Translate

sabato 31 luglio 2021

CEUX DE 14: EP. 1 ALLONS ENFANTS (a seguire QUANDO A STORIA...)

861_CEUX DE 14: EP. 1 ALLONS ENFANS . Francia, 2014; Regia di Olivier Schatzky.

Tratta dall’omonimo testo autobiografico di Maurice Genevoix, Ceux de 14 è una serie televisiva francese prodotta nel centenario dello scoppio della Grande Guerra. L’incipit del primo episodio ci proietta già in una fase cruciale del conflitto ma successivamente il racconto ritorna all’inizio, alla vita da borghese, frivola e spensierata, dello studente universitario Maurice Genevoix (Théo Frillet) che, in riva alla Marna, vediamo scherzare con Lucien (Baptiste Chabauty), Idalie (Esther Comar) e Yvonne (Marie-Ange Casta). La chiamata alle armi è accolta con entusiasmo dai giovani che, evidentemente, non avevano la minima idea di quello a cui sarebbero andati incontro; era però il clima dell’epoca. In questo capitolo iniziale, il regista Olivier Schatzky se la prende comoda e alimenta il tenore del racconto con un paio di pennellate metalinguistiche: il titolo Allons enfants che si rifà all’attacco della Marsigliese (l’inno nazionale francese) e i soldati blu ripresi in senso letterale e non solo per via delle divise. I volti dei militari appaiano infatti bluastri a causa di un fango sul volto nelle scene dell’introduzione che, come detto, ci mostra una fase successiva alle principali vicende narrate in questo episodio. Un aspetto sorprendente del film è quello ambientale: non le fangose trincee e la martoriata e brulla terra di nessuno a cui siamo abituati quando si parla della Prima Guerra Mondiale, ma la verde campagna francese: distese di prati a perdita d’occhio. La Grande Guerra è ancora agli arbori e ancora non si vedono i devastanti risultati che avrà anche sul paesaggio. 

Al termine della galleria fotografica del film, QUANDO LA STORIA... l'appendice storica di Antonio Gatti: 
IL PIANO SCHLIEFFEN: CRONACA DI UN DIBATTITO STORIOGRAFICO




Marie-Ange Casta


Appendice storica.

QUANDO LA STORIA... a cura di Antonio Gatti.

IL PIANO SCHLIEFFEN: CRONACA DI UN DIBATTITO STORIOGRAFICO

Dal momento in cui, con la fine della guerra, in Germania si cominciarono a cercare le cause della sconfitta e ad elencarne i responsabili, si iniziò subito un dibattito acceso sui motivi per cui il piano tedesco iniziale per l’invasione della Francia, non riuscì a replicare la brillante vittoria del 1870.
In breve, il piano adottato dal capo di stato maggiore Helmuth von Moltke jr. era stato concepito dal suo predecessore, Alfred von Schlieffen (da cui il nome) e prevedeva un rapido attacco contro l’avversario che si sarebbe concentrato in meno tempo in uno spazio minore (la Francia) mentre si sarebbe dovuta mantenere una rigida difensiva contro l’impero zarista a oriente. La Francia avrebbe dovuta essere attaccata dal fiore dell’esercito tedesco, sei armate, delle quali quelle formanti l’ala sinistra e centrale avrebbero dovuto fornire attacchi di mero supporto a quella che era l’offensiva principale, che sarebbe toccata all’ ala destra dell’esercito (I, II e III armata) che avrebbe dovuto violare la neutralità belga per implementare le sue direttive d’attacco. L’obiettivo di questa gigantesca Canne avrebbe dovuto essere l’esercito francese e non la capitale, Parigi: l’esercito francese avrebbe dovuto essere circondato dall’ala destra tedesca e poi chiuso in una fatale morsa dall’intero esercito teutonico. La I armata, l’appendice estrema dell’ala destra, allo scopo di allargare ulteriormente la tenaglia, doveva disinteressarsi completamente di Parigi, anzi continuare la marcia tenendosi la capitale alla sua sinistra, in modo da includerla nell’ambiziosa operazione di accerchiamento. Una volta distrutto l’esercito francese, i tedeschi avrebbero rapidamente spostato tutti i soldati a oriente per un confronto finale contro l’esercito zarista che si prevedeva, a quel punto, avesse già finito la sua più complicata mobilitazione e iniziato le prime fasi offensive. Era centrale, secondo questo piano, una certa dose di rischio nello sguarnire il fronte orientale ma, soprattutto, nel rafforzare l’ala destra dell’esercito operante in Francia, a discapito dell’ala centrale e sinistra. Leggenda vuole che le parole di Schlieffen sul letto di morte fossero state: Rinforzate la destra!
Von Moltke jr. adottò la filosofia generale di questo piano, apportando alcune basilari modifiche, per cui gli storici preferiscono parlare di piano Schlieffen-Moltke. Innanzitutto, le forze sul fronte orientale seppure comunque decisamente minoritarie rispetto a quelle sul fronte opposto (una armata contro cinque) erano comunque superiori a quelle previste da Schlieffen, con la possibilità di essere ulteriormente rinforzate durante la campagna. Questo era un aggiornamento al piano che teneva conto delle grandi migliorie operate dall’impero zarista nell’ambito dei trasporti ferroviari (in gran parte finanziati da capitalisti anglofrancesi) con conseguente accorciamento dei tempi di mobilitazione. Inoltre, Moltke, tenendo conto che l’offensiva francese sarebbe caduta proprio sul lato sinistro e centrale dell’esercito tedesco rafforzò in parte queste due ali, a discapito della destra.

