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mercoledì 31 gennaio 2018

DRACULA

94_DRACULA  . Stati Uniti, 1931;  Regia di Tod Browning.

Il film Dracula del 1931 è riconosciuto da tutti come il classico dell’orrore che ha aperto la gloriosa stagione dei film horror della Universal, che lo studio porterà avanti, con alterne fortune, fin quasi agli anni sessanta. I meriti specifici della pellicola dedicata al vampiro, tuttavia, sono spesso riconosciuti un po’ a denti stretti, come se il film di Browning non convincesse mai del tutto, almeno non a livello di meritarsi lo status di capolavoro (che invece gli spetta a pieno titolo). In ogni caso, innanzitutto, c’è da rivedere un pochino la questione della paternità di questo Dracula, che è la prima versione ufficiale e dichiarata dedicata al protagonista del libro di Bram Stoker: se il regista indicato ufficialmente dai credits è appunto il validissimo americano Tod Browning, molte fonti vi affiancano (probabilmente con ragione) il nome del direttore della fotografia, il quotato tedesco Karl Freund. E comunque risulta anche che il regista non abbia avuto l’ultima voce in capitolo sull’opera, in quanto venne escluso dal montaggio finale della pellicola. La genesi particolare di questo film è interessante e magari anche cruciale nel produrre l’atmosfera un po’ indefinita che si respira poi nel vederlo sullo schermo: durante la visione dell’opera si avverte, infatti, un sentimento che sfuma nel disagio e nell’inquietudine, più che provare paura o terrore. E forse, ma siamo sempre nel campo delle ipotesi, i molti elementi che hanno concorso al risultato finale, lo hanno ottenuto in modo casuale, questo risultato. Perlomeno non deve essere coscientemente voluto da un'unica mente, perché, come abbiamo visto, Tod Browning, che in qualità di regista ufficiale è a rigor di logica la persona che ha influenzato maggiormente l’opera, non ebbe però l’ultima parola; e, a onor del vero, mai aveva avuto, nel merito specifico, carta bianca.


Anzi, lo studio eserciterà un controllo attento sull’operato del regista, fino alla scelta, supportata anche dalla testimonianza di un attore (David Manners che nel film è Jonathan Harker), di sostituirlo nel finale con Karl Freund. Lo stesso studio, nei panni nientemeno che del figlio fondatore della Universal stessa, Karl Laemmle Jr., del resto, aveva ingaggiato Bela Lugosi per il ruolo di Dracula, scavalcando ogni velleità del regista di esprimere la propria opinione. Ma va detto che, per questo specifico caso, si trattava di una scelta logica, visto che la Universal aveva acquistato i diritti della versione teatrale di Dracula, una rappresentazione nella quale spiccava in modo eclatante l’interpretazione dell’attore ungherese nel ruolo del conte.

Quindi, l’impianto teatrale, che lo studio ci tenne a non sconfessare, essendo più economico rispetto ai set richiesti da un film più spettacolare, è un primo elemento che deriva dalla scelta del soggetto, ovvero non tanto il libro Dracula di Bram Stoker ma la sua versione adattata al palcoscenico. A questo punto è opportuno considerare l’importanza della presenza di Bela Lugosi nella definizione del personaggio protagonista: la versione elegante, distinta, raffinata, il fascino da gran seduttore, sono tutte caratteristiche da ricondurre all’istrionico attore. Del resto Lugosi era appunto l’interprete anche della rappresentazione teatrale da cui il film fu tratto e quindi la sua influenza sulle connotazioni del vampiro è indiscussa. Per valutarne l’importanza, basta confrontare il suo Dracula con il Nosferatu di Murnau; quello era un vero mostro, mentre il conte di Lugosi è un uomo, soprattutto per le raffinate ragazze inglesi della storia, dannatamente affascinante. Qui forse è il caso di cominciare a parlare dei primi meriti riconoscibili al regista: è probabile che Lugosi avesse la tendenza a enfatizzare eccessivamente queste sue caratteristiche, era pur sempre abituato al teatro, e il rischio di rovinare il tutto con una interpretazione troppo sopra le righe era da considerare. Invece per tutto il film, fatto salvo forse un po’ il finale, lo stile recitativo dell’attore ungherese è trattenuto, sospeso, e questo è uno degli elementi che conferisce maggior sensazione di disagio, di irrequietezza interiore, alla pellicola.

