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sabato 30 novembre 2019

IL MOSTRUOSO UOMO DELLE NEVI

457_IL MOSTRUOSO UOMO DELLE NEVI (The Abominable Snowman); Regno Unito, 1957Regia di Val Guest.

Dopo i due interessanti L’astronave atomica del dottor Quatermass e I vampiri dello spazio, il sodalizio tra il regista Val Guest e la casa cinematografica Hammer continua con Il mostruoso uomo delle nevi. Si tratta di uno dei primi film sulla figura del mitico Yeti, l’abominevole uomo delle nevi che vive nei territori inaccessibili della catena dell’Himalaya. Guest è sicuramente un bravo regista, e la Hammer uno studio che ha realizzato pellicole assai preziose, riportando in auge il genere horror dopo i fasti degli anni ’30. Però, forse, l’impresa in cui si sono imbarcati è superiore alle loro capacità, perché nella leggenda dell’uomo delle nevi la componente ambientale è cruciale. L’inospitalità delle elevatissime montagne himalayane e soprattutto il freddo sono elementi fondamentali sui quali, solo in seguito, si innesta la figura schiva ma inquietante dello Yeti; se per le ambientazioni i Pirenei francesi possono anche andare, le condizioni climatiche non sono purtroppo praticamente per nulla evidenziate nel lungometraggio. Banalmente si può osservare come non si veda il fiato dei personaggi quando parlano o respirano ma, in ogni caso, non ne fanno quasi mai cenno e nemmeno insistono in quei comportamenti, come rabbrividire, fregarsi le mani sugli avambracci o soffiarsi sulle stesse, che lascino intendere di essere in presenza di temperature rigide. Essendo quello climatico un elemento molto caratteristico del luogo ove è ambientata la storia, se lo spettatore si accorge (ed è difficile non farlo) che non viene comunicata la sensazione di freddo da parte degli attori, poi è difficile ignorare questo fatto e passare oltre, perché ormai la credibilità dell’intera messa in scena è compromessa. Peccato, perché il regista inglese aveva per le mani un buon soggetto e, comunque, nonostante queste pecche, dimostri di saperlo sfruttare anche negli aspetti di critica sociale e non unicamente sul versante di puro intrattenimento. Che rimane comunque la cifra stilistica prevalente nell’opera e che, al netto dei limiti citati, viene comunque assolta a pieno titolo.   











Maureen Connell



    

venerdì 29 novembre 2019

IL MEDICO DELLA MUTUA

456_IL MEDICO DELLA MUTUA ; Italia, 1968Regia di Luigi Zampa.

L’Albertone nazionale mette un altro memorabile esempio di italiano medio nella sua personale galleria di personaggi della società del belpaese durante il boom economico. Nella sua enorme collezione, oltre alle figure, per così dire, di stampo familiare come il seduttore, lo scapolo, il vedovo, c’è anche il filone professionale di cui Il medico della mutua andrà a far parte, come già, ad esempio Il vigile, curiosamente anche’esso per la regia di Luigi Zampa. Sordi è in gran forma, forse un filo meno esuberante rispetto agli anni passati, ma probabilmente anche più congeniale ad una storia satirica che prova a denunciare il tipico malcostume senza debordare troppo nella farsa. L’attore romano è il dottor Guido Tersilli, un medico che si fa strada dapprima mostrandosi volenteroso, ma via via manifestando la sua vera natura di arrivista senza scrupoli. E’ la solita via italiana alla critica sociale in campo cinematografico: raccontare storie che vedano protagonisti uomini che si muovono e sopravvivono nel malcostume diffuso, incarnandone pienamente lo spirito. Il che non è che sia necessariamente un male o fallimentare; ma il punto è che questi personaggi, come ad esempio il dottor Tersilli, non hanno nemmeno la cifra morale per reggere una eventuale critica. Sono macchiette, personaggi minuscoli, meschini: ne consegue una sorta di naturale assoluzione per incapacità di sopportare anche solo una condanna morale da parte dello spettatore. E il compatimento di quest’ultimo nei confronti di questi personaggi (spesso metalinguisticamente quasi invocato dagli stessi), finisce però anche per sdoganare il comportamento scorretto denunciato (almeno nelle intenzioni) dalla pellicola, che ne esce quindi, al contrario, rafforzato. 

Vedere il dottor Tersilli che si fa beffe di ogni etica pur di ramazzare un mutuato in più, fa probabilmente crescere la convinzione che anche nella realtà sia proprio così, e induce, contemporaneamente, la spontanea tentazione, a quel punto ritenendola legittima, di fare altrettanto qualora ne capiti l’occasione. Il medico della mutua è un’opera apprezzabile a livello professionale, con una colonna sonora, ad esempio, molto riuscita soprattutto nel motivo Samba fortuna di Piero Piccioni ma, come la maggior parte delle pellicole di questo genere, patisce questo implicito compatimento per la tipica indole italiana. Con la scusa della satira, attori come Alberto Sordi sono divenuti l’emblema del malcostume italiano, senza però prenderne mai le distanze, e nemmeno, se non raramente, assumendosene le responsabilità morali all’interno della narrazione; e quindi il giudizio complessivo sulla loro valenza non può non tenerne conto. Denunciare l’assurdità del sistema sanitario nazionale è sicuramente un pregio, ma non se diventa praticamente un alibi: infatti una volta preso atto che il proprio paese è già corrotto fin dalla sua struttura portante, appurato che pure gli individui meno svegli fanno carriera in modo sleale, il concetto che rimane è che essere onesti è quasi un titolo di dabbenaggine più che un merito. 







