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giovedì 31 maggio 2018

THE FOUNDER

155_THE FOUNDER Stati Uniti, 2016;  Regia di John Lee Hancock.

E alla fine, il film definitivo sul sogno americano è stato dunque fatto: la storia di Raymond Kroc, il signor McDonald’s ovvero il fondatore della McDonald’s Corporation. The Founder, per citare il titolo del lungometraggio di John Lee Hancock. Perché, parliamoci chiaro, John Wayne, Steve McQueen o Clint Eastwood erano credibili solo al cinema, che di persona non è che sia poi così semplice incontrare gente come il duca e compagnia. Certo, si sa che l’eroe a stelle e strisce, ovvero colui che interpreta meglio di tutti il sogno americano, è un tipo ordinario che in circostanze eccezionali si dimostra eccezionale a sua volta. A differenza del campione della tradizione europea, che era nobile di origine, principe o cavaliere che fosse. Ed è proprio la normalità dell’individuo, a marcare la differenza: tant’è che non c’è nulla di straordinario nell’essere americano. Ma se, almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale, c’erano state abitualmente circostanze eccezionali dove l’uomo della strada potesse mostrare il suo valore, ovvero essere l’eroe per un giorno, nel dopoguerra, negli anni del boom economico, questi situazioni particolari passavano in secondo piano. E il benessere diffuso diveniva allora il terreno ideale per vedere all’opera l’americano medio; che, forse, a differenza dell’italiano medio, per fare un paragone, non è la media delle diversità degli individui, ma è esattamente quello che trovi più facilmente camminando per strada. Del resto, venendo allo specifico del film di Hancock, i fratelli McDonald’s trovano la ricetta del successo del loro locale concentrando la loro produzione esclusivamente sui prodotti che il loro pubblico consuma di più. Per quale motivo differenziare l’offerta, si chiedono i due?

Se la maggioranza vuole solo determinati cibi (hamburger, bibita, patatine), la minoranza si adegui. E se, in un altro paese, forse la minoranza sarebbe andata in un altro locale a prendersi del pollo fritto o una pizza, negli Stati Uniti, invece si adeguò, decretando il successo universale della catena di hamburgheria più famosa e diffusa al mondo. E’ anche questa massificazione indotta (ma tutto sommato forse già presente nell’indole stessa degli americani) che, in modo certamente un po’ sinistro, celebra The Founder. Ma questo è solo l’aspetto più lieve della questione, perché ne esiste anche uno molto più oscuro. 

McDonald’s, che giustamente nel film viene posto sul piano della chiesa e del municipio, come simbolo che affianchi, unisca e accomuni le due istituzioni basilari della società americana (quella religiosa e quella politica), nasce da una frode, poggia le sue basi su un imbroglio. E’ davvero, quindi, una onesta celebrazione dell’America, questo The Founder: la celebrazione di un paese che nacque a sua volta su una ingiustizia ai danni dei nativi. Ma quello non fu che il primo e volendo anche unicamente simbolico atto di pirateria affaristica, primo di una storia economica ed industriale fondata sul motto business are businesses, gli affari sono affari. E del resto lo dice anche Crok (interpretato benissimo da Michael Keaton): l’America non è cane mangia cane, ma piuttosto ratto mangia ratto, visto che il cane è forse un animale troppo nobile, anche nell’accezione dispregiativa del proverbio dog eat dog. In effetti il ratto è forse l’animale più pragmatico in natura, e sarebbe sicuramente un ottimo businessman; americano, naturalmente. E pazienza se il film di Hancock non ha la forza di un’opera di Michael Moore: nella sua omologazione, risponde anche meglio al suo scopo.
Un film ordinario per parlarci di un paese ordinario.
(Che, beninteso, specie in questo momento storico, per noi italiani non può che essere ancora un sogno.)




Linda Cardellini




martedì 29 maggio 2018

CUSTER EROE DEL WEST

154_CUSTER EROE DEL WEST (Custer of the west). Stati Uniti1968;  Regia di Robert Siodmak.