E il fatto che questa scelta stilistica recitativa di Lugosi si integri perfettamente nel quadro generale della messa in scena della pellicola, ci rende lecito pensare che sia merito di Browning. Un altro aspetto importante è la solennità della stessa messa scena, con lenti movimenti di macchina che ci introducono nelle maestose scenografie; Browning rende quindi il nostro approccio alla storia circospetto, ossequioso, intimorito, e in questo gli è di grande aiuto il lavoro di Charles D. Hall, uno scenografo di assoluto valore. Le ambientazioni, soprattutto quelle della prima parte rumena su cui spicca la visita di Renfield (il bravissimo Dwight Frye) al castello, sono vaste, imponenti e, immerse come sono nella loro oscurità, incutono paura di un pericolo ignoto che si può celare in uno dei molti spazi in ombra. Ottima anche la scelta del tema musicale, Il lago dei cigni di Tchaikovsky, sebbene in origine limitata ai titoli di testa: la melodia è infatti perfetta per preparare una leggera increspatura d’inquietudine nello spettatore fin già dall’incipit.

Infine tra i significati dell’opera, la metafora sessuale che viene abitualmente abbinata al mito del vampiro, è certamente sviluppata bene da Browning che dipinge un Dracula seduttore e in apparenza assolutamente rispettabile. Non vengono mai mostrati esplicitamente i morsi alla gola o i canini accentuati del vampiro e nemmeno si insiste sulle due piccole ferite che egli lascia sul collo delle vittime. Il mostro, il diverso, non è così mostrato come qualcosa di deforme (ad esempio il già citato Nosferatu di Murnau) ma nemmeno troppo pittoresco od eccentrico come forse avrebbe finito per essere Lugosi se avesse potuto andare a briglia sciolta. Il male, sembra dirci quindi il regista, si può annidare dietro le apparenze più rispettabili. Ma, al di là di questi significati simbolici e metaforici della storia narrata, il film ha una sua importanza superiore, visto anche nel contesto generale del tempo.



Spesso si cerca una motivazione specifica che giustifichi un determinato film dell’orrore (ad esempio quella citata sessuale per il mito del vampiro) dimenticando, forse, che la paura è un sentimento atavico e innato nell’essere umano. E’ quindi quasi fisiologico che, a fronte di determinati periodi storici, nel pubblico nasca una sorta di necessità di avere paura, di veder cristallizzato, materializzato sullo schermo, qualcosa di cui aver paura per poter sfogare un sentimento interiore crescente ma che non ha ancora avuto modo di sgorgare liberamente. 

Nel 1931 negli Stati Uniti si era nel pieno della Grande Depressione, in Europa ci si preparava, con l’avvento di feroci dittature, ai nefasti tempi della Seconda Guerra Mondiale. Se, a livello cinematografico, l’espressionismo tedesco si era nutrito di questo humus, Dracula di Tod Browning è forse il primo film che utilizza il cinema hollywoodiano di genere horror con lo stesso meccanismo in quella fase storica. Mettere in scena la paura, dare uno sfogo sullo schermo cinematografico alle inquietudini e alle paure del periodo: e, per farlo, non serve cercare chissà quali pretesti narrativi moderni o attuali, si può tranquillamente attingere alla florida tradizione europea o alla letteratura del secolo precedente. Non è tanto importante di cosa si ha paura, ma è necessario sfogarla; per questo, i successivi film Universal degli anni 30, quelli del famoso Dark Universe, sono popolati da mostri provenienti dal folklore europeo (licantropi), dall’antichità (la mummia) o dai romanzi gotici del Romanticismo (Frankenstein), e non da qualche entità più contemporanea o contingente alle reali insidie. E Dracula di Tod Browning assolve alla perfezione al compito di sorta di apripista di questo nuovo corso, perché introduce nello spettatore un inquietudine sottile, quasi preparatoria: il peggio deve ancora venire, sembra sussurrarci il regista. 
E aveva ragione.   