Il piano Schlieffen-Moltke finì sotto pesanti critiche ancora prima di essere utilizzato. Assolutamente contraria era la Kaiserliche Marine, la Marina tedesca, la quale comprendeva chiaramente che la violazione della neutralità belga avrebbe fatto scendere in campo gli inglesi con la loro terribile Royal Navy; gli austriaci lo vedevano come il fumo negli occhi, così lo Stato di Baviera; molti ufficiali dello Stato Maggiore erano scettici a riguardo, ma Moltke jr. vinse la battaglia argomentando che con questo piano si sarebbe sfruttato al meglio quello che era il vantaggio iniziale tedesco, cioè la rapidità della mobilitazione e la maggiore disciplina.
La storiografia classica ha sempre visto von Schlieffen come una specie di giocatore di scacchi, un uomo dalla cultura libresca senza contatti con la realtà, che voleva riprodurre sul campo di battaglia quello che leggeva negli scrittori classici sulla battaglia di Canne. Secondo questa visione, von Moltke era un po’ l’opposto: un uomo più insicuro, dalle credenze stravaganti (riteneva imminente la Parusia, la Seconda Venuta di Cristo), più attento ai rischi impliciti nel piano; da qui le sue modifiche, che se da una parte diminuivano i rischi, dall’altra annullavano drasticamente le possibilità di una rapida vittoria. La storiografia classica ha visto quindi il piano Schlieffen-Moltke come il progetto ambizioso, impossibile, di un pedante, corretto, per quanto possibile, in modo insicuro da un pragmatico che però non ebbe abbastanza carattere per cambiarlo del tutto.
Recentemente, il dibattito storiografico si è acceso di nuovo intorno al piano Schlieffen con toni anche aspri, principalmente dovuti alla personalità stravagante di Terence Zuber, lo storico americano che- come vedremo- ha contestato alla radice la lettura di cui sopra.
Non è l’unico: la storica Annika Mombauer nel suo capitale Helmuth von Moltke and the Origins of the First World War, finalmente smonta l’immagine di un von Moltke leader indeciso, quasi trascinato dagli eventi, costretto ad adottare un piano del quale lui, per primo, non era convinto. Mombauer dimostra invece il ruolo di von Moltke nello stesso processo decisionale che portò alla guerra, la sua ambizione di emergere come leader di una Germania vittoriosa, la sua personalità tutt’altro che debole nel costringere i riluttanti ad accettare il piano Schlieffen-Moltke e ad attenersi rigidamente ad esso.
Terence Holmes, da parte sua, argomentò dopo una serie di studi sulle fonti primarie che il piano Schlieffen originale prevedeva, sì, un attacco alla Francia, ma solo in caso di guerra con la sola Francia. In caso di entrata in guerra della Russia, secondo Holmes, Schlieffen avrebbe preferito un’altra strategia, più elastica e meno rigida.
In questo contesto fu pubblicato il libro-bomba di Terence Zuber, provocatorio fin dal titolo: Inventing the Schlieffen Plan. Inventare il piano Schlieffen. Terence Zuber, un ex ufficiale dell’esercito americano laureatosi in Storia in Germania, è un esperto della Battaglia delle Frontiere e della campagna tedesca del 1914. I suoi libri sono audaci, provocatori (ricordiamo The Mons Myth, nel quale distrugge il mito della battaglia di Mons, riducendolo a quello che è: una disastrosa sconfitta degli inglesi con ritirata alla si salvi chi può), però sono anche dettagliati, basati esclusivamente su fonti primarie. Il carattere di Zuber è spigoloso, difficilmente accetta tesi contrarie alle sue, come durante il dibattito con Holmes sul piano Schlieffen.