Il regista dal pedigree nobile (La scala a chiocciola, I Gangster) Robert Siodmak, dirige questo film molto particolare dedicato ad una delle figure più leggendarie del West, il Generale George Armstrong Custer (il titolo di generale è usato in modo improprio, essendo il militare un tenente colonnello, ma tant’è, la leggenda prevarica la storia, come si sa). L’autore chiarisce subito che non si tratta di un documentario biografico o di un film storico: dai cavalli tutti dello stesso colore come per uno spettacolo circense, agli stessi che avanzano segnando teatralmente il passo, fino alla scena finale, emozionante ma per nulla verosimile, tutto lascia ad intendere che il film è un ritratto fortemente stilizzato della figura del Custer eroico. Il militare, qui interpretato molto efficacemente da un superbo Robert Shaw, è una figura controversa nella storia del west e viene generalmente criticato, ma Siodmak centra lo spirito del personaggio forse nel modo migliore di quanto sia mai stato fatto al cinema. Perché, che lo si voglia o no, Custer è stato un eroe del west, e quindi è giusto trattarlo come tale; la statura eroica di Custer nel film viene quindi resa, ciononostante sono evidenziati i limiti della persona e anche del soldato. Custer, infatti, non esce mai dal suo seminato, in quanto come individuo è un militare fino al midollo e quindi non si pone molti dubbi sul proprio operato: il capitano Banteen, più sensibile alla questione indiana, pare messo lì apposta per evidenziare i limiti morali del generale. Dal punto di vista strettamente militare, la sua sete di gloria appare come un ulteriore evidente limite. In effetti Custer, più che come uomo, nel film è visto come figura, e quindi bidimensionale: durante il dialogo col sergente Mulligan, condannato a morte all’alba successiva, viene ripreso tra un immagine appesa al muro ed una statua della Madonna, proprio come fosse anch’esso una rappresentazione e non un uomo in carne e ossa. Custer è quindi una sorta di marionetta nelle mani di Sheridan: quest’idea che la strada sia già segnata è resa cinematograficamente da almeno tre sequenze in cui abbiamo anche delle soggettive che esplicitano lo spirito del film. 


La prima nel carro dei minatori, davvero audace la soggettiva ribaltata, poi con il militare nel condotto idraulico per i tronchi e infine con il treno che viene lasciato andare all’indietro senza freni: in tutti e tre i casi percorso e sorte dei malcapitati sono segnati e, non potendo costoro guidare o decidere la propria strada, alla fine finiscono tutti ammazzati. Un po’ come capiterà a Custer, ma con una decisiva differenza. Custer infatti riesce ad incidere, a deviare dal percorso prestabilito, e questo è certamente il suo lato eroico, assai più che le sbandierate 60 cariche nella Guerra Civile. Egli rifiuta di presenziare e promuovere il treno blindato, del resto già approvato da Washington, che rappresenta sia il nuovo modo di fare la guerra, sia il concetto di predestinazione legato all’idea dei binari su cui corre il veicolo. 

Smette cioè di essere la marionetta al servizio di Sheridan (e di chi per lui), al che viene rispedito alla frontiera, cambia uniforme indossando quella del nemico (la giacca in pelle scamosciata con le frange tipica degli indiani), anticipa i tempi della manovra militare, svincolandosi ulteriormente dal disegno predefinito, e trova la gloria della morte in battaglia. E’ difficile capire il Custer personaggio storico ma, sebbene questo film si presenti come un prodotto di evasione assai lontano da quella che dovrebbe essere una ricostruzione attendibile, è facile che l’impressione finale che rimane sia più vicina alla realtà di quanto si possa immaginare. Ma, al di la’ di questo, dell’aspetto storico cioè, il film ci racconta di un eroe, di un autentico mito del West, e lo fa nel pieno rispetto delle regole dell’epica e del cinema.    



domenica 27 maggio 2018

ACTAS DE MARUSIA: STORIA DI UN MASSACRO

153_ACTAS DE MARUSIA: STORIA DI UN MASSACRO (Actas de Marusia). Messico1976;  Regia di Miguel Littìn.