Evelyn Stewart AKA Ida Galli



giovedì 28 novembre 2019

VIVA ZAPATA!

455_VIVA ZAPATA! (Viva Zapata!); Stati Uniti, 1952Regia di Elia Kazan.

Una biografia in puro stile hollywoodiano, ossia con molte licenze poetiche, ci racconta la figura carismatica del rivoluzionario messicano Emiliano Zapata. Che si tratti di un personaggio storico di questo tipo, al cinema, in pieno maccartismo, e che a farlo sia proprio il regista Elia Kazan, accusato di essere stato un delatore in questa sorta di caccia censoria, è un fatto certamente curioso. L’opera di avvale della sceneggiatura di un grande scrittore come John Steinbeck e, accanto al nome del regista del precedente Un tram chiamato desiderio, c’è anche l’attore che di quella pellicola è stato la rivelazione: Marlon Brando. Kazan e Brando tornano quindi a lavorare insieme e sfornano un altro film di sicuro valore: l’attore dà vita ad un Emiliano Zapata truce e vigoroso, intriso del carisma del leader. A ribadire che il cast è di tutto rispetto và segnalato anche un validissimo Anthony Quinn (premio Oscar come attore non protagonista) nel ruolo di Eufemio, fratello del condottiero. Kazan mostra una regia forte, simbolica, di polso sicuro: molte le scene di grande impatto emotivo. Come quella nel finale, con l’arrivo di Zapata  che trova Eufemio che, dopo aver sfrattato i contadini, se ne sta svaccato sul divano mentre quella che è presumibilmente la moglie del padrone di casa è accanto a lui, discinta e stesa sul tappeto; e per invitarla a coprirsi, Eufemio la scuote con lo scarpone sulla coscia nuda. Notevole anche la scena finale, con l’agguato e il cavallo bianco simbolo della libertà zapatista che riesce a scappare. Kazan conosce molto bene l’arte di provocare emozioni nello spettatore e non gioca mai al risparmio. 

Molto interessante la figura di Fernando Aguirre (Joseph Wiseman), un intellettuale che dapprima sembra legato agli ideali della rivoluzione (riforma, libertà, giustizia e legge nella realtà storica, terra subito ai contadini in quella del film) ma si rivela, cammin facendo, uno spietato opportunista. E nel confronto con il semianalfabeta Zapata, viene il sospetto che ci sia, da parte di Kazan, una severa critica anche all’elite culturale e non solo, com’era prevedibile, alla classe dirigente e a quella militare. Del resto che ci fosse poco da fidarsi dall’ambiente culturale, che comprendeva anche il mondo del cinema, Kazan doveva saperlo fin troppo bene.








Jean Peters









mercoledì 27 novembre 2019

Promo: QUATTRO CAPOLAVORI. Il cinema di VALERIO ZURLINI

  LA PRIMA NOTTE DI CINEMA 


VIVO PER LA TUA MORTE

454_VIVO PER LA TUA MORTE ; Italia, 1968Regia di Camillo Bazzoni.

Spaghetti western appena godibile, Vivo per la tua morte prova a reggersi su presupposti troppo estemporanei per funzionare a dovere. Il regista Camillo Bazzoni è alla sua prima esperienza dietro alla macchina da presa in un lungometraggio, e si vede; di contro, il protagonista Steve Reeves è al suo ultimo film e non si tratta di una chiusura col botto. Va detto che Reeves era uno specialista dei peplum, i film storici che spopolarono negli anni sessanta a Cinencittà e di cui l’attore americano era la star assoluta. Vivo per la tua morte è la sua prima e unica incursione nel western e l’attore non aggiunge niente alla figura di duro invincibile che spesso veniva utilizzata nella corrente italiana del genere. Forse le parti più riuscite sono quelle ambientate a Yuma, ai lavori forzati del carcere, dove il possente fisico di Reeves si presta bene alla bisogna. Per il resto il film si distingue per un susseguirsi di tópoi classici degli spaghetti: morti ammazzati come se piovesse, false accuse a danno del protagonista, ingiustizie da vendicare e via di questo passo. Il tenore della storia è serio, anche perché Reeves ha fondamentalmente un’unica espressione, ma fanno capolino qua e la i toni da farsa durante la scazzottate, in qualche caso accompagnate da una musica degna di una comica. Buona, ma non di più, la fotografia di Enzo Barboni, mentre i titoli di testa sono tra i peggiori e i più incomprensibili mai visti.    




Silvana Bacci


Rosalba Neri


Silvana Venturelli