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giovedì 30 novembre 2017

THE QUEEN- LA REGINA

47_THE QUEEN - LA REGINARegno Unito, Italia, Francia 2006;  Regia di Stephen Frears

E’ sempre difficile la valutazione di un’opera di finzione che abbia come oggetto o comunque che coinvolga pesantemente persone o fatti della realtà storica. Quanto è lecito attendersi che l’autore sia fedele alla realtà? Quanto gli dobbiamo credere, quanto dobbiamo prendere per realmente accaduto, di quello che vediamo? Molti pensano che una finzione è e rimanga tale, al di là dei contenuti che veicola. Certamente non si può biasimare Orson Welles se qualcuno ha davvero preso per una cronaca giornalistica il suo spettacolo radiofonico La guerra dei mondi. Comunque sia, un certo grado di attinenza realistica, quando l’oggetto è biografico o prettamente storico, è lecito attenderselo, perché se no qual è lo scopo di utilizzare in un film, personaggi realmente esistiti? E’ un discorso generico, e non specifico di questo The Queen-La Regina, è ovvio, ma per quest’opera è come se valesse doppio, non tanto per la rilevanza della persona in sé, ma perché è facile intuire come al regista non sia stato dato libero accesso allo documentazione necessaria. E, in effetti, la Casa Reale inglese ha mantenuto fede alla propria fama, e non ha certo aperto le porte al regista Stephen Frears, che si è dovuto arrangiare per fornire una ricostruzione verosimile. Nonostante questo, l’autore britannico è riuscito nell’intento di girare un film notevole, critico ma anche equilibrato, lucido, su quella che forse è la dinastia regnante più importante al mondo.
E questa libertà di espressione concessa, al di là dei travagli in corso d’opera, è una ulteriore riprova di come quella inglese, sia una monarchia che sarebbe semplicistico liquidare come bigotta. Perché il tema dell’opera, è questo: la descrizione della statura storica di Elisabetta II attraverso la sua capacità di di adeguarsi al cambiamento; è a lei che è intitolato il film, The Queen-La Regina, e non a Lady Diana, la sfortunata principessa. Certo, la vicenda della morte di Lady D, connessa all’insediamento del rivoluzionario Tony Blair sono due elementi fondamentali nella storia raccontata, perché la loro concomitanza mette a nudo l’inadeguatezza della Regina e della monarchia non solo a quegli eventi ma anche a quegli stessi tempi.

Ma la relativa prontezza con la quale Elisabetta II reagisce, testimonia, in fin dei conti, la sua qualità come personaggio di potere. Frears è bravo, perché ha l’onestà di ammettere che la sovrana compie uno sforzo notevole per adeguarsi; non è particolarmente indulgente con la regina, sia chiaro, ne con gli altri membri della famiglia. Forse solo il figlio Carlo è visto con le sue debolezze ma anche con la sua attenzione al mondo circostante; marito e madre della regina sono invece solo abbozzati come personalità un po’ insulse, chiuse nel loro mondo fatato.
A Tony Blair viene un po’ ritagliato il ruolo del regista, di colui cioè che è in generale su posizioni critiche nei confronti della regina, ma è comprensivo del suo finale, tardivo o meno che sia, ravvedimento. Stratosferica l’interpretazione di Helen Mirren nei panni di Elisabetta II; in generale bene tutti gli altri, da Michael Seen (Tony Blair), James Cromwell (il principe Filippo), Alexis Jennings (un Carlo in alcuni passaggi uguale al principe di Galles). Insomma, un interessante affresco su personaggi e vicende di grande rilevanza storica. 
        


