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mercoledì 30 giugno 2021

TEMPORALE ALL'ALBA

841_TEMPORALE ALL'ALBA (Storm at Daybreak)Stati Uniti, 1933; Regia di Richard Boleslawski.

Adattamento dell'opera teatrale ungherese Feketeszaru Csereszyne di Sander Hunyady, Temporale all’alba è un film romantico dai toni melodrammatici ambientato prevalentemente al tempo della Prima Guerra Mondiale nell’area geografica di Bacska. Per la verità il film comincia a Sarajevo e con un leggero anticipo, ovvero il giorno della sfilata per le vie della città bosniaca dell’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero Austro Ungarico. Siamo dunque a Sarajevo proprio in quel fatale 28 giugno del 1914: le scene dell’attentato, molto evocative, irrompono nell’atmosfera di festa popolare che il regista Richard Boleslawski riesce efficacemente ad orchestrare. La sequenza dell’attentato è molto articolata e ben costruita: il clima di festa è presto guastato da alcuni sonori fischi al passaggio del convoglio di Francesco Ferdinando (Frank Conroy). La figura nell’ombra è quella di Gavrilo Princip (Misha Auer), l’Arciduca sospetta qualcosa e si agita ma è troppo tardi: la ripresa attraverso la grata di una finestra ci dice che è in trappola, come una mosca nella ragnatela. Ora anche Duchessa Sophie (Margaret Dumont) ha compreso il pericolo, l’auto prova a fare retromarcia ma Princip è ormai arrivato: la macchina da presa sale perpendicolarmente sopra l’auto per mostrarci come non ci sia più scampo per la coppia. La violenza del piano americano che inquadra perfettamente Princip esplodere i colpi, l’arciduca e la duchessa feriti mortalmente, poi una ripresa più generale dell’auto, con il braccio della dama che si affloscia, mentre la folla si agita sempre più. 

Una serie di primi piani di gente in preda al panico, tra cui quello di Princip ferito, alimenta la tensione nella rappresentazione di uno dei momenti cruciali della Storia. Tra le grida di sgomento si levano anche gli hurrà! degli irredentisti serbi subito repressi dalla milizia regolare, per un generale parapiglia realizzato in modo molto convincete da Boleslawski. Complessivamente il film mantiene, da un punto di vista della ricostruzione scenica, il prestigio della MGM, pur non essendo chiaramente uno dei titoli di richiamo dell’illustre studio di produzione. Se c’è la giusta attenzione ai costumi tradizionali o alle divise militari, dal punto di vista narrativo l’incipit dal sapore squisitamente storico si rende necessario per inquadrare la vicenda. Infatti l’iniziale stato di tensione tra i protagonisti del triangolo amoroso su cui verte la trama, è legato più che altro alla situazione politica della regione in cui si svilupperà l’intreccio narrativo. Il capitano dell’esercito magiaro Geza (Nils Ashter) arriva in una fattoria della Bacska, regione sotto il controllo ungherese ma reclamata dalla Serbia, alla ricerca di ribelli irredentisti. Irina (Kay Francis), simpatizzante dei fuggitivi, li nasconde nella stalla quando finalmente giunge suo marito Dushan (Walter Huston). L’arrivo del consorte la rinfranca anche perché Dushan è, ironia della sorte, fraterno amico di Geza. Addirittura, proprio in quel di Sarajevo poco prima dell’attentato, l’uomo aveva invitato il militare ad andare a trovarlo per presentargli la sua giovane sposa. Ironia doppia, seppure per il povero Dushan alquanto amara, perché sarà proprio Geza che andrà a rompere la sua armonia famigliare. 