In breve, la tesi di Zuber è radicale: il piano Schlieffen è stato un mito creato ad arte negli anni ’20 da un gruppo di ufficiali che voleva trovare un capro espiatorio per il fallimento della campagna del 1914. Prova ne è, secondo Zuber, il fatto che Schlieffen non abbia mai stampato lo schizzo del piano – come fece con altri progetti operativi- ma che fosse appunto, solo uno schizzo, che semmai avrebbe dovuto dimostrare il contrario e cioè che la Germania NON AVEVA le forze necessarie per una grande battaglia di accerchiamento e quindi doveva tenere conto di questa debolezza nel preparare la guerra su due fronti. Secondo Zuber, né Schlieffen, né Moltke sognavano una rapida vittoria e una Canne in grande stile: il loro intento era di controbattere all’attacco francese, che si sarebbe sviluppato forzatamente verso la Lorena e le Ardenne (ala centrale e sinistra tedesca) con una sostanziale strategia elastica, che si sarebbe dovuta evolvere a seconda della reazione francese al fallimento dei loro attacchi – e i tedeschi erano sicuri di battere i francesi in Alsazia e nelle Ardenne. In questo contesto, le “modifiche” di Moltke, che prevedevano un’ala sinistra molto forte, non erano violazioni di un immaginario piano Schlieffen, ma semplici accorgimenti che vanno letti nell’ottica di questa strategia elastica difensiva-offensiva secondo la quale era vitale in primis parare il colpo francese sull’ala sinistra e poi reagire con decisione. Le offensive sull’ala destra, invece, erano previste per eliminare un problema piuttosto serio: i forti belgi e francesi che, in caso di difficoltà tedesca, sarebbero stati i perni attorno al quale il nemico avrebbe montato la sua offensiva verso il Reich.
In un certo senso, secondo la concezione di Zuber, gli eventi che portarono alla Marna non furono frutto di un piano prestabilito, ma di un duplice sviluppo della condotta alleata, che i tedeschi non si aspettavano fino in fondo: da una parte, le armate francesi in Lorena fallirono sì le offensive, come previsto, ma resistettero egregiamente al contrattacco tedesco anche in virtù di una eccellente tecnica ed utilizzo delle armi pesanti; dall’altra parte, proprio i forti belgi e francesi del nord, che suscitavano più timore, dopo una prima resistenza feroce, crollarono provocando una ritirata generale delle forze britanniche e francesi nell’area, una ritirata verso Parigi che attrasse l’ala destra tedesca al loro inseguimento e che aprì un gap fra due metà delle forze armate teutoniche, una vittoriosa e marciante (l’ala destra) e l’altra tenuta ferma dalla resistenza dei francesi. Non fu insomma l’aderenza ad un piano fisso prestabilito decenni prima a determinare la sconfitta dei tedeschi, semmai il contrario: fu la loro incapacità a implementare la strategia fluida sulla quale si basavano le premesse della campagna.