   
Helen Chandler





Frances dade



lunedì 29 gennaio 2018

COLLATERAL

93_COLLATERAL   Stati Uniti, 2004;  Regia di Michael Mann.

Un uomo scende dalla metropolitana e si toglie la giacca per coprire le spalle della donna che cammina accanto a lui.
In questa semplice scena, la scena finale, c'è tutto il senso dello straordinario film di Michael Mann, Collateral. Prendiamoci cura. Mettiamo qualcuno al centro al nostro del nostro operare, del nostro fare.
Perché non basta essere qualcuno che fa, anche se è vero che è meglio fare che parlare, su questo si può essere d'accordo con Vincent, il personaggio interpretato da quello che è forse il miglior Tom Cruise mai visto sullo schermo.
Max, (l'ottimo, a sua volta, Jamie Fox) è "uno che fa invece di parlare. E' forte"; per usare appunto le parole di Vincent. Ma non basta; perché nella giungla moderna, fare, lavorare, muoversi, darsi da fare, avere progetti, non basta.
Anzi, ad essere efficienti, ad essere troppo efficienti, si rischia di fare un patto col diavolo, come quello che Max stipula con Vincent: soldi in cambio di lavoro, nient'altro, lasciando perdere gli effetti collaterali.
E proprio da questo rischio ci mette in guardia il film di Mann, opera davvero strepitosa di un autore che è ormai uno dei punti di riferimento del cinema odierno. E tra gli effetti collaterali di cui occorre preoccuparsi c'è anche la nostra umanità. Quell'umanità che nel film è mostrata con tutti i colori della caotica Los Angeles, delle luci al neon, dei taxi rossi e gialli; e non a caso Max, il protagonista, è un uomo di colore; e la sua salvezza è una donna, Annie (una deliziosa Jada Pinkett Smith), anch'essa di colore.


Uomini, donne, ma in realtà nient'altro che prede, per i predatori che nella giungla moderna sono in caccia. Quella caccia mostrata nella parte finale del film, con sequenze mozzafiato sottolineate dal rullare della colonna sonora. Efficienti e spietati, i predatori sono come lupi, grigi come li ha resi l'assenza di umanità, che nel film, lo abbiamo capito, è resa invece dal colore.

Vincent, capelli e pizzetto grigio, abito grigio, non è però un cattivo come siamo abituati a vedere: a un certo punto Max gli domanda "Allora tu cosa sei?" "Indifferente", è la risposta. Indifferente ma molto, molto efficiente. Non si pone dubbi o domande, come al contrario fa Annie; non è un uomo da farsi problemi. In un altro passaggio, tra i tanti e splendidi dialoghi, a domanda precisa e diretta "(Lei) come si chiama?" risponde "Nessun problema". Ha un compito, e intende farlo: "Max, questo è il mio lavoro!" avverte prima dello scontro finale. Non è quindi nemmeno scorretto; è un burocrate dell'efficienza.
E' questa la deriva pericolosa: passare dal girare in tondo senza meta, (come fa Max, che sono 12 anni che si dedica ad un lavoro provvisorio e non ha mai il coraggio di arrivare al dunque), a smettere di avere sogni o anche solo qualcuno per cui preoccuparsi ma badare solo al proprio dovere, con efficienza, precisione, puntualità.