Il regista cileno Miguel Littìn nel 1976 era da tempo esiliato in Messico; a suo dire, il giorno stesso dell’insediamento del Generale Pinochet al governo, sua moglie venne avvertita della sua fucilazione! Dal canto suo, nel suo esilio messicano il volitivo autore non si perse però d’animo e, preso il soggetto di un altro esule forzato, Patricio Manns, realizzò Actas de Marusia: storia di un massacro, un testo che è una severa condanna per il regime cileno del tempo. E’ infatti evidente che l’obiettivo di Littìn sia Pinochet, al tempo spietato dittatore dello stato sudamericano, ma in realtà l’episodio narrato appartiene ad un altro periodo storico. L’operazione di Manns e Littìn sul soggetto è sopraffina: si prende un evento storicamente accaduto, il massacro di Marusia, appunto, che avvenne nel 1925 e che vide una dura repressione ai danni ai poveri minatori del piccolo paese, ma lo si anticipa al 1907, ovvero quando storicamente accadde un altro tragico evento del tutto simile, il più famoso massacro della scuola Santa Maria de Iquique, che vide anche in quel caso un eccidio di minatori (un numero imprecisato, pare qualche migliaio) da parte dell’esercito cileno. Insomma, sembrano dirci Littìn e Manns, le date non sono importanti, nella storia cilena, tanto i poveri minatori venivano trucidati in modo simile (e quindi interscambiabile) nel 1907 come nel 1925; e nel 1976 con Pinochet al potere di sicuro non doveva esserci un clima più salubre, per la povera gente. 

A parte queste sottigliezze storiche, il film può essere benissimo apprezzato come prodotto di intrattenimento; per la verità, questo è vero fino ad un certo punto, perché bisogna averci lo stomaco, visto che le immagini sono piuttosto dure (c’è addirittura un sorprendente passaggio scatologico). Ma tant’è, il film ha sin da subito, sin dal titolo, una certa pretesa storica: e se per i cileni poteva bastare Actas de Marusia, per rievocare il tragico episodio, i distributori italiani hanno pensato bene di evidenziare l’attendibilità del racconto con l’aggiunta di un storia di un massacro, che vuole appunto ribadire che si parla di qualcosa di storicamente accaduto. 

Dal punto di vista tecnico, Littìn lavora su due binari quasi paralleli ma che trovano una giusta armonia: da un lato racconta in modo asciutto, realistico, concedendo poco allo spettatore dal punto di vista narrativo. Questo alimenta in modo efficace l’impatto storico della pellicola che, anche in base alla conosciuta storia del Sudamerica e in particolare del Cile, fornisce un quadro altamente credibile, per quanto efferato. Ma sull’altro piatto della bilancia Littìn, aiutato dalla riuscita collaborazione alle musiche di Mikis Theodorakis e Angel Parra, conferisce alla sua opera un tono epico, grazie all’emozionante e strepitoso tema musicale. Actas de Marusia diviene quindi, oltre che un atto di accusa, anche un tributo, una celebrazione, della figura del pampino cileno (l’abitante della pampa), sfruttato nelle miniere per gli interessi degli investitori inglesi e vessato dalle angherie dei militari locali. 

A questo proposito si può notare il differente comportamento tenuto, nelle fasi della rivolta, da queste due categorie: gli uomini d’affari anglosassoni, nonostante il manifesto disprezzo per i minatori, a fronte dei primi scontri, sono disposti a concessioni. Non per una qualche forma di giustizia sociale, ma per mero calcolo speculativo: meglio concedere e far rientrare la protesta, che cercarsi rogne; i lauti margini di guadagno lo permettono.
Al contrario, i militari cileni sono intransigenti e disposti ad ogni violenza pur di ristabilire la condizione originaria.
Insomma, un film certamente duro e anche apertamente schierato politicamente; ma necessario.  
Un onore, per l’Italia, che ad interpretare il personaggio principale sia stato chiamato il nostro Gian Maria Volonté, validissimo, come al suo solito, soprattutto in questi contesti.