Hew Strachan, nel suo The First World War: To Arms! (primo libro di una tetralogia che purtroppo non sarà mai completata per problemi personali dell’autore), pur non addentrandosi nel dibattito, riconosce comunque che quello della “vittoria rapida” è un cliché post-bellico e storiografico. Gli Stati Maggiori di tutti gli eserciti erano consapevoli della superiorità tecnologica delle armi difensive su quelle offensive, per cui si aspettavano una guerra lunga. In questo senso, possiamo vedere i presupposti base del piano tedesco come persino realizzati: scardinare le “porte” della Francia (i forti), portare la guerra in territorio nemico, impedire una invasione della Germania da Occidente.
Sicuramente la tesi di Zuber contiene elementi di radicalità, come tutte le tesi nuove costrette a combattere per farsi strada, ma poggia su elementi di indubbio interesse che non possono essere ignorati dalla storiografia:
-non esiste, durante la carriera ufficiale di Schlieffen, alcuna pubblicazione ufficiale in merito al piano Schlieffen. Gli altri piani, invece, sono stati stampati e distribuiti agli alti ufficiali
-la tesi di un piano Schlieffen che prevedesse la scommessa totale sull’offensiva dell’ala destra è incompatibile con le “modifiche” di von Moltke, in particolare con il rafforzamento, quantitativo ma anche qualitativo, dell’ala sinistra e con la disponibilità di quest’ultima al contrattacco, la quale si evince dalle forti perdite.
-nessuno prima e durante la campagna del 1914 si è riferito al piano Schlieffen come ad una cieca scommessa sull’ala destra, dalla quale dipendeva il destino della guerra e del Reich stesso. Gli elementi negativi rilevati dai suoi critici erano in merito alla violazione della neutralità belga, che avrebbe automaticamente comportato l’entrata in guerra della Gran Bretagna. I difensori della strategia pensavano, invece, che l’Inghilterra sarebbe entrata in guerra ugualmente ed avrebbe usato i porti belgi a suo piacimento: per questo la violazione della neutralità era, dal punto di vista dei motlkiani, una necessità di guerra.
Intorno a questi che sono dati di fatto indiscutibili, il dibattito sul piano Schlieffen non si è ancora concluso oggi. 

