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mercoledì 28 febbraio 2018

LUI E LEI

108_LUI E LEI (Pat and Mike). Stati Uniti 1952;  Regia di George Cukor.

George Cukor torna a dirigere la coppia d’assi Spencer Tracy e Katharine Hepburn per la terza volta; una coppia che sullo schermo sfrutta, oltre al notevole talento, anche quell’armonia che deriva dall’essere uniti nella vita privata a livello sentimentale. E, visto i protagonisti, il tema di quest’opera non poteva essere che un nuovo capitolo di quella guerra dei sessi che, nelle mani di Cukor, non può che pendere leggermente dalla parte femminile, visto che il cineasta è noto come il regista delle donne per la sua capacità di valorizzare al meglio le attrici che dirige. In Lui e lei il regista di origine ungherese però ribadisce, e fa ribadire dai suoi personaggi, che il confronto, anzi il rapporto, tra uomo e donna deve essere equilibrato, 50 e 50 per usare il gergo di Mike (nel film interpretato da Tracy). L'uomo di mestiere fa una sorta di agente sportivo, in realtà piuttosto losco, e si trasformerà in allenatore della sportivissima Pat (la Hepburn). Nella trama del film Mike, che ha già ‘sotto contratto’ un pugile e una cavalla, prende in carico anche Pat, che ha visto giocare a golf e di cui ha intuito le enormi potenzialità. Potenzialità inibite fino a quel momento dal fidanzato della ragazza, (William Ching) che non la considera in grado di eccellere e con la sua implicita sfiducia scoraggia la giovane e la demotiva, spesso nei momenti sportivamente meno opportuni. Ovviamente la storia si svilupperà con l’innamoramento di Pat e Mike, come è fin troppo prevedibile, ma, altrettanto ovviamente, Cukor controllerà che tutto scorra con garbo, ironia ed equilibrio. L’aspetto interessante è che, per arrivare a quel famoso 50 percento a testa di importanza nella coppia, Cukor operi prima un completo gioco di ribaltamento dei ruoli originali.

Così, se all’inizio Mike è un allibratore poco pulito e veste camicia nera con cravatta più chiara, il suo contraltare sarà il fidanzato professore di lettere sempre abbigliato in un classico camicia bianca con cravatta nera. Quando Pat avrà redento all’onestà Mike, e lo avrà scelto anche per sostituire il fidanzato, gli abbinamenti del vestiario evidenzieranno questo ribaltamento. Il gioco di questi rovesciamenti si fonda inoltre su una certa indeterminatezza dei ruoli: se prendiamo il rapporto tra Pat e Mike, possiamo vedere che i diminutivi usati nel titolo originale non ne chiariscono la differenza sessuale, in quanto Pat è diminutivo anche di Patrick; inoltre (a differenza di quanto avvenga in Lui e lei della versione italiana) Pat viene citato prima di Mike, come a sottolinearne una precedenza. Del resto, se il motto che abitualmente si usa dire dietro ad ogni grande uomo c’è una grande donna, per sottolineare la vocazione all’azione tipicamente maschile da contrapporre al ruolo di supporto al partner in genere riferito all’elemento femminile, qui accade esattamente il contrario. Che dire poi della Hepburn, che da sola stende due gangster, uno dei quali è nientemeno che un giovanissimo Charles Bronson, che viene messo sotto dalla ragazza senza apparente sforzo? Se, in ogni caso, il vantaggio ricavato dal rapporto tra Pat e Mike è reciproco (lei guadagna in fiducia  in se stessa e lui si riscopre esser divenuto onesto) prima del definitivo pareggio, c’è l’ultimo ribaltamento. Mike è uso fare tre domande al suo pugile David (Aldo Ray); tre domande alle quali l’atleta risponde sempre allo stesso modo, rimarcando la sua totale sudditanza all’agente.

La battuta finale, è una sorta di minaccia: se un giorno David non dovesse più riconoscere Mike come suo padrone assoluto, finirebbe in mezzo ad una strada, e li ci resterebbe. Questo per ricordare al pugile come gli sia conveniente rimanere sottomesso al suo procuratore. Un simile trattamento Mike non si azzarda mai a farlo con Pat, perché la donna è troppo fiera e intelligente (a differenza del pugile); a sorpresa, poco prima del finale, è Pat che sottopone Mike a questa prova di sottomissione. L’uomo accetta di buon grado, pur di rinfrancare la ragazza e di supportarla nella vittoria del torneo, ma il finale della piccola recita viene però modificato: se i due si dovessero lasciare, finirebbero entrambi in mezzo alla strada, per rimanerci. La morale è quindi di facile comprensione: in amore, il valore ottenuto dall’unione tra due elementi è superiore a quello della loro somma algebrica. Insomma, un pareggio con profitto.