                  


venerdì 25 maggio 2018

IL COLPO DELLA METROPOLITANA (UN OSTAGGIO AL MINUTO)

152_IL COLPO DELLA METROPOLITANA (UN OSTAGGIO AL MINUTO) (The taking of Pelham One Two Three). Stati Uniti1974;  Regia di Joseph Sargent

Il colpo dela metropolitana (un ostaggio al minuto) è un buon film, divertente, con alcune trovate indovinate. L’idea di sequestrare un convoglio della metropolitana di New York completo di passeggeri, è sicuramente inconsueta, e la suspense per l’ultimatum imposto dai banditi è accentuata dalla claustrofobica ambientazione principale della vicenda. Un ulteriore elemento che gioca a favore dell’opera è, peraltro, proprio la scomposizione della storia in ambienti diversi ma circoscritti (il vagone della metropolitana, la sala controlli della stessa metro, l’ufficio della Polizia dei Trasporti, l’autopattuglia) che interagiscono tramite il montaggio alternato, dettando il ritmo allo svolgersi dell’azione. Non c’è quindi il tempo per una qualsiasi forma di approfondimento, ma solo quell'instaurare un più che discreto e costante stato di tensione. Un’ulteriore nota, verrebbe da dire proprio di colore, sono gli appellativi con cui si chiamano tra loro i banditi: Mister Blue, Mister Brown, Mister Green e Mister Grey. Con questi tocchi, così come con alcuni divertenti dialoghi un po’ sopra le righe, il lungometraggio guadagna qualche ulteriore punto: da ricordare almeno la scena dei giapponesi ad inizio film e le lamentele del tenente Garber (Walter Matthau) nei confronti dei compagni d’azione, soprattutto nei dialoghi alla radio. Il colpo di scena su cui verte la storia è valido, ma ha il problema che si fonda su un particolare sconosciuto al grande pubblico (ovvero che è indispensabile la presenza di un uomo perché la locomotiva della metropolitana possa procedere).


Ecco quindi che la sceneggiatura preveda un passaggio in cui questa informazione venga fornita  al poliziotto che ipotizzava che i sequestratori avessero abbandonato il convoglio lasciandolo proseguire senza nessuno alla guida. Ma in questo modo il meccanismo narrativo ne esce un po’ ridotto nella sua efficacia, in quanto le spiegazioni sono spesso poco funzionali all’azione. A questo punto meglio l'altro, di colpo di scena, quello che rovina i piani all’ultimo sopravvissuto tra i banditi, Mister Green (Martin Balsam): che il suo pesante raffreddore lo possa alla fine tradire è certamente un passaggio telefonato, ma comunque formalmente funzionale allo scopo. Sorprendete, ma un po’ fine a sé stessa, anche la sorte che tocca a Mister Blue, interpretato da un intenso Robert Shaw. Insomma, non certo un capolavoro, questo Il colpo della metropolitana (un ostaggio al minuto) e nemmeno il miglior esempio di film d’azione anni ‘70, ma certamente un film divertente e con alcuni spunti degni di nota.




mercoledì 23 maggio 2018

KRAMER CONTRO KRAMER

151_KRAMER CONTRO KRAMER (Kramer vs Kramer). Stati Uniti1979;  Regia di Robert Benton.

Ecco un film esemplare dei seventies: ci sono, se non tutti, molti dei temi cruciali degli anni ’70, ad esempio il femminismo che sfociava ormai nella sacrosanta consapevolezza delle donne, la crisi della famiglia come la si intendeva in senso classico, la necessità per l’uomo di reinventarsi un ruolo e, naturalmente, anche i primi conti da fare con queste nuove idee certamente progressiste ma che, come ogni cosa, presentavano ad un certo punto il rovescio della medaglia. Ovvero i figli (in questo caso uno solo, il piccolo Billy) che in mezzo a questi cambiamenti finivano per divenire un mezzo ostacolo all’inseguimento delle gratificazioni personali dell’uomo o della donna di turno. Nel film di Benton, magistralmente sospeso tra l’essere ruffiano e perfettamente sincronizzato sull’onda sociale giusta, prima è l’uomo che, dedicandosi esclusivamente al proprio lavoro, trascura la propria famiglia, poi è il turno della donna ad andarsene in cerca di una propria realizzazione professionale. E, per tornare agli anni ’70, è importante dire che quest’uomo e questa donna, i Kramer vs Kramer del titolo, sono nientemeno che Dustin Hoffman e Meryl Streep. Ai due fuoriclasse il regista Benton lascia briglia sciolta e i due non deludono ma anzi, trasformano una, volendo anche semplice, comunissima e banale storia di separazione famigliare, in una notevole operazione cinematografica e, soprattutto, in una prova di recitazione d’alta scuola. Il titolo evoca, nella formula in uso negli Stati Uniti, il processo che è, o almeno dovrebbe essere, uno dei momenti topici della pellicola, mentre in realtà è forse proprio in quella fase che il film mostra un po’ la corda.

