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domenica 31 gennaio 2021

GALLERIA DI STAR: JOAN COLLINS

ROAD TO ALEXIS

Da "I BELIEVE IN YOU" al GOLDEN GLOBE


Oggi, probabilmente, la figura di Joan Collins è accettata un po’ da tutti come quella di grande attrice, testimone della Hollywood dei tempi andati. Soprattutto la si mette in relazione con il personaggio di Alexis Colby, la cattiva del serial Dinasty che furoreggiò negli anni 80. Volendo essere ottimisti possiamo pensare che più o meno tutti abbiano compreso come la capacità della Collins di interpretare un personaggio spregevole sia un merito dovuto alle sue doti d’interprete e non un suo limite. Memorabile, in senso opposto a questo augurio, la definizione de Il Morandini 2003 che tributò alla Collins un ben poco lusinghiero “esecrabile attrice” tanto tranciante quanto goffo e inadeguato. Ma insomma, è lecito pretendere che si sia ormai diffusa la convinzione che Joan Collins sia una grande attrice: il Golden Globe vinto nel 1983 (ovviamente per la sua interpretazione in Dinasty) avrà pure il senso che questi premi hanno (tanto per capirci, Alfred Hitchcock non ha mai vinto un Oscar) ma il fatto che il mondo istituzionale dello spettacolo abbia riconosciuto il valore artistico di Joan, gli conferisce invece un significato particolare. Perché l’attrice inglese non ha quasi mai ricevuto un atteggiamento favorevole, né dalla critica ma, almeno stando ai fatti, nemmeno dallo star system stesso. E dire che la carriera della Collins era partita in quarta: nel 1951 esordisce appena diciottenne in un ruolo marginale in Nuda ma non troppo, commedia di Frank Launder e, dopo un altro paio di apparizioni secondarie in film minori, l’anno successivo già comincia a farsi notare seriamente. In I Believe in You, dramma di Basil Dearden e Michael Relph, un ruolo di grande rilievo le consente di mostrare il proprio talento, confermato poi dai successivi film britannici girati tra il 1952 e il 1954. Joan si specializza nel ruolo di ragazza difficile (Cosh Boy, Appuntamento col destino) o comunque di personalità (L’età della violenza), anche qualora il suo spazio sullo schermo sia risicato (The square ring), ma dimostra di essere all’altezza anche in parti più leggere (Come Eva… più di Eva). Sono passati solo pochi anni dal suo esordio e l’attrice viene ingaggiata come protagonista per un importante film americano che verrà girato tra l’Italia e l’Egitto. E’ il 1955 e Joan Collins interpreta la principessa Nellifer ne La Regina delle Piramidi, film storico mitologico diretto nientemeno che da Howard Hawks. L’attrice inglese è una protagonista perfida e perfetta e il film, pur non essendo un capolavoro, non è affatto male eppure il risultato al botteghino è un fiasco. Se Hawks, dopo una simile batosta, tornerà alla regia soltanto ben quattro anni dopo, la Collins viene messa subito sotto contratto dalla 20th Century Fox, il che significava Hollywood in pianta stabile. In quel 1955 l’attrice recita in altri due film: eppure chissà, forse l’inspiegabile fastidio creato da La Regina delle Piramidi lascerà una scomoda eredità anche per la Collins. Quasi una sorta di antipatia, da parte di certa opinione pubblica, che accompagnerà l’attrice negli anni a venire e che impedirà di veder riconosciuto in maniera inequivocabile il suo talento. 

Perché già nei due film del ’55 l’attrice inglese sfodera due prestazioni eccellenti, tenendo testa addirittura a Bette Davis ne Il favorito della Grande Regina e interpretando un ruolo chiave nella storia moderna degli Stati Uniti, quello di Evelyn Nesbit, ne L’altalena di Velluto Rosso, sottostimato dramma storico di Richard Fleischer. Quest’ultimo ruolo forse rafforza, per assurdo, l’idea che l’attrice possa interpretare solo la cattiva arrivista, una parte che Joan si diverte anche a fare, con una naturale classe che finisce per mettere in ombra tutte le concorrenti sullo schermo, come accade in Sesso debole?. Il film è trascurabile, ma dimostra la capacità dell’attrice di prendere sapientemente in giro anche i luoghi comuni che ormai le si stanno appiccicando addosso. Tuttavia il film successivo è un altro lavoro notevole, Fermata per 12 ore: probabilmente non un capolavoro (per via della modesta regia di Victor Vicas) ma nel complesso un’opera (tratta da John Steinbeck) in genere colpevolmente sottovalutata e nella quale spicca proprio l’interpretazione di Joan Collins. Ormai però una cosa sembra chiara: per una ragione o per l’altra (come un ripensamento improvviso di Roberto Rossellini) la Collins non riuscirà a sfondare ad Hollywood nel modo che le compete, a diventare cioè una superstar grazie ad uno o più capolavori interpretati. Robert Rossen non riesce a rendere indimenticabile L’isola nel sole, un drammone a tinte forti, di quelli che furoreggiavano al tempo, perdendo il filo inseguendo improbabili risvolti gialli della trama. Henry King si è troppo indurito e Bravados, pur essendo un buon western, finisce per non essere né un classico né un esponente memorabile delle correnti crepuscolari del genere. 