Katharine Hepburn






lunedì 26 febbraio 2018

MILANO CALIBRO 9

107_MILANO CALIBRO 9  Italia 1972;  Regia di Fernando Di Leo.

Ugo Piazza, uscito il giorno prima dal carcere di San Vittore a Milano, dopo aver subito già troppe vicissitudini per soli due giorni di libertà (pestaggi, incursioni notturne e diurne, reinserimento forzato nella mala milanese) si reca in un night club. Nel locale, alla go-go dancing c’è Nelly, e il suo spettacolo è già un motivo più che sufficiente per rendere Milano calibro 9 un film indimenticabile. Nelly è una meravigliosa Barbara Bouchet, che si esibisce in una danza erotica che il regista Francesco Di Leo sfrutta benissimo con alcune riprese di grandissimo impatto scenico. Ugo Piazza, il protagonista della nostra storia, è invece un formidabile Gastone Moschin, abilissimo nel rendere un personaggio tanto ambiguo quanto determinato. Comunque, Milano calibro 9, oltre alla celebrata scena del night, ha moltissimi aspetti interessanti e, nel complesso, è sicuramente un film eccellente. Teso e avvincente, presenta subito un livello di violenza fuori dall’ordinario, ma Di Leo non stempera mai nell’ironia la brutalità delle sue scene: la violenza in Milano calibro 9 è eccessiva e mantiene sempre la sua forza distruttrice, e quindi la pellicola non è certo per stomaci teneri. Le scene dei pestaggi sono impressionanti come raramente capita di vederne al cinema, e rendono pienamente il clima violento dei primi anni settanta nella società italiana. In realtà, più specificatamente, e lo si capisce già dal titolo, il film è focalizzato su Milano, la città che ha il volto più internazionale nella penisola. 

Il genere poliziesco di matrice urbana, che ha la sua collocazione naturale negli Stati Uniti, può infatti avere la sua migliore versione nazionale nel capoluogo lombardo; per altro è vero che, accanto ad alcuni luoghi tipicamente meneghini, (il grattacielo Pirelli, la torre Velasca, il Duomo, la torre Branca, i Navigli, il carcere di San Vittore) molte scene sono state naturalmente ricostruite a Cinecittà. Ma questo non è un limite, anzi, già da questo semplice dettaglio possiamo capire il valore cinematografico dell’opera: la Milano di Milano calibro 9 non è credibile tanto per l’autenticità dei luoghi di ripresa, ma piuttosto per l’atmosfera che Di Leo ricrea, sia con location meneghine che con ricostruzioni in studio, ma soprattutto per il clima pesante, di piombo, verrebbe da dire, che si respira nella pellicola. In questo senso il film è davvero notevole; come del resto per altri aspetti tipicamente tecnici, come il montaggio autorevole e la colonna sonora incalzante (opera di Luis Enrìquez Bacalov e del gruppo progressive degli Osanna). 