Perché nel dibattimento gli avvocati mettono in scena le proprie requisitorie, ovviamente largamente faziose, com’è normale che sia in un processo di questo genere; il punto è che in questo modo si scopre un po’ quella che è l’idea alla base dell’opera. Il racconto, pur se interessante, ben congegnato e messo in scena in modo professionale, è una sorta di romanzo a tesi, dove l’autore impone il suo punto di vista sulla problematica questione, in modo eccessivamente di parte. E questo è sempre antipatico per lo spettatore che voglia provare a farsi un’idea nel merito che sia un minimo personale. 

Niente di grave, che in questo senso si è visto di ben peggio, ma anche questo è un aspetto tipico degli anni ’70: si narra che al tempo ci fossero ancora i cosiddetti ideali, ma non per questo era semplice conservare una propria autonomia di pensiero. 
Rimane in ogni caso una sontuosa prova d’attori e una riflessione su una questione ancora irrisolta e, se posta nei termini mostrati nel film, difficilmente risolvibile.


Meryl Streep



lunedì 21 maggio 2018

MOBY DICK, LA BALENA BIANCA

150_MOBY DICK, LA BALENA BIANCA (Moby Dick). Stati Uniti1956;  Regia di John Huston.

Chi, se non un regista come John Huston, poteva tradurre in film un caposaldo della letteratura universale come il Moby Dick di Melville? L’autore statunitense possiede il piglio giusto, l’audacia e la spavalderia per fronteggiare una simile materia senza vacillare, e possiede anche tutto il bagaglio tecnico per non commettere errori dal punto di vista grammaticale in senso strettamente cinematografico. Perché ridurre un libro in un film è sempre difficile, figuriamoci un capolavoro come quello di Melville, che ha dato luogo per di più ad una marea di interpretazioni su quello che possono essere i significati sottesi alla storia narrata. Huston lavora concentrandosi sull’aspetto più consono alla sua natura, ovvero la sfida tra l’uomo e la creatura, la balena bianca, che in fin dei conti è il punto nevralgico anche del romanzo. Moby Dick è visto come una sorta di dio, una manifestazione di estrema superiorità della Natura; la sfida personale che gli lancia il capitano Achab è un supremo azzardo, un atto apparentemente folle. Non è però volgare pazzia, quella dell’uomo, ma anzi l’esaltazione della natura umana stessa, l’enfatizzazione di una parabola che nasce dalla volontà di non piegarsi al fato, al Destino, e quindi a Dio. E che su questa china si spinge molto più in là: Moby Dick ci parla della vendetta contro il dio carnefice e, in questo senso, in questa sfida a Dio, quella di Achab (e di Huston) è una bestemmia, e ha tutta la forza urlante di un insulto sprezzante all’Onnipotente.