Max ha ancora un sogno, ma forse è solo un pretesto per sfuggire la realtà. Certo, il suo taxi è colorato, lui stesso è un uomo di colore; ma è anche preciso e puntuale, e il suo taxi pulito ed efficiente. Non sono certo difetti, questi, ma sulla capote della sua macchina la scritta pubblicitaria "Silver" lo indica come predestinato all'incontro col lupo argenteo Vincent. Il suo destino è forse già deciso? Il suo percorso sembra davvero segnato: cinque precise tappe nella sera raccontata dal film, da seguire senza fare obiezioni, con scrupolosa diligenza professionale. A concrettizare, capitalizzare, il continuo girovagare infruttuoso dei precedenti dodici anni di servizio. E Max vacilla e, in fede al patto stipulato con Vincent, diventa lupo a sua volta, si cala nei panni della controparte. Poi reagisce: la salvezza passa prima da un deragliamento, una rottura della routine efficiente e senza fine. Max manda il taxi ruote all'aria ma salvarsi non basta. La vera salvezza non è ancora raggiunta. L'unica salvezza davvero valida si ottiene rivolgendo altrove i nostri sforzi, salvando qualcun altro. In questo caso, dal momento che Mann è un autore classico, c'è una "damigella in pericolo" da cavare dai guai.
Avere qualcuno di cui aver cura. Avere un effetto collaterale di cui preoccuparsi.






Jada Pinkett Smith




sabato 27 gennaio 2018

DIFRET - IL CORAGGIO PER CAMBIARE

92_DIFRET - IL CORAGGIO PER CAMBIARE   (Difret). Etiopia, 2014;  Regia di Zeresenay Berhane Mehari .

Prima di sbilanciarsi in qualche considerazione a proposito del film etiope Difret - Il coraggio per cambiare, vale la pena riflettere sul significato del termine Difret che è, emblematicamente, il titolo originale dell’opera. In amarico, la lingua ufficiale dell’Etiopia, il termine ha due significati: normalmente vuol dire coraggio, e questo corrisponde, grosso modo, al senso della traduzione data dai distributori per il mercato italiano; ma, in maniera abbastanza spiazzante, difret viene usato anche per indicare la violenza dello stupro. E prima di affrontare l’argomento trattato nell’opera, occorre rimarcare come ci sia da rimanere sconcertati dal fatto che, evidentemente, anni e anni di consuetudine abbiano prodotto una lingua nella quale vengano accumunati nello stesso vocabolo l’atto di violentare una donna con una prova di coraggio. Hai voglia a cercare di intendere il racconto filmico di Mehari come un’opera di finzione e, quindi, non essendo un documentario, non necessariamente da prendere alla lettera; (per quanto le didascalie ci indichino che i fatti narrati siano veri). Diventa evidente che quelli narrati possono essere, e lo saranno sicuramente, fatti realmente accaduti, anche semplicemente basandosi, come prova inconfutabile, sul fatto che in quel paese si adotta una soluzione linguistica tanto aberrante come accomunare due concetti diametralmente opposti: l’atto più vile, la violenza sessuale, definito come una prova di coraggio. Nel film, una povera ragazza di 14 anni viene rapita dall’uomo che la vuole sposare, che poi provvede a picchiarla duramente, rinchiuderla e violentarla nella speranza di metterla incinta.
Il padre di lei ne aveva rifiutato una sua precedente richiesta di prenderla in sposa. Pare che, nelle campagne etiopi, in queste circostanze sia (quasi) abitudine andare in gruppo di mezze dozzine di uomini, a cavallo e armati di fucile, a rapire ragazzine riluttanti. Poi una mano di botte, giusto per far capire come gira il mondo, e infine la violenza sessuale; che se la ragazza rimane in stato interessante poi anche il padre si convincerà che la soluzione più accomodante sia celebrare il matrimonio. La ragazza della storia, Hirut (Tizita Hagere), è però un tipetto tosto e dopo la bella nottata approfitta della distrazione degli uomini per scappare con il fucile del presunto futuro marito: verrà ripresa ma, a sorpresa, userà il fucile in modo anche troppo preciso, eliminando il focoso pretendente.