QUANDO TUONA IL CANNONE: capitolo 3_WWY WAR WANTS YOU

Quando la città dorme presenta:

QUANDO TUONA IL CANNONE

IL KOLOSSAL DOSSIER

Capitolo 3

WWY WAR WANTS YOU

Pensavate di sapere tutto sul Piano Schlieffen? Allora non perdetevi il pezzo bomba di Antonio Gatti Il Piano Schlieffen – Cronaca di un dibattito storiografico in appendice a Ceux de 14: Allons entants, il post con cui si apre il terzo capitolo di Quando tuona il cannone. Ad agosto, con WWY War Wants You, il colossal dossier si sposta sul fronte occidentale per seguire i primi sviluppi del conflitto mondiale. Dopo il primo TV movie della serie francese che segue le gesta del tenente Genevoix, ci spostiamo in Belgio per l’invasione tedesca del piccolo paese europeo. Insieme a Il Belgio Martire, analisi del film del 1919, ci sarà un approfondimento storico dedicato all'esercito del paese fiammingo/vallone che, pur se numericamente ridotto, seppe farsi valere.
Con il centenario dello scoppio del conflitto erano fiorite le produzioni televisive e anche l’inglese One World War fu trasmessa nel 2014. proprio come la francese, citata in precedenza, Ceux de 14. Anche questo è un altro primo episodio ed è dedicato all'esordio in guerra dei soldati sudditi di sua maestà: One World War: the first day. Per proseguire nell’evoluzione degli avvenimenti, torniamo in Francia con quelli del 1914, con il secondo episodio della serie Tv Ceux de 14: Nous n’en reviendrons pas. Sono film televisivi, sia quelli francesi che quelli inglesi presi in esame in questo capitolo, ma sono ben fatti e curati. Torniamo però al cinema, quello in sala, con un paio di pellicole: Le Heros de La Marne e Le Croix de L’Yser. Le Heros de La Marne è un film francese del 1938 davvero difficile da vedere fuori dai confini transalpini; non è che sia un capolavoro, ad onor del vero. In compenso La battaglia del secolo, l'approfondimento storico di Antonio Gatti è, al solito, imperdibile. Tornando ai film della rassegna, più interessante Le Croix de L’Yser, pellicola belga che testimonia quanto il piccolo paese sia rimasto traumatizzato dall’invasione subita in avvio della Prima Guerra Mondiale. Al centro della scena, nonostante il film sia come detto prodotto in Belgio, ci sono i francesi, del resto il fronte occidentale in quelle fasi metterà sotto pressione maggiormente i soldati d’oltralpe. Ecco quindi il terzo episodio de Cuex de 14: Les Soldates Blues che eleva, in effetti, i soldati blu, agli onori del titolo dell’episodio. Con la testimonianza olandese di Patria – No man’s land, curioso film del 2014, si chiude il capitolo.
E’ tutto! Appuntamento a settembre, alla volta dell’Africa! 

Il programma

Capitolo 3: WWY WAR WANTS YOU

Dalla notte del primo Agosto 

Tema

Fronte occidentale: primi scontri 

Film

Appendice storica

 

CEUS DE 14: ALLONS ENFANTS

IL PIANO SCHLIEFFEN: CRONACA DI UN DIBATTITO STORIOGRAFICO

IL BELGIO MARTIRE

GRANDE GUERRA, PICCOLO ESERCITO *

OUR WORLD WAR: THE FIRST DAY

 

CEUX DE 14: NOUS N’EN REVIENDRONS PAS

 

LE HEROS DE LA MARNE

LA BATTAGLIA DEL SECOLO

LES CROIX DE L’YSER

 

CEUX DE 14: LES SOLDATES BLUES

 

PATRIA – NO MAN’S LAND

 

 

*Absit iniuria verbis

 

venerdì 30 luglio 2021

L'ORO DEI MACKENNA

860_L'ORO DEI MACKENNA (Mackenna's Gold). Stati Uniti, 1969; Regia di John Lee Thompson. 

Un film che lascia un po’ disorientati, questo Mackenna’s gold del regista inglese J. Lee Thompson: il risultato finale è infatti troppo poco omogeneo e, soprattutto, qualche passaggio mette in difficoltà la sospensione d’incredulità anche del più ben disposto spettatore. Nel racconto filmico ci sono molti elementi di natura diversa che sembrano inseriti per risolvere di volta in volta il problema specifico che la trama presenta ma nell’insieme dell’opera non sono resi in modo armonico tra loro. La voce narrante, ad esempio, è usata solo per sveltire alcuni passaggi ma non sembra coerente con la struttura del film; le scene dell’avvoltoio, in un altro caso, possono essere evocative anche se sembrano usate più come escamotage visivo in modo troppo superficiale. E, soprattutto, anche dal punto di vista estetico il film denota eccessive discontinuità: ci sono moltissimi passaggi aerei di spettacolare bellezza, su paesaggi mozzafiato; poi ci sono sequenze di grande perizia tecnica, verrebbe da dire perfino eccessiva; infine ci sono scene nelle quali sembra che i fondali e i primi piani appartengano a riprese diverse, con un effetto davvero poco plausibile, soprattutto a fronte di altre scene tecnicamente molto valide.  La stessa trama è troppo azzardata, con il colpo di scena del ritrovamento del canyon e il successivo crollo che ha la credibilità degna di un fumetto di Topolino. Peccato, perché alcuni passaggi sono anche divertenti, Gregory Peck è comunque nella parte mentre Omar Shariff è una canaglia davvero simpatica. Per altro c’è troppa carne al fuoco anche in questo senso: Eli Wallace e Terry Savallas sono sprecati, mentre è irriconoscibile il mitico Edward G. Robinson. Tra gli altri, nel cast anche il regista Samuel Fuller, Ted Cassidy, Julie Newmar e Camilla Sparv.
Nel complesso un film divertente ma senza altre pretese.  