Naturalmente la grammatica, non solo cinematografica, dell’autore nasconde a dovere la blasfemia, ma il senso profondo di disagio nell’ostinazione di vedere morta una simile meraviglia della Natura rimane, anche senza essere animalisti. Il capitano ha sicuramente perso il senno, ma questo ne ha esaltato alcuni aspetti che sono tipicamente umani: la voglia di uccidere, di ergersi a giudice e boia, il liberare la propria natura violenta. Attitudini tipiche dell’uomo, che trovano sfogo nella guerra e nella caccia; grazie a questa indole, comune a tutti gli uomini, Achab non fa poi molta fatica a convincere l’equipaggio (Starbuck, suo secondo ufficiale a parte) nella sua folle competizione mortale contro la balena. Ma non è la generica fame di violenza tipicamente umana il nocciolo della questione: quello che spaventa in Moby Dick è l’esaltazione nella sadica libertà di scelta, libertà di scegliersi un bersaglio su cui poi scatenare il nostro risentimento, il nostro rancore. E la suprema esaltazione consiste proprio nel scegliersi il bersaglio più grosso. La balena bianca del racconto è un capodoglio, un cetaceo dalle enormi dimensioni, e quindi rappresenta la suprema forza esistente in natura; che Moby Dick sia poi un gigante nella sua specie fa di lui addirittura un’espressione sovrannaturale. E il fatto che sia bianca ne conferma l’unicità, la riconoscibilità, e permette di indirizzare, di veicolare, l’odio del capitano, e quindi di esaltarlo e non disperderlo.

Moby Dick è l’essere più grande e forte al mondo, le sue dimensioni e la sua peculiare colorazione permettono questa affermazione: e permettono all’uomo di potersi scegliere l’avversario più potente, per il puro gusto di non avere remore nello sfogare la propria indole rabbiosa. Scegliersi in nemico più forte sgombra il campo da ogni possibile accusa di prepotenza o vigliaccheria, e libera moralmente la voglia di violenza. Perché se Achab accampava scuse o pretesti, la balena gli aveva tolto la gamba, per provare (senza riuscirci) a motivare la propria vendetta personale contro il gigante, come mai il più assennato Starbuck, il secondo ufficiale, l’unico da sempre restìo a seguire la pazzia del capitano, alla fine ne raccoglie la sfida? 

Quali sono i motivi che lo spronano a dare l’ultimo, folle, mortale e suicida assalto al gigante del mare? Non ci sono; o meglio, quelli che adduce Starbuck (“Moby Dick non è il diavolo è una balena. Gigantesca d’accordo, ma una balena e niente più. E noi siamo balenieri e niente meno. Noi non fuggiamo le balene, le uccidiamo. Uccideremo Moby Dick!”) fuori dal quel disperato contesto rientrano nella normalità dell’attività umana. Quello che era eccezionale per il capitano Achab, una missione superiore alla ragione, diviene invece mero dovere per il suo secondo. Insomma, non servono particolari motivazioni se non l’esaltazione di compiere un supremo e immotivato atto di ingiustizia, forse la più grande libertà concessa all’uomo; ovvero la messa in pratica di quello che rappresenta la bestemmia.
Huston filma tutto questo con qualche difficoltà dal punto di vista tecnico degli effetti scenici: per quanto spaventosa la sua balena bianca non è sempre credibilissima. Però fa’ un grandissimo lavoro in tutto quello che gli compete direttamente, con una regia puntuale nel seguire le vicende narrate. Sopraffina la prima parte, con i colori e le immagini del porto resi in modo molto evocativo; notevole la sequenza della funzione, (c’è Orson Welles nei panni di padre Mapple) e struggente, ma in modo totalmente sobrio, la carrellata di primi scavatissimi piani sulle donne che salutano i marinai sul molo: bestemmie anche queste, mute e rassegnate, contro il dio del mare.




sabato 19 maggio 2018

IO CONFESSO

149_IO CONFESSO (I confess). Stati Uniti1953;  Regia di Alfred Hitchcock.