Ma sarà una storia d’amore anche di natura geopolitica: un militare ungherese alle prese con una donna serba, sposata ad un uomo che cerca di barcamenarsi come può, essendo tra l’altro il sindaco del paese e quindi tenuto a rispettare tanto l’autorità quanto le aspirazioni dei suoi concittadini. Questo suo essere accomodante, probabilmente, gli impedisce di comprendere che quello che era nato come un diversivo per distogliere Geza dai suoi doveri militari, e far così dileguare i fuggitivi, si era tramutato in qualcosa di ben più concreto. Ma, nonostante queste tensioni di natura politica, il clima della storia è tenuto allegro in primis dall’esuberanza di Dushan, ma anche e soprattutto dalla presenza dello straordinario Eugene Palette nel ruolo di Janos. Il massiccio attendente di Geza flirta con Militza (Louise Closser Hale), donna che rivaleggia con lui in fatto di prestanza fisica, mentre ad alleggerire il clima narrativa ci pensano anche uno stuolo di ragazze giovani che amoreggiano coi soldati magiari e un pittoresco gruppo di gitani. Soltanto Irina diventa sempre più triste ed insofferente, via via che cede al fascino della divisa dell’aitante Geza, mentre lo scombinato marito continua a non sospettare di nulla. Ma il suo essere un po’ alla buona non deve essere equivocato: quando denunciato da uno dei suoi dipendenti per aver aiutato i fuggiaschi è in grado di far rimangiare le accuse al traditore e di licenziarlo su due piedi. Il vile Panto (C. Henry Gordon) tornerà però sulla scena proprio nel finale, a guerra finita, clamorosamente nel ruolo capo della polizia serba del paese. Stavolta il gioco di Panto è scoperto e la sua preda è Geza, rimasto nel presidio anche dopo la sconfitta dell’impero Austro Ungarico. La situazione precipita: Irina è sempre più disperata e perfino Dushan si accorge che sua moglie ama ormai convintamente il suo migliore amico. L’uomo sembra perdere la testa ma, con un colpo di scena adeguato al tenore melodrammatico della vicenda, protegge sua moglie e l’amante mentre inganna Panto invitandolo ad inseguirli a bordo del suo carro. E, alla fine di una drammatica corsa, che riprende lo stile enfatizzato dell’incipit in quel di Sarajevo, lo trascina con sé nel dirupo. Per una pacifica convivenza tra popoli diversi, simboleggiata dalla serba Irina e dall’ungherese Geza, occorre quindi liberarsi di traditori e voltagabbana. Nel dirupo ci sarebbe sempre posto.



Kay Francis




lunedì 28 giugno 2021

IL SEME DELL'ODIO

840_IL SEME DELL'ODIO (The Wilby Conspiracy)Regno Unito, 1975; Regia di Ralph Nelson.

C’è una scena, in Il seme dell’odio che, anche a livello cinematografico, esprime il tono di cui è, in modo certo sorprendente, intrisa tutta la pellicola. Jim Keogh, (Michail Caine), un inglese e Shack Twala, (Sidney Poitier), un nero rivoluzionario sudafricano, stanno andando in auto da Città del Capo a Johannesburg, un viaggio di quasi mille miglia. Per la precisione stanno scappando, con i servizi di sicurezza sudafricani e la polizia alle calcagna, una situazione drammatica e quasi senza via di scampo. Su un lungo e monotono rettilineo Keogh, alla guida, si appisola un attimo, finendo fuori strada: dopo averci fatto capire che il sonno ha finalmente vinto l’uomo, il regista Ralph Nelson piazza la macchina da presa ferma, mentre l’auto la supera un attimo prima di deragliare fuori dalla carreggiata. Si ode il fracasso, ma l’inquadratura rimane sulla strada ora deserta; sennonché, durante i rumori della macchina che si ribalta, l’immagine si mette a traballare, accompagnando il sonoro dello schianto con forti sobbalzi della visuale ancora ferma sulla strada; un effetto tipico dei cartoni animati. E quando l’inquadratura va sull’auto capottata, i due uomini sbucano simultaneamente dai finestrini, con l’inglese che beffardamente si lamenta della guida del sudafricano (che non era alla guida). Il fatto sorprendete a cui si accennava prima, è che il tono è ironico pur se il tema del film è l’apharteid, in un periodo in cui non è che fosse tanto salubre scherzarci sopra; forse Nelson ci si arrischia perché ha ben dimostrato con il suo curriculum (Tick… tick… tick… esplode la violenza, Soldato blu) che non può certo essere accusato di essere un suprematista bianco

In ogni caso, la miscela orchestrata dal regista americano funziona: Il seme dell’odio è un gradevole, divertente, film d’avventura che approfitta dell’ambientazione per mettere in mostra una delle peggiori aberrazioni che la cultura occidentale abbia mai sviluppato. A pensarci bene, il tono ironico è forse anche l’unico che consente di mostrare il Sudafrica della discriminazione razziale senza scadere nel ridicolo: perché, se non fosse che si tratta di un problema tragicamente reale, è evidente che le tesi razziste che animano gli afrikaner (i bianchi del Sudafrica) li rendono ridicoli, nella loro minuscola meschinità. In ogni caso l’ironia consente a Nelson di sferzare la sua critica alla società razzista sudafricana senza appesantire il film e, di conseguenza, smorzarne la portata. Il seme dell’odio è quindi un film appassionante in cui, per assurdo, pur essendo Caine e Poitier due autentici assi, la parte del leone la fa un cattivo, il maggiore Horn (Nicol Williamson) che quando è in scena ruba la ribalta a tutti. Bene anche Rutger Hauer, pur se in un ruolo secondario, mentre è, tutto sommato, ben impiegata la deliziosa Prunella Gee nei panni, spesso succinti, di Rina, la fidanzata di Keogh.  