Camilla Sparv






Julie Newmar





mercoledì 28 luglio 2021

LA MASCHERA DI FANGO

859_LA MASCHERA DI FANGO (Springfield Rifle). Stati Uniti, 1952; Regia di André De Toth.

Il regista ungherese Andrè De Toth sembra trovarsi a suo agio col genere western e, dopo due film con Randolph Scott, si guadagna per questo La maschera di fango la possibilità di dirigere una star del calibro di Gary Cooper. Mentre avviene la distribuzione del film di De Toth, l’attore, già premio Oscar per il Sergente York, è praticamente in contemporanea presenza nelle sale con un’altra magistrale interpretazione, ovvero quella dello sceriffo in Mezzogiorno di fuoco, il capolavoro di Zinnemann. Non è certo il caso di paragonare La maschera di fango (un solido B-movie) all’opera di Zinnemann, ma può essere interessante notare come Gary Cooper, assolutamente perfetto nei panni dello sceriffo Will Kane, non riesca a fornire la stessa prestazione nel ruolo del maggiore Kearney di La maschera di fango. La motivazione principale è nella qualità del testo da interpretare, è ovvio, ma anche Cooper sembra dimostrarsi un po’ impacciato in un tessuto narrativo forse troppo semplice; non ha nel suo repertorio una verve recitativa per sopperire alle carenze del copione ma nemmeno ha l’impassibile indifferenza per cui Randolph Scott, ad esempio, interpreta questi ruoli senza troppe preoccupazioni. Non che la cosa sia di particolare fastidio o di intralcio alla visione del film, sia chiaro, ma fa specie veder valorizzato in modo così diverso un attore nell’arco di pochi mesi. In ogni caso il film è nel complesso valido, per quanto porti in dote le solite approssimazioni narrative tipiche dei prodotti di serie-B: ad esempio la questione delle coordinate sulla mappa comunicate dal traditore nordista ai trafficanti attraverso il prezzo al momento della vendita del bestiame. Si tratta di soluzioni narrative non tanto difficili da credere quanto un po’ troppo artificiose. Eccessivamente scialba anche la presenza femminile, affidata all’insipida Phyllis Thaxter nel ruolo della moglie del maggiore. Ma nel complesso, al netto di questi piccoli dettagli, si tratta di un film divertente, sorretto dalla sontuosa musica di un Max Steiner in gran forma, con intrighi spionistici inusuali in un western e quindi interessanti: insomma un’ora e mezza di divertimento garantito. 








Phyllis Thaxter


lunedì 26 luglio 2021

IL GIUDICE E IL SUO BOIA

858_IL GIUDICE E IL SUO BOIA . Italia, 1972; Regia di Daniele D'Anza.

Da un romanzo giallo non proprio semplicissimo (Il Giudice e il suo Boia di Friedrich Durrenmatt) l’affidabile Daniele D’Anza ricava l’omonimo sceneggiato televisivo Rai che, forse proprio una certa inafferrabilità rende particolarmente affascinante. Il cruccio di Durrenmatt, probabilmente, era dimostrare la fallacità della Giustizia umana, la sua incapacità di assurgere a Verità assoluta: per questo il protagonista, il commissario Barlach (nella riduzione televisiva italiana uno strepitoso Paolo Stoppa) alla fine del racconto incastra il suo arcinemico, Grauber (Glauco Mauri, grandissimo pure lui), pur sapendolo innocente del caso in questione. Grauber, vecchio amico di Barlach, in gioventù l’aveva sfidato, dimostrando al poliziotto che si poteva uccidere un uomo e poi farla franca, spacciando la cosa per suicidio. A nulla erano valsi i tentativi di Barlach di fare giustizia, Grauber aveva continuato beffardamente a fare la sua vita sempre ben oltre il confine della legge, sebbene negli anni si fosse costruito una posizione rispettabile. Ora, la sorte, o meglio una complicatissima concatenazione di eventi, permetteva al commissario di addossare la responsabilità al suo nemico per la morte di Schmied, tenente di polizia che aveva proprio l’incarico di sorvegliare Grauber per coglierlo in fallo. Ma Barlach sapeva che questi era innocente, perlomeno di quest’ultimo omicidio; nonostante ciò avrebbe colto l’occasione per fargli pagare il conto in sospeso. 