Alfred Hitchcock non fu particolarmente soddisfatto di questo film, al quale, secondo lui, mancava uno sguardo ironico che alleggerisse un po’ la presunta pesantezza della vicenda. Dato l’argomento trattato, probabilmente non si trattava ovviamente di spargere un po’ di umorismo qua e là, quanto di filmare la drammaticità del racconto con una sorta di complicità condivisa con lo spettatore. Perché l’impressione di Hitch era il che il film fosse un po’ troppo pesante; ora, è indiscutibile che un certo grado di morbosità l’intrigo ce l’abbia, e forse anche eccessivo. Ma questo è dovuto alla presenza, al centro della scena, di un prete, un prete cattolico, per la precisione; e allora dobbiamo ammettere che anche noi, nel momento in cui diamo maggior rilievo alla cosa, siamo un po’ come i cittadini di Quebec City nel finale, quando circondano con fare accusatorio il povero padre Logan (uno strepitoso Montgomery Clift, che da solo vale il cosiddetto prezzo del biglietto). C’è forse un po’ di moralismo, insomma, nel nostro eventuale sottolineare che il prete aveva avuto una storia d’amore e che potesse, sotto sotto, essere ancora innamorato della sua vecchia fiamma (Ruth Grandfort, interpretata da una Anne Baxter non poi così vecchia). Il film non è un capolavoro, questo no, ma si sbaglia se lo si liquida come un’opera minore tout court. C’è almeno un passaggio filmico notevole, quando Alma, la moglie del sacrestano, serve la colazione ai tre sacerdoti e, passando dietro a padre Logan, cerca di capirne le intenzioni. La scena è girata con maestria perché, mentre il dialogo è del tutto estemporaneo, assistiamo ad un’azione che ha uno scopo completamente diverso e specifico. 

Un altro aspetto molto interessante è la figura del procuratore, mostrato in un paio di occasioni mentre si diletta in puerili esibizioni di equilibrismo: nella parte finale sarà proprio lui ad accusare padre Logan ma, almeno simbolicamente, come ministro della giustizia viene appunto preventivamente presentato come un individuo poco attendibile proprio per i suoi giochetti di bilanciamento. Ma la valenza dell’opera è legata al fatto che verte su un classico tema hitchockiano, ovvero lo scambio di colpa, tra l’altro appena affrontato dal maestro inglese nel precedente Delitto per delitto (L’altro uomo). Se nel film con Farley Granger e Robert Walker il discorso era stato più evidente, qui l’argomento è trattato con maggior sottigliezza; padre Logan, infatti, finisce per beneficiare di un delitto commesso dal suo sacrestano, l’immigrato tedesco Otto (Otto Keller). 

E qui, è evidente, cominciano i problemi: perché mai un prete dovrebbe trarre vantaggio dalla morte di una persona? Nonostante a prima vista Montgomery Clift conceda a padre Logan un aspetto che ispira grande fiducia, per via della faccia pulita e dei grandi occhi chiari, è altrettanto evidente, nel suo camminare con la tonaca un’ideale retta via, nei suoi sguardi riflessivi ma un po’ smarriti, che qualcosa, nella figura del prete, non torni, perlomeno non al cento per cento. Infatti, il poliziotto della vicenda, l’ispettore Larrue che, grazie all’interpretazione di Karl Malden, ha lo sguardo acuto da vero segugio, lo nota subito, focalizzando la sua attenzione fuori dalla finestra, osservando padre Logan che dialoga con la signora Granfort. E dire che d’innanzi a sé aveva, proprio in quel momento, il vero colpevole dell’omicidio, Otto, che stava appunto interrogando. 

L’omicidio raccontato nel film è cosa banale: oltre che sacrestano, Otto prestava lavoro anche come giardiniere presso il signor Villette e, proprio mentre stava cercando di rubare in casa del suo datore di lavoro, viene da questi scoperto e la cosa finisce in tragedia. In tutto questo padre Logan non c’entra, a ben vedere; ma è proprio a lui che, in confessionale, Otto rivela sotto sacramento il delitto. E il legame tra il prete e la scomparsa con Villette non si esaurisce qui: quest’ultimo, infatti, ricattava Ruth, per via della passata storia d’amore proprio con padre Logan. La morte di Villette scioglie questo nodo, ma lascia qualche dubbio sul fatto che padre Logan possa, in un qualche modo, sentirsi sollevato da questa evoluzione della vicenda. 

Il che non sarebbe certo un atteggiamento da buon cristiano. Naturalmente l’ispettore Larrue alla fine arriva al punto della situazione, e il prete viene quindi accusato dell’omicidio di cui ha, in fin dei conti, un movente plausibile (a differenza del vero assassino). Il tema della colpa è quindi servito da Hitchcock in modo sublime: è colpevole (almeno moralmente) un uomo se in fondo approfitta, o comunque si avvantaggia, grazie ad una circostanza criminale, sebbene non da lui provocata? La trama concretizza questo aspetto con l’impossibilità di difendersi del prete, che non può rivelare ciò che ha saputo sotto sacramento. Clift, nonostante i problemi di alcolismo, o forse grazie anche a quelli, sfodera una prestazione superba, da cui traspare un tormento interiore che non sembra poter essere legato alla sola impossibilità di difendersi per il vincolo di segretezza. 