Prunella Gee









sabato 26 giugno 2021

IL GRANDE GIORNO DI JIM FLAGG

839_IL GRANDE GIORNO DI JIM FLAGG (The good guys and the bad guys)Stati Uniti, 1969; Regia di Burt Kennedy.

A vederlo sembra un western un po’ fuori tempo massimo, sebbene al tempo il genere non stesse ancora agonizzando, rivitalizzato dalle correnti crepuscolari o europee; eppure questo è l’effetto che fa Il grande giorno di Jim Flagg. Forse vedere un uomo come lo sceriffo Flagg (nome che echeggia il significato di bandiera e che è interpretato da una vera bandiera del western classico come Robert Mitchum) messo in pensione senza troppi scrupoli da un sindaco che ha la faccia da schiaffi di Martin Balsam, ci fa capire che qualcosa non sia più come un tempo. Comunque, a parte questa vena nostalgica, cavalcata tra l’altro con buona capacità dal regista Burt Kennedy, il film si lascia vedere con piacere soprattutto per l’ottimo cast. L'esplicito compiacimento con cui gli attori (quanto mai players, giocatori, come si usa dire in inglese) recitano, soprattutto Mitchum e il suo rivale/alleato George Kennedy, qui chiamato ad un'altra ottima interpretazione, tengono vispa l'attenzione dello spettatore. Nel cast vanno ricordati anche John Carradine e il figlio David, oltre ad un insolitamente ricco, per un western, schieramento femminile. Si va dalla voluttuosa Tina Louise, alla delicata Luis Nettleton, all’esuberante Kathleen Freeman fino alla mitica Marie Windsor (da ricordare a memoria almeno per le parti in Le Jene di Chicago e Rapina a mano armata). Insomma, un buon western, divertente e ben recitato, nel quale il tema della vecchiaia dei protagonisti si somma a quello del genere cinematografico, ma non aspettiamoci un grande approfondimento da un’operazione di puro svago e intrattenimento, per altro ben confezionata. 




Tina Louise






Marie Windsor


Lois Nettleton


giovedì 24 giugno 2021

IL CARDINALE

838_IL CARDINALE (The Cardinal). Stati Uniti, 1963; Regia di Otto Preminger.

Tra i tanti aspetti che colpiscono in un film corposo ed importante (per via della durata, ma anche dei temi trattati) come Il Cardinale di Ottto Preminger, il primo a sorprendere, almeno in ordine di tempo, è il modo in cui viene utilizzato il talento artistico di Saul Bass. Per questo film l’artista newyorkese produce la grafica dei manifesti, e lì il suo lavoro è abbastanza tipico, mentre per i titoli di testa, sul momento, può sembrare un po’ come se il suo genio artistico fosse messo in secondo piano. E’ evidente che non siamo di fronte a situazioni del calibro di Anatomia di un omicidio o L’uomo dal braccio d’oro, due precedenti film di Preminger che erano introdotti dai folgoranti credits animati del geniale artista. In quest’opera, i titoli di testa, per altro scritti con caratteri tipicamente stilizzati in perfetto stile Saul Bass, scorrono piccoli e non invadenti su una serie di riprese della Città del Vaticano; riprese cinematografiche, e quindi immagini vere, insomma, e non disegni stilizzati come ci si attenderebbe da un’operazione che veda coinvolto il designer. Eppure… eppure l’idea generale è simile ai titoli di testa dei film citati: le riprese di Preminger sono studiate da apparire quasi astratte, praticamente simili ai disegni di Saul Bass. Ma questo può forse significare che, se i casi laici  e scabrosi dei film precedenti (omicidio e droga) necessitavano di una resa simbolica, stilizzata, per poter essere affrontati, questo non è necessario nel momento in cui ci si accosta ad un’istituzione come la Chiesa. Il che può forse sottintendere che la Chiesa sia simbolica per definizione, al punto che la sua capitale, vista dal vero nelle riprese, equivalga a quelle immagini artificialmente prodotte da Saul Bass.