Il comportamento di Barlach appare quindi un po’ troppo ossessivo e anche un po’ ambiguo, specie nei confronti del suo assistente Tschanz (Ugo Pagliai): nello sceneggiato, Stoppa stempera e dilata assai questi aspetti, con i suoi modi sornioni e, anche grazia alla sua capacità affabulatoria, la storia si segue senza sforzo nonostante la trama non sia proprio facilmente comprensibile in tutti i suoi risvolti. L’attore romano al tempo aveva 66 anni e il suo personaggio qualche acciacco di troppo così, almeno a livello ufficiale, il commissario richiede al suo superiore Lutz (il solido Franco Volpi) un aiuto. La scelta cade, su esplicita richiesta di Barlach, su Tschanz, interpretato come detto da Ugo Pagliai. Pagliai, in questa occasione è meno convincente di altre, forse perché, col suo registro leggermente più sobrio e meno teatrale di Stoppa o Mauri, rimane un po’ imbrigliato nelle complessità narrative della trama. 

E’ infatti lui il vero colpevole dell’omicidio di Schmied e, con l’andare avanti della storia, appare evidente che Barlach lo abbia intuito subito, o comunque presto; del tutto deliberatamente, e assai discutibilmente, organizza a loro insaputa una resa dei conti tra Tschanz e Grauber, in modo da poter incastrare, in un modo o nell’altro, quest’ultimo. Nello scontro a fuoco, il poliziotto finisce per avere la meglio, ma Barlach, a questo punto, gli rivela che conosce la verità e lo ha manovrato a proprio piacimento. In questo senso è da intendere il titolo dell’opera, come spiegato dallo stesso Tschanz: Barlach è stato il giudice e Tschanz il boia. Ma dire che giustizia sia stata fatta sarebbe un po’ un azzardo, anche se alla fine Tschanz paga le sue colpe suicidandosi. Come si vede è un racconto particolarmente problematico, con la Giustizia gestita in modo del tutto personale dal protagonista, che trama con la vita del suo prossimo, finanche questi sia colpevole, pur di raggiungere il suo scopo. 

Esemplare, e stupefacente, il passaggio nella prima parte, quando Barlach e Tschanz si introducono nel giardino di villa Grauber e, quando vengono aggrediti dal cane di guardia alla casa, lo freddano con un colpo di pistola. Si tratta di un importante incastro narrativo, in quanto il bossolo lasciato dalla pistola di Tschanz è raccolto da Barlach, che se ne servirà per provare la colpevolezza del suo assistente, ma lascia interdetti la nonchalance con cui viene ucciso un animale che, in fondo, era nel suo legittimo comportamento. Di diversa natura la perplessità che lascia il presunto movente che ha spinto Tschanz ad uccidere Schmied: l’invidia professionale appare un pretesto poco credibile. Questo perché non viene particolarmente approfondita, in questo senso, la pista sentimentale, che avrebbe potuto essere ben più convincente: Anna Schaffroth, la fidanzata di Schmied, una bionda platino da favola, è interpretata in maniera superba da Gabriella Farinon e l’interesse di Tschanz nei suoi confronti pare evidente sin da subito. E una sventola come era all’epoca la Farinon potrebbe essere un movente più plausibile, almeno narrativamente, di molti oscuri passaggi di un racconto intrigante ma non del tutto oliato a dovere.   