Da parte del regista, nel film c’è anche un evidente ed esplicito omaggio, anzi meglio, un tributo, alla moglie Alma, nome condiviso anche dalla sposa di Otto, e che è indicata dallo stesso uomo indirettamente come causa, come movente, dell’omicidio. L’immigrato tedesco avrebbe ucciso Villette anche perché questi si approfittava della povera Alma, una donna troppo dedita al lavoro. Una condizione che questo personaggio condivideva con la moglie di Hitchcock, Alma Reville in Hitchcock, e a cui il regista vuole così rendere il giusto e pubblico merito. E, se l’equivalenza funziona, allora Otto, marito di Alma, immigrato europeo nel nuovo mondo, incarna per bene la figura di Hitchcock.
Un uomo che, per lenire il proprio ossessivo senso di colpa, arriva a mettere in scena il delitto. E poi cerca, nel confessionale del cinema, di condividere la sua colpa con noi. 
Meno male che noi non abbiamo vincoli di segretezza, e possiamo parlare apertamente del suo sublime operare.




Anne Baxter






giovedì 17 maggio 2018

INDAGINE AD ALTO RISCHIO

148_INDAGINE AD ALTO RISCHIO (Cop). Stati Uniti1988;  Regia di James B. Harris.

Se la figura certamente più nota di Indagine ad alto rischio è quella dell’attore principale, il validissimo James Wood (qui anche nelle vesti di coproduttore), in realtà forse dovremmo concentrarci maggiormente su un altro uomo di cinema, che in questo film da sfoggio di tutta la propria versatilità: James B. Harris. Naturalmente salta all’occhio che Harris è il regista della pellicola, e questo lo pone già di suo su un piano privilegiato; ma l’autore nato a New York è anche produttore (insieme allo stesso Wood) e sceneggiatore, una polivalenza già mostrata da Harris nel corso della, per altro piuttosto sporadica, carriera. Sono infatti pochissimi i suoi lavori: giusto una manciata di regie, una di sceneggiature e una di produzioni, e di queste ultime sono rimarchevoli quelle per i primi film di Stanley Kubrick (dove annovera anche l’esperienza di attore, sebbene si tratti di una mera comparsata). E’ chiaro che siamo di fronte ad un cineasta che conosce molto bene il mondo del cinema, fatto che permette a Indagine ad alto rischio di essere un lavoro pienamente professionale. Ad esempio, l'esperienza nell'attività di sceneggiatore lo aiuta in un adattamento di un soggetto, il romanzo poliziesco Le strade dell’innocenza di James Ellroy, piuttosto intricato che Harris riesce a mantenere avvincente anche sullo schermo. Il tema dell’innocenza (richiamato appunto esplicitamente dal titolo del libro nella traduzione italiana) è trattato con durezza dal regista: l’innocenza non è un valore, ma una sorta di chimera, e chi si ostina a inseguirla, a conservarla, negando o anche solo cercando di ignorare la presenza del male, non fa che il gioco di quest’ultimo.

Sebbene questo sia un discorso che, specialmente al culmine degli anni ottanta (periodo dell’uscita del film nelle sale), si possa definire curativo se non addirittura necessario, Harris ci va con la mano piuttosto pesante, sia nelle scene dove sono mostrate le vittime, che nella spietatezza di certe soluzioni narrative e, a livello di trama, di alcune scelte comportamentali del sergente Hopkins (James Wood, appunto). Film discutibile quindi ma, nell’insieme, teso e diretto come un pugno allo stomaco; e peggio per chi, ostinandosi a celebrare tanto il sogno americano quanto la cosiddetta rivoluzione culturale, se lo prenderà in pieno.   



Randi Brooks