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mercoledì 23 gennaio 2019

LA STORIA DI UNA MONACA

291_LA STORIA DI UNA MONACA (The nun's story); Stati Uniti 1959;  Regia di Fred Zinnemann.

Ispirato, attraverso il libro di Kathryn Hulme, alla vita di Marie Louise Habets, La storia di una monaca di Fred Zinnemann racconta di Gabriella (una discreta Audrey Hepburn), una ragazza convinta ad entrare nell’ordine delle suore di carità di Gesù e Maria. L’aspetto religioso, almeno nel film di Zinnemann, rimane un po’ secondario, in quanto non si capisce fino in fondo se la ragazza sia spinta effettivamente dalla chiamata divina oppure cerchi, più che altro, l’opportunità di prestare servizio sanitario al Congo. Gabriella è figlia di un celebre chirurgo ed è particolarmente dotata; siamo nel Belgio, tra le due guerre mondiali, e per una ragazza che voglia esercitare in prima linea, le colonie, nel caso particolare il Congo Belga, rappresentano l’opportunità migliore per cimentarsi sul campo. Se questo moto di spinta, nelle decisioni prese da Gabriella, è evidente, è controbilanciato dalla severità della disciplina della vita claustrale che davvero non si addice alla giovane. E sembra proprio questo il dilemma di Gabriella: piegarsi alla regola, pur di avvicinarsi al proprio obiettivo, oppure fare di testa propria, ascoltare la propria indole individualista? E qui che, come si accennava, non si avverte distintamente l’importanza della vocazione, che invece dovrebbe essere centrale in un simile contesto. Sul versante psicologico, il rigore tipico del cinema di Zinnemann si concentra sul conflitto interiore della giovane: i divieti della vita nell’ordine religioso sono vissuti come irrazionali da Gabriella, e le sue difficoltà sembrano legate alla ferrea logica del suo pensiero, connessa anche alla sua vocazione medica e quindi scientifica. 
E se riconduciamo questo conflitto vissuto dalla ragazza, alla disputa tra religione (le regole dell’ordine monastico) e scienza (la razionalità come base per operare le proprie scelte) non si possono avere dubbi su quale sponda approderà l’inerzia dell’discorso del regista di origine austriaca. Qualche perplessità è quindi lecita, nella valutazione complessiva del film e, volendo, può essere sovrapposta a quella delle superiori di Suor Lucia (questo il nome di Gabriella in abito monacale): il dubbio che rode, in un certo senso, la donna, sembra legato a problemi terreni assai poco spirituali. Anche per questo le vengono sempre negate le aspettative, nell’illusione che le delusioni possano smussare il carattere indipendente e volitivo che, come nota il dottor Fortunati (Peter Finch), nulla ha a che vedere con quello di una tipica suora. Certo, ad una mente razionale, le regole e i precetti della vita in convento paiono (e in fondo sono) irragionevoli e quindi inaccettabili: ma qui dovrebbe entrare in gioco la fede, tema però forse lontano dalle corde di Zinnemann. Nemmeno la Hepburn riesce a convincere più di tanto: la sua interpretazione è quella della brava alunna che vorrebbe negare la propria natura per soddisfare i propri maestri, ma niente di più. 

Insomma, non si discute se ci debba essere qualcosa più di quello mostrato, perché lasciare l’aspetto religioso sottotraccia può anche essere una scelta precisa dell’autore e quindi rispettabile; il punto è che poi tutta quanta la vicenda perde forza e rischia di non giustificare fino in fondo nemmeno il suo stesso essere. Un po’ forzata, in questo contesto, la svolta radicale di Suor Lucia, alla morte del padre, di voler lasciare l’abito religioso; un passaggio che non sembra sviluppato a dovere. Notevole piuttosto il rigore formale di Zinnemann. Molto interessante la sua Bruges, mostrata durante la camminata di Gabriella verso il convento e le ambientazioni africane; di grande pulizia quelle all’interno del convento. Molto bella la scena finale, con l’uscita di Gabriella che simbolicamente lascia la porta del convento spalancata, sia per infrangere la ‘regola’ (qui le porte si chiudono) e sottolineare il suo abbandono alla vita monastica, sia per lasciare entrare i suoni del traffico della città: la vita, quella vera.
Almeno secondo Zinnemann.   






Audrey Hepburn



    

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