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lunedì 30 settembre 2019

UOVA FATALI

418_UOVA FATALI ; Italia, 1977Regia di Ugo Gregoretti.

Bizzarra ed imprevedibile trasposizione televisiva dell’omonimo romanzo di fantascienza di Michail Afanas'evič Bulgàkov, Uova fatali è uno sceneggiato di Ugo Gregoretti. Il libro non era certo semplice da rappresentare sullo schermo, soprattutto per i mezzi tecnici della Rai degli anni settanta; Gregoretti ci mette estro e fantasia. In effetti il merito che viene maggiormente riconosciuto al suo lavoro in Uova fatali è l’avveniristico uso del chroma key, che permetteva, in soldoni, di inserire un’immagine in movimento in un’altra immagine in movimento. Al di là di queste soluzioni francamente un po’ empiriche, Uova fatali è da ricordare prevalentemente per la curiosa storia fantascientifica di Bulgàkov, per il timbro scanzonato ma genuino della produzione televisiva e per l’interpretazione di Gastone Moschin, nei panni del professor Persikov. Il racconto di Bulgàkov è del 1925 e vi si può leggere un’interpretazione tecnologica dei classici meccanismi del racconto fantastico: per esempio, può essere inteso come una sorta di aggiornamento della vicenda di Frankenstein, nella quale si cercava di ridare vita ad un essere inanimato. Qui, grazie al misterioso, e fortuitamente scoperto, raggio rosso, si accelera e aumenta lo sviluppo delle uova. La vicenda è grottesca, uno sberleffo alla dittatura comunista che si illudeva, con il progresso tecnologico sotto l’egida del partito, di riuscire a costruire una società vitale e perfetta. Bulgàkov ha un intento satirico: del resto, il raggio che rinvigorisce, che ridà la vita, è rosso come le bandiere del partito. Il raggio ha un effetto miracoloso, ma saranno proprio i suoi effetti che, per un banale errore di consegna nelle spedizioni, scateneranno l’orrore. 

Gregoretti cavalca la deriva surreale innestando innovazioni come il citato chroma key, all’epoca certamente stupefacente in senso tecnico, ma non per questo sullo schermo credibile in senso assoluto. A salvare la funzionalità di un simile espediente è proprio l’atmosfera scanzonata che si respira nello sceneggiato. In cui Moschin, come detto, gigioneggia mantenendo viva l’attenzione dello spettatore anche quando la storia si perde un po’ nelle sue bizzarre divagazioni. Insomma, nell’insieme, una produzione certamente originale, simpatica e, a suo modo, anche coraggiosa. 


sabato 28 settembre 2019

BARB WIRE

417_BARB WIRE ; Stati Uniti, 1996Regia di Paul Hogan.

Film ispirato all’omonima serie a fumetti della Dark Horse, Barb Wire è stato un fiasco al botteghino oltre che un’opera trascurabile. Se non fosse che, ad interpretare l’eroina protagonista, c’è Pamela Anderson in gran spolvero. Ed è curioso che critica e, soprattutto, pubblico si siano accaniti in questo caso contro l’attrice di origine canadese. In fondo Pamela deve le sue fortune all’avvenenza mostrata nella serie Baywatch, dove non è che paventasse queste grandi doti di recitazione. Perché in Barb Wire il suo approccio è adeguato alla bisogna e, anzi, la sua bellezza ostentata in modo quasi stilizzato è perfetta per rendere sullo schermo un personaggio preso dai comics. Una sorta di versione dinamica, dark e un po’ violenta, di Jessica Rabbit, in forma (e che forma!) tridimensionale. Insomma, la Barb Wire di Pamela Anderson è una vera icona cinematografica, buca lo schermo ad ogni inquadratura ed è indiscutibilmente memorabile. Si può certamente discutere sull’uso che viene fatto della bellezza femminile, in un film che fonda il suo  unico motivo di interesse sulle grazie della protagonista. Ma è un discorso insidioso che potrebbe essere esteso alla stragrande maggioranza dei film prodotti, e nel discorso andrebbero inclusi anche gli interpreti maschili. Certo, la Anderson con il suo look che sintetizza alcuni cliché estetici della bellezza moderna, (il trucco pesante agli occhi, i capelli biondo platino, i vestiti aderenti, il fisico tonico e ben fornito delle giuste curve), porta all’estremo tutto ciò ma non fa nulla di effettivamente nuovo. L’utilizzo della figura femminile al cinema non è spesso diverso da quello che si fa di quella maschile, si pensi ai forzuti dei peplum o agli eroi palestrati dei film sui supereroi, ed è lo stesso da sempre. 