E, sebbene l’arte del designer rifletta il gusto pop dei sixties, è addirittura perfetta per accompagnare l’opera di Preminger: il rigore analitico, quasi processuale, del suo cinema trova un’ideale sintesi nei titoli di testa e nei manifesti di Bass. La stilizzazione astratta delle figure animate di Saul Bass rispecchia infatti la capacità di Preminger di osservare con rigore, distacco e, almeno apparentemente, freddezza. Ma ne Il Cardinale questa capacità sembra quasi vacillare, dietro i troppi passaggi narrativi dell’opera; viene infatti da chiedersi, vedendo il film: sono davvero necessari tutti i 175 minuti che compongono il lungometraggio? Non è una domanda dettata dalla noia per l’eccessiva durata, perché il film è ben diretto e si lascia guardare; solo viene spontaneo ritenere qualche passaggio superfluo, inutile. Eppure sembra strano che proprio Preminger sottovaluti un aspetto inerente al tempo, che è uno dei motivi di interesse sempre presente nel suo cinema. 

Anche ne Il Cardinale questa importanza, questa attenzione allo scorrimento del tempo, (uno scorrere che ricorda quello del fiume da cui non si ritorna di un suo precedente film), è sottolineata da, non uno, ma ben due flashback monstre; praticamente i due tempi dello spettacolo cinematografico. E l’uso di uno sguardo retrospettivo toglie anche la suspense per il finale: quasi che il tempo non passi, ma sia già sempre ormai passato; e di conseguenza non possa tornare.
E l’apparente eccessiva lunghezza de Il Cardinale forse vuole indicare che non si tratta del solito sguardo analitico, quasi astratto, di Preminger, perché un’istituzione come la Chiesa è essa stessa un’astrazione. O forse perché Preminger, stavolta, in ossequio ad un rispetto per un tema delicato come la religione, non ne finisca completamente lo studio, l’analisi, attraverso l’applicazione della sua anatomia cinematografica. In effetti, nell’opera vi è una sorta di elenco di situazioni che vedono il protagonista Stephen Fermoyle (Tom Tryon), un sacerdote, fare progressivamente carriera in seno alla Chiesa Cattolica, passando attraverso una serie di episodi diversi e narrativamente autonomi tra loro. Inizialmente si trova in una parrocchia di Boston dove la comunità irlandese si rivela troppo tradizionalista, poi è spedito in una sperduto villaggio in gravi difficoltà economiche; a questi ostacoli ambientali, si aggiungono quelli personali della vita di Fermoyle. La sorella, fidanzata ad un ebreo, è stata osteggiata in questa scelta sentimentale dalla famiglia, irlandese e fermamente cattolica; scappata da casa, la ragazza rimane incinta, ma complicanze legate al parto costringono il fratello maggiore, padre Fermoyle appunto, a prendere una drammatica decisione tra la salvezza della madre attraverso l’uccisione della nascitura o il salvataggio della bambina a costo della vita della madre stessa. 



La religione cattolica, e forse anche la propria coscienza, impongono la scelta a Fermoyle, che di fatto, condanna a morte la propria sorella. La crisi di coscienza susseguente lo vede in una sorta di esilio in Europa, in Austria, dove assapora la vita da borghese, e conosce Anne-Marie (Romy Schneider). Si ravvede per tempo, torna a Roma, dove aveva studiato in gioventù, e prende servizio in Vaticano; poi risponde in prima persona ad un appello di un prete di colore che lamenta di metodi razzisti ai danni della comunità afroamericana, da parte Ku Klux Klan nello stato della Georgia nel sud degli Stati Uniti. Recatosi sul luogo, assaggia sulla propria schiena quella frusta che i razzisti usano abitualmente sugli abitanti di colore; tornato a Roma viene richiamato a Vienna per correggere il cardinal Innitzer che si è incautamente dichiarato favorevole al nazismo. 