Omicidio a sangue freddo: se una donna lo commette ai danni di un uomo, deve essere impiccata, è l’antica legge. Meno male che ad Addis Abeba opera Meaza (Meron Getnet), un’avvocatessa di Andenet, un’associazione che difende le donne e i bambini dalle violenze e che prontamente si incarica di prendere le parti della povera ragazza. 

Pur nelle difficoltà create sia della comunità rurale, che rinuncerà a giustiziare la troppo giovane ragazza ma ne imporrà l’allontanamento dalla famiglia, sia dalle istituzioni ufficiali, restie ad approfondire una questione che appare più opportuno liquidare come omicidio, la brava Meaza riuscirà, anche mettendosi addirittura contro il ministro di giustizia del governo, a far assolvere Hirut. Dal punto di vista strettamente cinematografico il film è appassionante, evidentemente anche per via dell’argomento ma, in ogni caso, la storia ha ritmo e gli attori sono professionali.
Amaro costatare ancora una volta come chi detenga il privilegio, a qualunque latitudine, faccia di tutto, anche a fronte delle peggiori porcate, per difendere la propria categoria.


Meron Getnet


Tizita Hagere



giovedì 25 gennaio 2018

LA NOTTE HA MILLE OCCHI

91_LA NOTTE HA MILLE OCCHI (Night has a thousand eyes). Stati Uniti, 1948;  Regia di John Farrow.

Alla base di questo inquietante film noir con risvolti sovrannaturali, c’è l’omonimo romanzo di Cornell Woolrich (pubblicato con lo pseudonimo di George Hopley), uno scrittore che è una garanzia in fatto di buoni soggetti. Il regista John Farrow si muove con diligente applicazione e riesce a conferire alla pellicola il senso angosciante che era l'essenza del plot narrativo; la capacità eccellente di un mostro sacro come Edward G. Robinson, nei panni del protagonista, permette al film di fare il definitivo salto di qualità e meritarsi un posto d’onore tra le opere strettamente di genere. Robinson nel film è John Triton, un sedicente mago che scopre, suo malgrado, di avere realmente poteri paranormali. Accusato di essere un imbroglione che sfrutta le circostanze, proverà, al contrario, in tutti i modi a salvare la vita alla figlia degli ex soci (una deliziosa Gail Russel nel ruolo di Jean Courtland), anche a costo della propria. Fase iniziale a parte, il film sposa, nei confronti dello spettatore, quasi subito la tesi della genuinità dei poteri soprannaturali di Triton, anche a fronte delle controprove portate dalla polizia; non è infatti tanto sul dubbio della fondatezza di queste doti che si gioca il fulcro della storia. Il film sembra cominciare dalla fine, con una scena di un salvataggio all’ultimo secondo degna di un finale al cardiopalma; ovviamente poi si apre un lungo flashback che ci fornisce i dettagli iniziali della vicenda. Ma si tratta solo della prima parte del film, che serve a scaldare la tensione e a preparare una seconda metà davvero avvincente. 

 Anche questa parte finale del film è giocata con un’anticipazione, stavolta legata alle nefaste premonizioni di Triton: una serie di accadimenti (alcuni anche possibili, come il fiore calpestato o la raffica improvvisa di vento, altri davvero improbabili come la vista della zampa di un leone) che culminerà con la morte di Miss Courtland. A prima vista sembra impossibile che si possano avverare tutti, e in sequenza poi; ma, in ogni caso, la polizia cerca di osteggiare questa successione di eventi, sia nel tentativo di salvare la vita a Miss Courtland che soprattutto per dimostrare la malafede del mago. Lo scorrere dei giorni, delle ore, dei minuti, fa crescere la suspense mentre la serie di eventi previsti da Triton prima della tragedia, in un modo o nell’altro, accade, nonostante i tentativi preventivi della polizia di scongiurarli. Personaggi e spettatori subiscono l'escalation di tensione e sono gettati nello sconforto. In questa fase della storia si può notare la grande maestria di Woolrich che, quando ha in mano le redini del racconto, non esita a giocare anche sporco, con colpi bassi abitualmente non accettabili (a livello di logica e plausibilità narrativa) ma che, quando la tensione è oltre il livello di guardia, non solo sono permessi al narratore ma anzi sono un valido strumento che gli consente di alimentare credibilmente la suspense, visto che ormai il lettore (o lo spettatore, in questo caso) è in balia degli eventi. Il finale di grande emozione permette una quadratura del cerchio con un misto di tristezza per la sorte di Triton e di sollievo per la ragazza, che può consolarsi dalla brutta avventura con il classico lieto fine. Bruttissima figura invece per la polizia che di fatto uccide un innocente e prova anche ad insabbiare la cosa.