 Gabriella Farinon

    



sabato 24 luglio 2021

GIOVANNI DALLE BANDE NERE

857_GIOVANNI DALLE BANDE NERE . Italia, 1956; Regia di Sergio Grieco.

I principali elementi in gioco nel film Giovanni dalle Bande Nere del 1956 sono probabilmente tre: il testo di origine, ovvero il romanzo omonimo di Luigi Capranica, la regia di Sergio Grieco e l’interpretazione di Vittorio Gassman nella parte del protagonista. Come si vede, nessuno dei tre elementi ha, non si chiede un rigore storico, ma nemmeno l’attitudine ad una certa sobrietà che il tema, se inteso come racconto biografico, richiederebbe. Ma, in effetti, quello di Grieco è classificato come film d’avventura e allora tutto torna. Film d’avventura che, nel complesso, assolve il suo compito: intrattiene lo spettatore per un’ora e mezza con sprazzi di onestà persino sorprendenti. Per dire: la crudeltà dei soldati di Giovanni de’ Medici è mostrata impietosamente durante l’assurdo saccheggio a Caravaggio, il paese liberato dall’occupazione francese. E’ una sorta di autocritica, nel senso che la storia raccontata è vista nell’ottica delle truppe di Giovanni dalle Bande Nere e quindi ammettere una tale infamia da parte dei buoni è un punto a favore per gli autori. Che non lesinano una durissima critica anche all’intransigenza di Giovanni che, per punire un saccheggio che sorprendentemente aveva proibito, ordina la decimazione. Tale pratica punitiva militare consisteva nell’esecuzione di un soldato ogni dieci del reparto che si era macchiato di gravi fatti di indisciplina. In questo caso c’era però un equivoco di fondo in quanto i soldati di Giovanni raccontati nel film di Grieco erano soliti darsi al barbaro saccheggio dopo una vittoria e l’ordine di risparmiare Caravaggio non era stato a loro trasmesso da Gasparo (Gérard Landry), il luogotenente del condottiero. 

Gasparo era un traditore in combutta coi lanzichenecchi e, nell’episodio specifico, era ulteriormente animato dalla gelosia per l’amata Anna (Anna Maria Ferrero), spasimante di Giovanni. Il quale si era invece invaghito di Emma (Constance Smith) in ossequio alla quale aveva appunto promesso di risparmiare Caravaggio, luogo di residenza di madre e fratello della ragazza. Il tema sentimentale, come si vede, è importante, come era prevedibile visto i precedenti del regista; e il melodramma ha tutti gli ingredienti necessari: amori impossibili, inganni in buona o cattiva fede, intrighi, destini tragici. Una certa enfasi nella descrizione dell’eroe protagonista è probabilmente dovuta all’autore del romanzo ispiratore visto che la vicenda di Giovanni de’ Medici, nonostante sia ambientata nel XVI secolo, si presta ad una interpretazione dei temi risorgimentali. 

L’eroe italiano che si batte per liberare la penisola ostacolato in questo più dai connazionali che dagli avversari era certamente un argomento che infervorava l’ardore patriottico del Capranica e, in effetti, è ancora avvertibile guardando il film. Gassman, di suo, è il solito mattatore dello schermo e con la sua recitazione teatrale trascina sulle atletiche spalle la vicenda come un vero eroe d’annunziano. Questi elementi, tutto sommati abbastanza concordi nel confluire in un’unica direzione, producono un’opera di mero intrattenimento con un vago sapore storico. La matrice pomposa dell’operazione naufraga però nella scarsa disponibilità di mezzi della produzione, che non si può certo paragonare a quella di un colossal. La buona volontà e anche le eventuali capacità dei singoli artefici non riescono a superare questo scoglio e dietro la patina enfatica è perfettamente avvertibile una certa sciatteria di fondo. Insomma, poco, troppo poco per l’importanza del tema preso in oggetto: è forse anche per questo scarso amore per un minimo di veridicità storica che il cinema italiano d’avventura riuscirà raramente ad essere convincente.    





Anna Maria Ferrero


Constance Smith