Insomma, come si vede, una trama con tanti episodi, che mettono tanta, troppa, carne al fuoco: ma forse Preminger non vuole finire il lavoro, non vuole asciugare questo magma narrativo per trarne la sua lucida analisi. Forse vuole fermarsi prima e lasciare tutti gli elementi dell’autopsia sul tavolo; perché la sua considerazione finale, è un’altra. 
La Chiesa è sì vista da Preminger come un’istituzione a cui affidarsi, ma poi il protagonista si trova a rendere conto solo alla propria coscienza: è così quando in accordo con i dettami della Bibbia lascia morire la sorella, ed è così quando si muove in contrasto con i suoi superiori nell'aderire alla richiesta del prete di colore della Georgia.
Ma allora la Chiesa può essere vista, nell’ottica di un uomo che ha dedicato la sua vita alla sua professione, come il cinema, e quindi i vari episodi del film, così eterogenei tra loro, possono rimandare alle scelte dei film fatti da Preminger, che mai ha voluto focalizzarsi su di un unico genere. E che, riguardando questo suo film, può sentirsi come il cardinale che, con lo sguardo volto all’indietro, ricorda la sua esistenza come quella di un uomo che ha dovuto e voluto sempre rendere conto alla propria coscienza più che all’istituzione a cui si è affiliato. In quest'ottica Il Cardinale, film in genere non troppo considerato, risulta quindi una sorta di manifesto del cinema di Preminger. Un regista che non si è mai piegato alle tipiche logiche produttive dell'industria cinematografica anche a costo di sembrare un autore che procedesse nella propria filmografia senza una direttiva autoriale coerente. Il cinema di Preminger: il cinema secondo coscienza. 




Romy Schneider




Carol Linley


Maggie McNamara


Dorothy Gish

martedì 22 giugno 2021

LA BANDA DEGLI ONESTI

837_LA BANDA DEGLI ONESTI Italia; 1956; Regia di Camilla Mastrocinque.

Anche stavolta, Camillo Mastrocinque si conferma valido regista, in grado come pochi di gestire al meglio una presenza in un certo senso ingombrante come quella di Totò. In questo La banda degli onesti il comico napoletano è la figura centrale, ovviamente, ben coadiuvato dalla spalla Peppino de Filippo con cui si muove agilmente su storia costruita dal duo Age & Scarpelli (soggetto e sceneggiatura) orchestrata con maestria. Ulteriore merito della struttura alla base del film, anche gli altri personaggi che compaiono nella storia sono funzionali ad un meccanismo che ruota tutt'intorno alla banda degli onesti del titolo, ovvero il trio di protagonisti (oltre a Totò e Peppino c’è anche Giacomo Furia). Il pretesto narrativo è interessante: Antonio Bonocore fa il portiere di un complesso condominiale e un inquilino, in fin di vita, pentitosi per il furto, gli consegna gli stampi autentici per stampare banconote da 10.000 lire, con la richiesta della promessa di distruggerli. Antonio non ne vuole sapere, in quanto onesto; ma l’obbligo di una promessa fatta sul letto di morte, lo 'costringe' moralmente a prendere la valigia ed occuparsene. Da qui, la tentazione lo farà ladro, e finirà per coinvolgere Giuseppe Lo Turco (Peppino), tipografo, e Cardone (Giacomo Furia) pittore, allo scopo di falsificare un po’ di banconote. Dopo mille peripezie il tutto si risolverà per il meglio, naturalmente, dal momento che si tratta comunque di una semplice commedia per sorridere un po’. L’importanza del film, oltre che basata e sorretta dalla verve di Totò e Peppino, è però più profonda: la storia raccontata ne La banda degli onesti smentisce il luogo comune che l’Italia sia un paese di mariuoli, ma ci pone altri interrogativi. Innanzitutto Antonio rimane invischiato nella faccenda dal momento che si sente in obbligo verso il vicino a cui ha fatto una promessa in punto di morte; perché di suo se ne sarebbe stato alla larga. C’è quindi un'onestà di fondo, anche se è vero che in ogni caso poi il nostro cede alla tentazione. L’aspetto veramente interessante della storia è però rivelato nel finale, quando si scopre che tutti e tre i complici hanno preferito non spendere il denaro falso, ma piuttosto indebitarsi per comprare chi le scarpe e chi il cappotto nuovi. Questo è un passaggio curioso perché conferma quell’onestà di fondo di cui si diceva sopra, dell’italiano medio, che però, e qui sta la vera sorpresa, quasi se ne vergogna e, per nasconderla, per evitare di essere additato come onesto e quindi poco furbo (in questo caso agli occhi dei complici), ricorre addirittura ad un prestito. Quindi si ricorre all’indebitamento non tanto per la brama per l’oggetto nuovo da sfoggiare ma per non passare per fesso, del timoroso che non spende i soldi fasulli e quindi disonesti.
Insomma, la retorica dell'italietta, quella autartica del dopoguerra, alla lunga viene fuori lo stesso e se non ci vuole ladri ci dipinge come codardi.





Giulia Rubini