Il regista pugliese impiega quindi gli strumenti propri del cinema di azione, quelli utilizzati prevalentemente dal cinema di genere hollywoodiano, ma lo fa con mano personale, arrivando a cristallizzare al meglio il genere poliziesco all’italiana. Il tenore della storia, determinato più che altro dal grado di violenza che la percorre, è elevato, ma non arriva a farne un’opera grottesca o peggio una parodia. In questo senso sono eccezionali gli interpreti: l’imperturbabile Moschin tiene un profilo basso, visto che il suo ruolo richiede sobrietà, ma Philippe Leroy, Lionel Stander e soprattutto Mario Adorf recitano alzando i toni, riuscendo al contempo a rimanere comunque coerenti con l’armonia stringata della vicenda. Leroy è Chino, un malavitoso, a cui piace stare sulle sue, ma guai a chi gli pesta i calli; Stander è l’Americano, il boss della malavita milanese: l’attore statunitense recita sopra le righe ed è perfetto per il ruolo, così come lo è il suo caratteristico ghigno. 
Ma il vero protagonista del film è (insieme ovviamente a Moschin) Mario Adorf: Rocco, interpretato dall’attore tedesco, è la controparte sguaiata alla sobrietà di Ugo Piazza. Tanto il Piazza cerca di defilarsi, quanto Rocco prende sempre la scena, scimmiottando un po’ la figura del gangster mafioso, ma in modo perfettamente credibile. Adorf è poi bravissimo nel trasmettere il cambio di opinione che il suo personaggio realizza, quando si rende conto del bluff di Piazza; non è quindi un mero stereotipo, il suo Rocco Musco, ma un uomo, criticabile fin che si vuole, in grado di mutare la sua posizione all’interno della storia. Purtroppo nel film ci sono anche note meno liete: la prima è legata ad un singolo dialogo tra Chino e Don Vincenzo (Ivo Garrani), il vecchio padrino, nel quale l’anziano si lascia andare a commenti di rimpianto sulla mafia del tempo che fu, diversa e più rispettabile rispetto alle bande criminali moderne. Di Leo inserisce questo dialogo in modo poco naturale e, comunque, l’impressione è che sia un concetto condivisibile quando invece si tratta di una concreta aberrazione di ogni forma di senso di giustizia. A fronte di questo fugace elogio alla vera mafia, il regista fa anche di peggio in tutte le discussioni che mette in scena tra il commissario di polizia (Frank Wolff) e il vicecommissario Mercuri (Luigi Pistilli) che più che dialoghi sembrano comizi politici per il grado di faziosità e il ricorso ai più banali luoghi comuni.
Peccato; questi inserti stridono con il resto della pellicola, ma sono comunque utili perché dimostrano come in Italia non si riesca a far proprio, a possedere, il cinema come strumento per raccontare la propria realtà fino in fondo. Infatti, anche nel caso di un bel film di azione, che, per molti versi non ha niente da invidiare ad un prodotto hollywodiano, quando Di Leo arriva al nocciolo del discorso, all’aspetto più sentito, smette di utilizzare gli strumenti propri del cinema (la trama, la musica, il montaggio, i personaggi, ecc.) per inserire pedantemente discorsi-manifesto nei dialoghi.
Meglio chiudere con un elogio a Barbara Bouchet che, oltre alla scena del night, ci regala una deliziosa ma infida femme fatale. Che, sarà forse un caso, ma finisce malissimo pure lei.



Barbara Bouchet










sabato 24 febbraio 2018

TOP GUN

106_TOP GUN  Stati Uniti 1986;  Regia di Tony Scott.

La quintessenza dell’ideologia mainstream anni 80 in un film: per definire Top Gun di Tony Scott basterebbero queste dieci parole. Volendo, si possono facilmente trovare le conferme a questa affermazione, analizzando un minimo di più l’opera (ma non è il caso di usare il termine approfondire vista la superficialità dell’operazione di Scott). E’ evidente che il nemico che viene tirato in ballo nel film siano i russi; sebbene la cosa non venga chiarita, è del tutto scontata. Ma proprio evitare di riferirsi all’avversario è un modo di porsi di fronte ad esso con un atteggiamento di totale chiusura. In questa maniera si rifiuta ogni tipo di contatto e, in effetti, quando avviene per la prima volta un incontro tra caccia nemici, avviene con gli aerei uno rovesciato rispetto all’altro. Viene cioè resa anche visivamente palese la totale differenza tra le parti in causa e l’impossibilità di intendersi. Ci sono anche altre differenze: ad esempio, mentre i piloti americani hanno il volto visibile, in modo che si possa capire chi è alla guida, i russi hanno un casco integrale che li rende irriconoscibili, anonimi, disumanizzati. Nel film viene anche mostrata una battaglia aerea, che nella realtà avrebbe facilmente fatto debordare la Guerra Fredda in guerra vera e propria: un banalissimo pretesto narrativo permette invece che i russi si lecchino le ferite e se ne vadano con la coda tra le gambe. Situazione forse poco credibile, ma non è certo la credibilità il piatto forte dell’opera. Oltre alla ricerca di un nemico oscuro da combattere senza nemmeno provare a conoscerlo, magari per coglierne i punti deboli, nel film viene esaltato un altro dei paradigmi reganiani tipicamente anni 80: la competitività interna.

