’interno del racconto, ad un certo punto il nostro sfodera un cavallo bianco; ma è un appaloosa e quindi è un bianco sporco. Un po’ come l’anima del suo proprietario e, trattandosi comunque ancora di un western classico – si vedano la musica e soprattutto gli scenari – in chiave simbolica anche dell’intera America. Insomma, giocando con i titoli, sia quello originale che quello nostrano, potremmo dire che tra la legge e Jake Wade non è che ci sia tutta questa sintonia; e di morto, nel film, oltre alla città dello scontro finale, c’è anche un bel po’ di senso di Giustizia. Il western, invece, se non è morto è perlomeno moribondo. Almeno quello classico.  








Patricia Owens 




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