Il vecchio Leo McCarey aveva ormai smarrito il bandolo della matassa in regia e non riesce a dare il giusto equilibrio alla commedia Missili in giardino che, per quanto sia un’opera carina, gli si sgonfia in mano. Il pur bravo Henry Hathaway spreca l’ennesima occasione della carriera con I sette ladri, valido prodotto che non riesce a raccogliere quanto potenzialmente aveva in dote. In questi film Joan Collins recita in modo sontuoso, come una vera diva. I film, per un motivo o per l’altro, non sono particolarmente memorabili ma non certo per colpa dell’attrice inglese. Anzi, si può dire che il fatto che vi reciti Joan Collins renda a posteriori questi film più interessanti; nel vederli si può comprendere come fossero opere che avrebbero anche potuto diventare capolavori ma naturalmente non tutte le ciambelle escono col buco. La sfortuna hollywoodiana di Joan è di non aver mai preso la ciambella giusta. A quel punto, ormai negli anni sessanta, l’attrice inglese prova a battere nuove strade: alcune partecipazioni a produzioni televisive e il ritorno in Europa per qualche film un po’ fuori dagli schemi. In Italia ruba la scena nientemeno che a Vittorio Gassman ne La congiuntura, film ancora una volta poco incisivo, poi recita nel pretestuoso Lo stato d’assedio (1969, di Romano Scavolini), in quello che si può considerare il passaggio minore dell’attrice fino ad allora. 

Ma non per colpa delle sue capacità artistiche: la conferma che il talento della Collins non si è per nulla appannato arriva da Il caso Trafford (1972, di Ralph Thomas), nel quale l’attrice riesce a coniugare al femminile un genere, la fantascienza, tipicamente maschile. In effetti Il caso Trafford, buon film ma nemmeno stavolta un capolavoro, può però essere preso a sorta di manifesto dell’importanza di Joan Collins nella storia del cinema: l’attrice inglese fu quella che meglio di ogni altra riuscì a ritagliarsi un suo spazio originale e personale in una società maschilista come quella del cinema senza perdere la propria femminilità. Questo la pose in contrasto con le idee maschiliste (ad esempio, quelle del produttore che voleva una sua gentilezza da divano in cambio di ruoli significativi) come anche con il pensiero mainstream femminista, che rifiutava l’iconografia classica della donna che invece la Collins interpretava sontuosamente. Ovviamente una bella donna che pretende la stessa libertà di pensiero ed azione di un uomo del ventesimo secolo non poteva che passare per una poco di buono e, in sostanza, fu quello che, almeno per quel che riguarda la vita sullo schermo, capiterà proprio alla Collins. 

Intanto l’attrice divenne un habitué del cinema horror britannico, interpretando una manciata di film generalmente godibili ma che certo non la rilanciavano come star di prima grandezza. Sia chiaro, sempre meglio de Il richiamo del lupo, disastro italospagnolo in celluloide ad opera di Gianfranco Baldanello e punto più basso della carriera della londinese. Che, diversamente, da parte sua ritiene il di poco successivo L’impero delle termiti giganti (1977) come suo momento più negativo ma la bella Joan si sbaglia. Il film di fantascienza di Bert I. Gordon ha sì una deriva trash ma è godibile e poi proprio la Collins sciorina una super prestazione tanto che fu la prima volta che una giuria ufficiale la prese in considerazione per un riconoscimento (nomination al Saturn Awards, come miglior protagonista in un film di fantascienza). Insomma, a 45 anni Joan Collins era tutt’altro che bollita e con l’accoppiata The stud- Lo stallone (1978) e The Bitch (1979) poteva finalmente raccogliere il meritato successo. Che fu clamoroso ma, in fin dei conti, non della portata che le spettava, essendo il suo ruolo ancora in anticipo sui tempi: fu solo con gli ottanta, e con l’approdo ad Alexis Colby, che il grande pubblico, e giocoforza almeno parte della critica, si accorse di quanto fosse acuta la Collins come attrice. Di quanto fosse critico, da un punto di vista sociale, il suo sguardo, il suo indagare attraverso quello che era il suo lavoro, l’interpretazione attoriale. 