Criticabile? Forse. Di fatto la bellezza emoziona e per questo viene utilizzata sullo schermo. In ogni caso, Pamela non se ne va in giro per il film mezza nuda ma, piuttosto, riesce ad essere un credibile cartoon in carne ossa. L’uso eccesivo di quegli stratagemmi che stimolano il richiamo sessuale (il trucco, i vestiti) ci dice che, almeno in questo film, per essere appetibile utilizza quegli strumenti che sono alla portata di qualunque altra. Quindi se anche la Anderson usa, e lo fa in abbondanza, questi argomenti artificiali per sedurre lo spettatore, è chiaro che il concetto di bellezza che passa non è tanto nel corpo perfetto dell’attrice quanto nell’idea sensuale che viene veicolata tramite l’uso di aspetti feticistici (capelli, sguardo, scollatura, tacchi, ecc.) quindi anche concettuali oltre che estetici. In fin della fiera si sottolinea come sia anche l’idea della seduzione in sé che seduce, e non solo il corpo ostentato. C’è quindi un tentativo di innestare, sull’imperante culto del corpo perfetto, i classici argomenti della seduzione che sottolineavano ed enfatizzavano i richiami sessuali: il risultato è un cocktail esplosivo biondo platino che gira agghindato in abiti attillati che ne strizzano le curve. 


A conti fatti, la perfetta sintesi della seduzione. Ma se anche una donna già bella di suo come la Anderson recupera questi stratagemmi, ne sottolinea allo stesso tempo l’importanza. E dal suo ricorso a questi stilemi erotici si può ricavare la conclusione che la seduzione ha un aspetto ludico (a cui si rifanno lo strumentale utilizzo dei citati cliché seducenti, il suo look da cartoon o i giochi sadomaso) accessibile a tutti anche senza avere il fisico perfettamente modellato. Pertanto, se Barb Wire appare come un'estrema celebrazione della star più bella e fisicamente scolpita del firmamento, in definitiva l’opera finisce per sminuire l’importanza del culto del corpo perfetto a favore di un approccio più fantasioso (nel senso di fantasie sessuali). Naturalmente qui il discorso è impostato unicamente sulle regole dell’attrazione fisica ma, d’altronde, non è che ci si potesse aspettare di più da un film basato su una celebrità divenuta tale semplicemente girando per lo schermo TV in costume da bagno. Per chiudere, anche l’ironia di grana grossa e un po’ maccheronica dell’eroina è in linea con le aspettative che si possono avere. In definitiva il film sarà anche francamente banale e scontato ma Pamela Anderson icona indimenticabile va assolutamente recuperata.    






Pamela Anderson






















giovedì 26 settembre 2019

IVONNE LA NUIT

416_IVONNE LA NUIT ; Italia, 1949Regia di Giuseppe Amato.

Giuseppe Amato, il regista di Ivonne la Nuit, ha un ruolo di rilievo nel cinema italiano in veste di produttore; più limitate le sue capacità dietro la macchina da presa, come testimoniato anche da questo film con Olga Villi (l’Ivonne della storia) e Totò (Nino). Il lungometraggio, infatti, non è che funzioni granché: bene la prima parte, con la Villi che, sui palchi dei teatri della belle epoque, ripropone in modo credibile il fascino dell'epoca. L'attrice non è che sia un'interprete memorabile, e se ne avrà la conferma nella seconda parte del lungometraggio, dove la vicenda prende una deriva drammatica, ma ha indiscutibilmente il phisique du role per dominare la scena grazie ad una statuaria e, al tempo stesso, aggraziata figura. Nella sua ombra finisce per stare, sia per il ruolo nella storia ma anche per resa sullo schermo, perfino Totò. Rappresentazione sul palco teatrale de Il bel ciccillo a parte, dove si muove come un burattino in un convincente passaggio, il principe della risata viene di fatto relegato a spalla della protagonista. Se nella prima parte del film la Villi prende con naturalezza il centro della storia per via della prestanza scenica, nella seconda, che vorrebbe essere più seria, Totò non sfrutta a dovere l'opportunità di colmare il mismatch. Si tratta del suo primo ruolo drammatico e l'attore napoletano proprio non convince: con Totò e la Villi incapaci di comunicare tramite la recitazione il momento sofferto, il film finisce per svilirsi in modo eccessivo.  
Meglio, a quel punto, il pur eccessivamente sdolcinato primo tempo, dove Amato piazzava sovente la macchina da presa in un punto limitandosi a riprendere gli attori sul palco (i momenti migliori) o alle prese con qualche stucchevole scena sentimentale (questi quelli più ostici). Purtroppo, se la regia non eccelle, si è detto che anche gli attori si adeguano al tono generale con prestazioni in generale piuttosto sciatte. In definitiva, le qualità che rendono Ivonne la Nuit degno di interesse sono: l'affascinante rievocazione della belle epoque, la presenza scenica della protagonista, Il bel ciccillo, ovvero l’unico acuto di Totò; fa specie, ed è comunque una curiosità,  vedere lo stesso attore napoletano relegato a spalla di turno. Da notare che il cast vede all'opera anche Gino Cervi (non va oltre l'onesta prestazione), Ave Ninchi (una comparsata) ed Edoardo De Filippo (marginale).
Insomma, difficile cavarci una sufficienza.


Olga Villi







martedì 24 settembre 2019

IL COLOSSO DI RODI

415_IL COLOSSO DI RODI; Italia, Spagna, Francia 1961Regia di Sergio Leone.