Tra i Top Gun è gara aperta per vincere il premio di migliore del corso, il secondo è solo uno dei tanti perdenti. Il migliore è ovviamente Pete Mitchell (Tom Cruise), detto Maverick, termine che i cowboys davano ai capi di bestiame ancora senza marchio, partoriti in semilibertà e quindi un po’ selvatici. Il tipico americano forte come natura crea, ma poco incline ad assoggettarsi alla disciplina. Il suo rivale numero uno è Tom Kazinsky (Val Kilmer) detto Iceman; si può notare come i due temi del film si sovrappongano per rafforzarsi. Nella lotta per il primato, al tipico esuberante cowboy è opposto il freddo uomo ghiaccio, biondo, occhi chiari e con il nome tipicamente di origine esteuropea: la sfida USA vs URSS è richiamata anche nella competitività interna. Se detti così, questi possano anche sembrano buoni spunti, il problema è che in sostanza rimangono semplicemente tali. E se il fratello Ridley è accusato di fare film che a volte sembrano spot pubblicitari, vedendo questo Top Gun si potrà ben pensare che Tony Scott faccia, al contrario, spot talmente lunghi che possano erroneamente essere scambiati per film.




Meg Ryan


Kelly McGillis



giovedì 22 febbraio 2018

FRANKENSTEIN

105_FRANKENSTEIN  Stati Uniti 1931;  Regia di James Whale.

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L’insospettabile successo di Dracula di Tod Browning spinse la Universal a mettere in cantiere immediatamente un altro film horror, anche questo basato su un romanzo gotico del 1800. Anzi, in realtà, come del resto per il film di Browning, alla base del trattamento per la sceneggiatura c’è un’opera teatrale, (di John L. Balderston) più che il libro in modo diretto. E’ quindi già un piccolo indizio di come lo studio abbia tentato sì di ripetere la formula utilizzata per la precedente pellicola horror, ma migliorando quello che si poteva e mantenendo inalterate quelle scelte strategiche che avevano funzionato. L’impianto teatrale offriva infatti una solida base per la messa in scena, cosa che permetteva ai personaggi mostruosi di manifestarsi nel loro statuario fascino: se il Dracula di Bela Lugosi era stato una figura assolutamente fantastica, la creatura di Frankenstein interpretata in modo magistrale, pur sotto il pesante trucco, da Boris Karloff non le era da meno. Questi mostri erano la vera attrattiva del film, e quindi un impianto scenico che mettesse i personaggi in bella vista era quello che ci voleva. Del resto un’altra strategia vincente era insita nel titolo delle opere: così come Dracula era sia il nome dell’opera che del personaggio mostruoso che primeggiava sullo schermo, anche nel film Frankenstein si ripeté la stessa formula, nonostante non ci fossero i presupposti narrativi. In effetti Frankenstein è il nome del dottore, e non della creatura, ma un po’ tutti hanno sempre avuto l’abitudine di identificare, con il sinistro nome, l’appellativo della creatura con la testa squadrata: un errore indotto dalla produzione che riuscì però nell’intento di comunicare, in modo quanto mai efficace, l’arrivo sugli schermi di un nuovo mostro targato Universal.

Anche sulle scenografie, del resto cruciali vista la matrice teatrale dell’opera, si riuscì a ripetere i fasti di Dracula, sia per la cura del regista James Whale (non a caso autore di scuola teatrale), sia per l’opera dell’esperto scenografo Charles D. Hall (già responsabile dell’ottimo lavoro in Dracula). Eccezionale poi la ricostruzione del laboratorio del dottor Frankenstein, opera di Kenneth Strickfaden, con macchine davvero futuribili e addirittura una bobina di Tesla per creare l’energia necessaria a dar vita al mostro. Insomma, se nella realizzazione di Dracula c’erano stati alcuni contrattempi (che non avevano però vanificato la riuscita dell’opera) per Frankenstein, Carl Laemme Jr (figlio del boss della Universal) non volle correre rischi, e organizzò tutto per eseguire un lavoro perfetto in ogni dettaglio. E così fu. 

A dirigere le operazioni in un primo momento fu chiamato il regista Robert Florey, ben presto sostituito dal britannico James Whale che, pur non avendo grandissima esperienza nel mondo del cinema, godeva della piena fiducia della produzione. Una stima pienamente meritata: Whale era regista abile e dotato di una capacità di comporre l’inquadratura eccellente, possedeva un talento visionario assolutamente fuori dall’ordinario, a dir poco geniale, conosceva come dettare i tempi del racconto e non lasciava nulla al caso. E tutte queste doti sono perfettamente riconoscibili in Frankenstein, film che è un assoluto capolavoro, sin dalle primissime e folgoranti inquadrature con il dottor Frankenstein (Colin Clive) e il fido Fritz (Dwight Frye) a disseppellire e trafugare cadaveri. 