Gail Russell




martedì 23 gennaio 2018

IL MUCCHIO SELVAGGIO

90_IL MUCCHIO SELVAGGIO ( The Wild Bunch). Stati Uniti, 1969;  Regia di Sam Peckinpah.

Novantamila proiettili (a salve, ovviamente) per poco più di sei minuti (6’ e 10” per l’esattezza) e una sequenza a dir poco leggendaria: è lo scontro finale tra il Mucchio Selvaggio (Pike Bishop/William Holden, Dutch Engstrom/Ernest Borgnine, Lyle Gorch/Warren Oates e Tector Gorch/Ben Johnson) e l’esercito del generale Mapache (Emilio Fernàndez). Sam Peckinpah ce l’ha quindi fatta, e tutto sommato abbastanza velocemente, nonostante le frustrazioni subite nei tre precedenti lungometraggi devono essergli pesate molto: il suo western, il western alla Peckinpah è divenuto realtà. Se i primi due film del regista californiano (La morte cavalca a Rio Bravo e Sfida sull’Alta Sierra), pur coi loro evidenti meriti, possono essere serviti a prendere un po’ le misure al mestiere di regista e al genere nel suo complesso, già con Sierra Charriba era lampante l’intenzione dell’autore di mettere su pellicola un’opera che fosse al contempo celebrativa e dissacrante, un’operazione che solo un genio del suo calibro poteva immaginare. Ma il film con Charlton Heston e Richard Harris, forse proprio in virtù di quei suoi azzardi già nella concezione, aveva addirittura subito più ingerenze dai produttori rispetto ai già martoriati primi due lavori di Peckinpah. Per nostra fortuna tra le qualità del regista c’è anche l’ostinazione, e quello che in Sierra Charriba era solo intuibile tra i frammenti di una storia forse troppo articolata e in ogni caso poi massacrata in sede di montaggio, diviene formalmente ineccepibile in questo  Il Mucchio Selvaggio, che vanta, rispetto al tentativo precedente, una maggior coesione del plot narrativo, in questo caso perfettamente congegnale alla riuscita complessiva.
La struttura del film è compresa tra due gigantesche sparatorie: la storia si apre infatti con una rapina in banca del Mucchio Selvaggio (nome a cui corrisponde, in sostanza, una banda di fuorilegge), che è atteso in trappola dagli uomini ingaggiati dalla ferrovia, capeggiati da Deke Thorton (Robert Ryan), tra l’altro ex compagno di scorribande del leader del mucchio, Pike Bishop. La sequenza d’apertura del film è magistrale: gli uomini del mucchio, con le divise dell’esercito americano, entrano a San Rafael sfilando con tranquillità nella main-street del paese; alcuni bambini si divertono con due scorpioni in lotta con le formiche rosse, un pastore della Lega della Temperanza proclama il suo sermone sotto un  improvvisato tendone. Sul tetto di fronte alla banca, Thorton sembra appisolato, al contrario dei suoi compagni, i bounty-killers, che fremono per entrare in azione e far fuoco sul mucchio, dando vita all’imboscata. Il corteo della Lega della Temperanza si incammina, i bambini corrono e ridono, il Mucchio Selvaggio entra in azione ad armi spianate dentro la banca; i bounty-killers della ferrovia non stanno più nella pelle, non riescono a starsene nascosti e, alla fine, facendosi scorgere, mandano sostanzialmente in malora l’effetto sorpresa. La situazione precipita, i cacciatori di taglie attaccano il concerto in modo maldestro, gli uomini del mucchio, recuperato il bottino, provano a filarsela, rispondendo comunque al fuoco: il tutto in mezzo alla strada, tra la gente e i passanti capitati per caso nella bolgia che si scatena.