Il colosso di Rodi è un’opera che è divenuta oggetto di interesse in seguito al successo che il suo autore, Sergio Leone, ebbe coi successivi lungometraggi, a cominciare dai famosi spaghetti-western. In sé, il film, un peplum all’italiana, non è certo memorabile e si inserisce senza particolari evidenze nella produzione nazionale del genere. A livello narrativo, la storia ha una buona struttura, sebbene si dilunghi eccessivamente; visivamente l’opera è interlocutoria. Ci sono scene molto interessanti accostate ad altre meno efficaci e piuttosto dozzinali. Intanto, rispettando i canoni del genere, il film ha un fondamento storico, facendo riferimento alla civiltà di Rodi all’epoca del colosso, che era una delle sette meraviglie del mondo antico. E’ giusto ricordare che ai peplum non era certo richiesto un rigore storico: tuttavia Leone spara subito a raffica una serie di inesattezze, spesso completamente gratuite, quasi a voler delegittimare ogni pretesa anche solo vagamente attendibile del suo racconto. A posteriori, si può notare come alcuni degli elementi più interessanti de Il colosso di Rodi anticipino parte del lavoro che Leone farà per rinnovare il western. Il personaggio principale in Il colosso di Rodi, Dario (Ray Calhoun) è uno straniero, un simpatico perdigiorno che ha come unico interesse correre dietro alle sottane e riposarsi. E’ un eroe di Atene, sia chiaro; ma delle sue imprese ne parlano altri, mentre lui ripete spesso che si deve riposare. L’atteggiamento di cercare di togliersi dal centro della scena, mentre è conteso dalle parti in causa nella lotta, verrà poi ripreso per gli anti-eroi degli spaghetti western. Un discorso analogo, almeno parzialmente, si può fare per l’uso, nell’opera, della figura femminile. Qui le donne sono due, Diala (Lea Massari) e Mirte (Mabel Karr). 
La prima è bella, affascinante, ambigua; la cosa è resa figurativamente da Leone dal fatto che è spesso intenta a rimirarsi allo specchio. Personaggio simbolico e al tempo stesso di una buona resa scenica, tradisce l’eroe ma poi lo salva, a parziale riscatto della propria vita. Un modo importante di intendere la donna che, almeno in principio, sarà estraneo agli spaghetti western. Meno strutturato il personaggio di Mirte: è vero che alla fine riesce a conquistare Dario, ma sembra più che altro una figura di contorno. E questo è, invece, il tipico spazio concesso alla figura femminile in molti western all’italiana. Inoltre, anche il ruolo giocato dal terremoto che, di fatto, ristabilisce la pace a Rodi, ricorda il destino ai cui capricci saranno sottoposti molti dei personaggi dei successivi film di Sergio Leone. 

Ma, come detto, oltre a questi spunti personali, il regista romano rispetta, seppur in modo un po’ sbrigativo, i cliché del peplum italico: ci sono i muscoli esibiti, il balletto coreografico, le belve feroci, i duelli all’arma bianca, le catastrofi. Il cinema di genere vuole i suoi passaggi obbligati e Leone non si sottrae; ma è indubbio che, per quanto il film non sia certo un capolavoro, ci siano numerosi elementi da sottolineare per la consapevolezza del regista nel realizzarlo. Ad esempio, molto interessante è l’uso di un doppio registro, drammatico e umoristico, nel duello notturno in cui Dario si scontra con Peliocre (Georges Marchal) e i suoi fratelli; nell’altra stanza vediamo Lisippo (George Rigaud) dormire beato con i tappi nelle orecchie incurante del finimondo che gli accade accanto. C’è quindi un po’ di ironia diffusa, di cui questo è un esempio esplicito, mentre c’è forse anche un divertimento, da parte di Leone, nel prendere in giro un po’ il genere peplum, che era in effetti spesso enfatizzato ai limiti del ridicolo. Forse la resa un po’ sciatta, dimessa, degli eventi catastrofici è voluta dall’autore per sottolinearne l’artificiosità. 


Del resto, in una scena, viene anche mostrato un plastico dettagliato dell’isola di Rodi e dell’enorme statua, che appare un po’ fuori luogo rispetto al tempo del racconto; così come anche i complicati marchingegni dentro al colosso sembrano di natura tecnica più moderna. C’è forse un tentativo di mostrare i meccanismi della macchina cinema, dei suoi trucchi, coi modellini per le riprese panoramiche; in qual caso con una consapevolezza metalinguistica notevole da parte di un autore che era all’inizio della carriera. In ogni caso, in altre scene, come quelle sulla sommità del colosso, l’autore rivela senza alcun ombra di dubbio, una qualità registica sorprendente quando riesce a citare in modo convincente nientemeno che Hitchcock. L’omaggio più evidente è ad Intrigo internazionale (film del 1959) dove i personaggi si inseguono sulle facce dei presidenti del Monte Rushmore; ma può venire in mente anche Sabotatori (1942), sempre del grande Hitch, con le scene cruciali riprese sulla Statua della Libertà di New York. Insomma, un’opera non completamente compiuta, questo Il colosso di Rodi ma, come è facile a dirsi col senno di poi, dalla quale emerge già la stoffa dell’autore.  






Lea Massari