Proprio la presenza di Dwight Frye è un altro trait d’union tra il film di Whale e Dracula: l’attore americano era stato un efficace Reinfield nel film di Browning, mentre addirittura si supera nella parte di Fritz, il servo gobbo e dispettoso del dottor Frankenstein. Whale muove con delicatezza sinuosa la sua macchina da presa, conducendoci nelle varie scenografie in un modo non troppo rispettoso della matrice teatrale, e queste ambientazioni sono vissute in modo cinematograficamente moderno, tanto che, una volta sullo schermo, sembra difficile pensare che alla base ci sia un’opera presa dal palcoscenico di un teatro. L’impronta del regista è poi riconoscibile in alcune soluzioni narrative (il mulino della scena finale), e anche nella leggera ironia che caratterizza il Barone Frankestein, padre del dottore che da’ la vita alla creatura. Sulla cui celeberrima maschera visiva la paternità è invece controversa: ufficialmente attribuita a Jack Pierce, pare però che lo stesso regista abbia avuto una certa influenza nella scelta del trucco, così come nella decisione di affidare la parte della creatura stessa a Boris Karloff. Questi dettagli possono sembrare puramente enciclopedici, però in questo caso sono parte integrante e decisiva nel valore dell’opera: a posteriori, siamo abituati a dare per scontato tantissime cose, che sono ormai divenute cliché del cinema horror; ma questi codici, queste consuetudini di genere, vennero definiti e inventati proprio in quei primi mitici film che segnarono il definitivo salto di qualità dei film del terrore.


Anche quella che oggi può sembrare una banale maschera di un mostro, come appunto è quella di Boris Karloff in questo film, fu in quel caso tanto efficace da arrivare con il suo carico di inquietudine, spaventosità, ma anche un suo particolare fascino, intatta fino ai nostri giorni. Venendo all’opera filmica in se’, va subito detto che ci sono moltissime sequenze memorabili: da quella del laboratorio dove prende vita la creatura, a quella in cui la folla inferocita arriva per fare giustizia. Davvero notevole la capacità di Whale di gestire queste scene traendone il massimo profitto. Dopo un preambolo introduttivo in cui uno degli interpreti (Edward Van Sloan ovvero il dottor Waldman nel film) avverte gli spettatori più impressionabili (ma si tratta di un’abile manovra pubblicitaria di Laemme Jr.), e i titoli di testi inquietanti (i tanti occhi che, come una sorta di occhio di Dio replicato, sembrano guardarci con rimprovero) e astutamente misteriosi (il punto di domanda a lasciare ignoto l’interprete del mostro), il lungometraggio si apre subito alla grande, con la scena del lugubre, a dir poco, funerale e che mette in campo il dottor Frankenstein e il fido Fritz pronti a trafugare cadaveri per i noti esperimenti. James Whale è però regista di grande gusto e una volta creato un clima tanto sinistro, inserisce toni anche più leggeri, di garbata ironia, che permettono di allentare la tensione, pur rimanendo su un piano parallelo a quelli più cupi. 

Il pericolo, nei film horror, se da un lato è di eccedere nella cupezza della storia, facendo divenire la visione troppo opprimente, dall’altro è che si rischia, con una componente umoristica troppo invadente, di smontare il meccanismo della paura, che verte, per sua natura, sulle componenti infantili dello spettatore. Whale riesce nel delicato equilibrio di produrre un’opera che procede sui due binari contemporaneamente, quello prevalente horror, e quello secondario, quasi di servizio, che mette un pizzico di humor che non inficia l’efficacia dell’inquietante storia. 