Joan Collins non è una grande star per via della magnetica bellezza, del suo charme irresistibile o della sua autoironia. Joan Collins è una grande star, forse addirittura la più grande, perché ha cominciato a dirci già dagli anni cinquanta, attraverso molti dei suoi personaggi, quello che sarebbe successo negli anni 80, quel passaggio epocale che ha cambiato la nostra vita. Certo, da una parte la personalità dell’attrice era illuminante, e quello che rivendicava, attraverso i ruoli interpretati, era sacrosanto. Le donne dovevano avere gli stessi diritti degli uomini, anche in quegli ambiti più delicati, come quello sessuale. Ma, nei suoi personaggi, la Collins metteva sempre una volontà di giocarsela senza favoritismi, senza quote rosa che l’aiutassero, perché le donne non solo dovevano avere gli stessi diritti degli uomini ma erano in grado di guadagnarseli, quei diritti, proprio come avrebbero fatto gli uomini. Il personaggio tipico della Collins non accampa alibi: cerca di giocarsela alla pari, al massimo può picchiare sotto la cintura ma non chiede agevolazioni. Questo approccio, che era proprio della personalità dell’attrice e permeava i suoi personaggi, è quello che purtroppo è mancato quasi completamente nella società. Si è preferito una narrativa diversa, prevalentemente se non del tutto infondata, che ci ha raccontato (e ci racconta) per decenni di quanto il mondo sarebbe stato migliore se a governarlo fossero le donne. Dimenticandosi, o facendo finta di dimenticarsi, che l’uomo è un mammifero e la figura largamente più influente nella vita di ciascun individuo della razza umana sulla faccia della terra è la propria madre, una donna. Se esistono uomini violenti è perché sono stati educati alla violenza e molto probabilmente la persona che ha giocato il ruolo preponderante nell’educazione di quell'uomo (sì, anche se è un uomo violento), è sua madre. Non è certo un discorso che tende a criminalizzare le donne, per carità, certamente va considerato anche il ruolo spesso latitante per non dire assente della figura paterna, in seno alla famiglia. Ma, rispetto alla opinione diffusa, forse occorre cercare una più attendibile distribuzione delle responsabilità che hanno generato la situazione sociale che conosciamo, certamente con un risultato differente da quello che hanno cercato (riuscendoci) di far passare molte donne (spalleggiate da uomini di presunte idee progressiste), dalla rivoluzione sessantottina in poi. Quelle stesse donne che, anni dopo, si sono appassionate alle gesta di Alexis Colby in Dinasty, una donna spregevole che aveva, per loro, una sorta di ruolo catartico. Una donna affascinante, certo, ma da guardare facendo finta di non riconoscercisi, per poter continuare a vivere nell’ipocrisia dell’imperante politicamente corretto in salsa rosa.   



















2 commenti:

  1. confesso che non sono un amante della mitologia egizia, in quanto la ritengo troppo inflazionata e non mi affascina... ma di qui a discriminare un'attrice ce ne vuole!... anche perché i critici dovrebbero saper riconoscere il valore al di là delle preferenze personali, che indubbiamente ciascuno di noi ha :-|
    condivido l'amara conclusione sulla deriva che ha preso la nostra società, trovo irritanti quelle donne che ancora oggi fanno le vittime e hanno sempre in bocca la parola "maschilismo", quando di fatto poi nelle cose importanti sono sempre loro a decidere... le trovo irritanti ma, sia chiaro, senza serbare rancore nei loro confronti ;) superato il fastidio del momento poi vado oltre e le donne le adoro lo stesso, come pure mi piace il tocco quasi voyeuristico di questo blog, sempre ricco di belle foto :-)
    ora vado con calma a leggermi la prima rece su di lei...

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  2. Mah, i problemi di La regina delle piramidi furono prevalentemente legati alle perdite finanziarie. Hawks oltre che regista era anche un produttore e patì dolorosamente questo fatto. La Collins non ebbe "ufficialmente" nulla di negativo, dal film, visto che fu scritturata per 20th century fox ma l'impressione, a posteriori, è che la verve con cui interpretò il suo personaggio contribuì fortemente a tratteggiarne l'icona di cattiva (perlomeno sullo schermo). Il che non sarebbe niente di chè, visto che Joan era una credibile cattiva, ma non era l'unico ruolo che sapeva fare. Inoltre molti critici faticarono a distinguere il ruolo dall'attrice, come l'esempio che ho riportato nel dizionario dei film del Morandini.

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