Se la scena si presenta in modo più realistico dei tanti agguati visti fin’ora nei film western (il nervosismo degli uomini in agguato, le persone innocenti coinvolte), gli effetti dei colpi sono addirittura enfatizzati: ferite che si aprono sui corpi, sangue che sgorga e zampilla, cadute, ruzzoloni, cavalli imbizzarriti, gente che urla, che scappa in ogni direzione. Un montaggio frenetico abbinato, magistralmente, ad un uso quasi esasperato delle immagini al rallentatore, produce un effetto quasi ipnotico, di sublime estasi, che pone al centro dell’attenzione il fascino della violenza, senza alcuna ipocrisia.

La violenza è da sempre il tema dominante, o comunque uno dei temi prevalenti, del cinema americano che ha sempre cercato, almeno fino ad ora, pretesti ed escamotage narrativi per poterla riprodurre sullo schermo. Peckinpah azzera questa ipocrisia: la violenza è affascinante, praticamente chiunque veda Il Mucchio Selvaggio, beninteso a mente serena, non può che convenirne. La conquista del west fu un periodo estremamente violento: e questo è sicuramente uno dei motivi del suo fascino e Peckinpah, non avendo remore a mostrarcelo, può anche, contemporaneamente, denunciare i suoi effetti collaterali in un contesto realistico. Nel west non edulcorato del regista statunitense gli episodi di violenza coinvolgono anche personaggi estranei, semplici passanti, uomini, ma anche donne o bambini. In questo senso della violenza non è solo mostrato il fascino perverso ma anche la duplice pericolosità: per l’influenza malefica che può avere ma anche per i semplici danni collaterali, abitualmente però ignorati dal cinema perché scomodi e difficili da gestire in un racconto.


Dopo la sequenza della rapina si apre una sorta di caccia, con i banditi che ripiegano in Messico e i killers della ferrovia che li inseguono. Tra i due gruppi di uomini non ci sono grosse differenze: quelli del Mucchio Selvaggio sono banditi senza scrupoli capeggiati da un uomo di aspetto asciutto, abbronzato, sulla cinquantina, coi baffi (Pike Bishop); la stessa descrizione della fattezze somatiche può andar bene per il capo degli inseguitori (Deke Thorton) mentre i suoi uomini sono canaglie anche peggiori dei fuggivi.

Quello che salta subito all’occhio è la mancanza di una componente positiva nella contesa: banditi gli uni, banditi gli altri. E se gli uomini del mucchio non sono certo presentati con indulgenza, i killers sono mostrati come autentici sciacalli avvezzi a depredare i morti da loro stessi uccisi. Ma i buoni sono assenti praticamente in tutto il film: forse solo per le reclute dell’esercito americano che si aggiungono alla caccia al Mucchio Selvaggio viene risparmiata una descrizione negativa, laddove però Peckinpah si sofferma sulla loro completa inadeguatezza. Pessima figura ci fa la ferrovia che ingaggia volgari criminali spronandoli ad uccidere pur di eliminare gli ostacoli ai propri affari, e pessima figura anche per i messicani, una masnada di briganti al soldo di Mapeche. Se la potrebbero cavare gli abitanti del paesino natale di Angel (l’elemento messicano del mucchio), che pur nell’estrema povertà si mostrano molto ospitali: a loro carico vanno però ascritte le due traditrici della storia. Per prima la bella Teresa, che tradisce l’amore di Angel per il potere di Mapeche, e in seguito anche sua madre, per vendicarsi della fine subita dalla figlia, uccisa per gelosia dallo stesso Angel.