Nella quale assistiamo, naturalmente, alla creazione, da parte del folle dottor Frankenstein, di un uomo composto coi pezzi di cadavere; c’è, sottointesa, la critica alla Scienza e al suo sconfinamento in altri ambiti, nel voler sostituirsi a Dio, e, andando ancora più nello specifico, nel volere il controllo totale della propria creatura (celebre la scena del raggio di luce che il dottore toglie dal viso del mostro). Sono del resto i temi del libro di Mary Shelley che è alla base del plot narrativo e che, nel frattempo (il libro è del 1818, il film di Whale del 1931) sono diventati anche più attuali rispetto ai tempi della pubblicazione del romanzo. Il regista britannico è bravo, perché li mantiene tutti inalterati, pur producendo un evidente film destinato, come primo criterio apparente, a soddisfare il grande pubblico; un’opera popolare, insomma. 
Spiazzante, ancora oggi, la scena nella quale la creatura, dopo essere fuggita, incontra Maria, la bambina. In un primo momento, quando la scorge, si ha un piccolo dubbio sulle intenzioni del mostro: è un’espressione turbata o solo incuriosita? L’innocenza della piccola Maria cancella subito qualsiasi malignità, e la creatura mostra il suo lato umano. Poi, in modo del tutto sorprendente ma allo stesso naturale, quasi ovvio, il mostro getta la bambina nel lago, annegandola: non c’è cattiveria, beninteso, solo un’ottusa associazione di idee, da parte della creatura, che risulta fatale alla piccola Maria. La visione della bambina gettata in acqua dal mostro è stata spesso tagliata nelle varie riproposizioni dell’opera, e rimane ancor’oggi scioccante. La vicenda scorre poi nel solco prevedibile, con la folla che accorre con le torce e dà fuoco al mulino in cui si è rifugiato il mostro, chiudendo la questione in un’altra spettacolare scena. Naturalmente il vero mostro, il cattivo della storia,  è il dottore e non la creatura, la quale è una sorta di vittima dell’arroganza scientifica dello scienziato; ma va detto che Whale non indugia in commenti morali agli eventi, ma lascia allo spettatore il compito di trarre le logiche deduzioni, mentre il film si chiude, ironicamente, addirittura con un brindisi ‘alla salute dei Frankestein’!
Anche per questo, Frankenstein è tutt’oggi un film moderno, oltre che un capolavoro senza tempo.




martedì 20 febbraio 2018

L'OMBRA DEL PASSATO

104_L'OMBRA DEL PASSATO (Murder my sweet). Stati Uniti 1944;  Regia di Edward Dmytryk.

L’ombra del passato è un film noir tratto dal romanzo Addio, mio amata, un racconto poliziesco scritto da Raymond Chandler. L’autore dell’adattamento cinematografico, il valente Edward Dmytryk, rispetta appieno l’origine pulp del soggetto; del resto aveva operato in modo analogo John Huston nel 1941, ottenendo un grande successo con il suo folgorante film d’esordio Il mistero del Falco. In effetti, sembra proprio che la matrice espressionista dei noir, visivamente un bianco e nero pregno di ombre, sia l’ideale per mettere in scena il genere hard boiled di questi testi giallo/polizieschi. A differenza dei classici gialli investigativi, in questi soggetti (quindi anche ne L’ombra del passato) non si deve, e comunque è impossibile, seguire una pista deduttiva; qui si brancola nel buio al pari dei protagonisti, spesso investigatori privati da pochi spiccioli, come ad esempio il Philipp Marlowe interpretato da Dick Powell. Pochi sono i passaggi chiari, troppi i misteri, gli angoli bui, i colpi di scena che non risolvono la trama ma la ingarbugliano ancora di più; e poi si è distratti, esattamente come Marlowe, dalle gambe della Signora Grayle (Claire Tevor) o dal portamento della di lei figlioccia Ann (Anne Shirley). Dmytrik è un autore attento, sa che il romanzo di Chandler è già un film di suo; basta solo metterlo in scena sfruttando e aggiornando, come detto, i principi del cinema espressionista tedesco. Detto e fatto, e il film funziona come un orologio, senza sbavature: L’ombra del passato mette il suggello in modo esemplare al genere noir.  

Forse, se proprio si deve trovare qualche limite all’opera, agli attori sembra mancare qualche cosa: se Dick Powell può anche reggere (e in effetti regge) il ruolo da duro in modo un po’ non convenzionale, ricordando i suoi trascorsi nei musical, manca forse un cattivo di spessore. Otto Krueger è Amthor, ed è anche adeguato per il ruolo, ma non è certo memorabile; sicuramente più d’impatto Mike Mazurki nei panni di Moose Mallory, che però, alla fine, è solo un bestione senza cervello. Chiudendo con il comparto femminile, è certamente inelegante osservare come né Claire Trevor né Ann Shirley, per quanto affascinanti, valgano, ad esempio, una Veronica Lake vista ne La chiave di vetro e ne Il fuorilegge o una Barbara Stanwyck de La fiamma del peccato. Ma la dark lady sarà ricordata come la figura chiave del genere noir e, quindi, qualcosa in più dalle interpreti de L'ombra del passato, è quasi naturale aspettarselo.  




Anne Shirley




Claire Trevor