Proprio questo è uno degli aspetti di grande impatto dell’opera di Peckinpah: non solo donne e bambini sono coinvolti in quanto vittime innocenti, ma sono essi stessi protagonisti del male e della violenza, non solo con atti subdoli come i suddetti tradimenti, ma anche in modo assai più attivo durante gli scontri a fuoco. L’estrema lucidità, l’impietosa analisi rende Il Mucchio Selvaggio un film assolutamente capitale, ma non è certo un film immerso in una luce completamente negativa, anzi. Dopo varie peripezie narrative, (tra le tante, un assalto al treno, un ponte fatto saltare in modo spettacolare sotto i piedi degli inseguitori, un accordo tra il Mucchio Selvaggio e il general Mapeche) si arriva all’esaltante scontro finale.
Si è detto come Angel, in precedenza, in modo del tutto inaspettato, a sangue freddo e in pubblico, avesse ucciso la sua ex fidanzata Teresa, divenuta una delle donne di Mapeche; il general in prima istanza aveva soprasseduto ma ora della fine era evidente che avrebbe dovuto fargliela pagare. Il pretesto è una cassa di fucili trafugata da Angel e dai suoi compaesani; il tradimento è della madre di Teresa, che vuole vendicare la figlia: Mapeche non aspetta altro per catturare e torturare il povero Angel, mentre paga il convenuto al resto del mucchio.

I quattro reduci della banda, Pike, Dutch e i fratelli Gorch hanno i soldi, ma sono ancora tallonati da Thorton e dai suoi killers; il povero Angel è torturato dagli uomini di Mapeche. Spesso, al cinema, si è mostrato come prima di fare l’amore sia necessario sfogare la propria parte violenta, tanto che dopo un conflitto c’è una scena romantica (a partire dal classicissimo duello per contendersi la dama in premio al vincitore). Peckinpah rovescia anche questo cliché: tre membri del mucchio, (i Gorch, due autentici puttanieri, e Pike) si concedono una sana ora di svago con un paio di prostitute messicane; Dutch rimane seduto fuori, intagliando un legno mentre probabilmente non smette di pensare alla sorte di Angel, a cui deve la vita. Una volta terminato, Pike, si riveste mentre, a sua volta, la ragazza si riassetta un po’, mettendosi un po’ di profumo. Il bambino della giovane piange, una musica di chitarra dolce accompagna il momento.

Pike si fa un sorso di tequila; dalla stanza accanto giungono le lamentele dell’altra prostituta, che protesta perché i fratelli Gorch vogliono pagare una corsa singola e non doppia. Lyle si fa una doccia con la bottiglia di tequila, Tector gioca tenendo tra le mani un passerotto; nel locale entra Pike, li guarda prima di dire semplicemente: andiamo. I due sembrano sorpresi, si guardano, guardano Pike: sì, andiamo_ risponde Lyle. Pike paga la ragazza, che ringrazia con un cenno del capo; i tre se ne vanno, mentre si sentono le invettive della seconda prostituta contro i fratelli e vediamo il passerotto rantolare agonizzante in fin di vita. Pike, Lyle e Tector escono dal bordello, Dutch, vedendolo pronti all’azione, sorride e si alza: i quattro cavalieri dell’apocalisse si incamminano per vendicare l’Angelo caduto.


La sparatoria nel covo di Mapeche dura la metà della rapina alla banca che apre il film ma è violenta il doppio. E rivela in modo chiaro, plateale, il tema del film: l’amicizia è un codice di onore sorretto da un senso di solidarietà l’uno per l’altro che è talmente forte da resistere anche nel peggiore dei mondi possibili. E’ questo che ci mostra la magistrale sequenza dello scontro finale, che è una sorta di Giudizio Universale michelangiolesco in versione western.
Il Mucchio Selvaggio non è l’ultimo grande classico western: è semplicemente quello definitivo.










Il Mucchio Selvaggio