Helen Mirren




mercoledì 29 novembre 2017

FAUST

46_FAUST. Russia 2011;  Regia di Aleksandr Sokurov

Il regista russo Aleksandr Sokurov ha mostrato, nel 2002 con Arca russa, una padronanza assoluta dei mezzi tecnici cinematografici. Con la trilogia sul potere (Moloch, del 1999 su Hitler, Toro, del 2001 su Lenin, e Il sole, del 2005 sull’imperatore Hiroito) ha ulteriormente dimostrato la sua dimestichezza ad affrontare temi complessi ed elaborati. Il suo Faust suggella definitivamente l’argomento sul potere chiudendo quella che adesso è da considerare una tetralogia. In questo caso, non è però un protagonista storico, sotto la lente deformante del regista russo, ma un personaggio letterario: il Faust di Goethe, che viene pesantemente tradotto dalla personalissima mano dell’autore, per un’opera nel complesso assai originale. Il film ha una forza espressiva spaventosa, e ci rimanda un mondo maleodorante, puzzolente, sporco. Il senso oppressivo è accentuato da un formato 4:3, i cui angoli stondati sottolineano la scelta del regista, e contribuiscono a tenere sempre viva l’attenzione sulla limitazione dello spazio visivo. Non che ci sia molto da guardare in giro, in questo Faust, le cui scene sono compresse in luride e fatiscenti abitazioni, tuguri, sotterranei, vicoli. Non è tanto all’esterno, infatti, che bisogna guardare, ma dentro. D'altronde, il film comincia con una discesa dal cielo fino alle viscere del corpo umano, con una autopsia d’epoca vista nel dettaglio. E’ il dottor Faust (Johannes Zeiler) al lavoro, alla ricerca dell’anima, una ricerca che lo porta a scavare, rovistare, fino a dentro le interiora del corpo umano.
I rimandi visivi sono alla pittura, a Bosch, a Bruegel, quelli letterali a Dante; ma l’ambizioso Sokurov prova a lasciare una sua personale impronta, e ci riesce di sicuro soprattutto nella viscida e malformata figura di Mefistofele (un mostruoso Anton Adasinky che nel film interpreta il ruolo dell’usuraio, evidente alter ego del diavolo). Il flusso di parole concitate, i fitti dialoghi che scivolano nel grottesco, possono scoraggiare, in principio, ma poi irretiscono, complice anche la trama che viene in soccorso con un paio di avvenimenti molto terreni. Il primo è l’omicidio di Valentin da parte di Faust; il secondo è l’innamoramento dello stesso Faust, che perde la testa per la dolcissima Margarete (Isolda Dychauk). Ovviamente Valentin è il fratello di Margaret e questo complicherà le cose; a questo punto Faust si accorda con Mefistofele per suggellare il famoso patto ed avere il cuore della giovane in cambio della propria anima.


Ma il contratto alla fine va in malora, e Faust si trova senza anima e senza amore. Insomma, non solo il nostro bravo studioso non riesce a trovare l’anima vivisezionando i suoi cadaveri, ma scopre, su di sé, che nemmeno esiste: e quello che rimane, è solo carne e desiderio carnale; almeno finché resiste. E se Mefistofele cerca ancora di imbrigliare Faust, anche dopo, così come il dottore capisce rapidamente il meccanismo scientifico alla base del geyser, comprende anche gli inganni spirituali del diavolo, e può liberarsene serenamente, mettendoci, letteralmente sopra una pietra (o meglio più pietre). Non rimane più niente da fare, se non ridere all’ultima chiamata celeste, e andare oltre.    







 Isolda Dychauk











martedì 28 novembre 2017

DUELLO A EL DIABLO

45_DUELLO A EL DIABLO (Duel at Diablo) Stati Uniti 1966;  Regia di Ralph Nelson

Il regista Ralph Nelson si cimenta con il Western e con questo Duello a El Diablo riesce a centrare il difficile obiettivo di girare un film rispettoso del genere, ma al contempo attento alle  nuove tendenze. Se vengono osservati alcuni cliché ritenuti tipici del western (indiani dalla parte sbagliata della battaglia, finale con l'arrivano i nostri risolutivo), Nelson introduce alcuni elementi inconsueti. Non tanto che il protagonista (James Garner, molto bravo) abbia una moglie indiana, questo si è già visto altre volte; una delle novità più interessanti è la nonchalance con cui nel film viene accettato che uno dei protagonisti sia un uomo di colore (Sidney Poitier).  In genere, in casi simili, vi sono riferimenti al passato, per esempio a come l’individuo di colore si sia affrancato da una precedente condizione di schiavitù: in Duello a El Diablo non succede niente di tutto ciò. Toller, il personaggio interpretato da Poitier, è rappresentato con pregi e difetti e non si fa mai sostanzialmente riferimento al suo essere afroamericano. In una contesa come la conquista del west, con le due note culture contrapposte, la presenza di un nero balza subito all’occhio quasi fosse un corpo un po' estraneo. Come balza all’occhio il suo interesse per il denaro ed il benessere (l’ossessione per la vendita dei cavalli, il vestito elegante): come dire che l’integrazione sociale delle etnie di minoranza passi o debba passare dal riscatto economico.
Per gli Apaches questa soluzione sembra lontana, visto che viene ribadito (da Jess/James Garner, lo scout sposato ad una comanche) che le condizioni di vita nella riserva indiana sono insostenibili. La società americana è vista in modo assai negativo, curiosamente peggio negli ambiti civili (il paese, il marito della donna rapita dagli indiani, lo sceriffo) che in quelli militari, ai quali viene riconosciuta una certa nobiltà, seppur vanagloriosa (la folle carica solitaria del tenente). Nonostante questi spunti siano forse poco coerenti tra loro, la pellicola, intensa e coinvolgente, inchioda al suo posto lo spettatore quasi quanto lo sono gli assediati nel drammatico finale.
Il film si chiude nello stesso modo in cui si apre, con uno squarcio sullo schermo, e con un uomo bianco legato a testa in giù. Il che potrebbe farci dedurre che nulla è cambiato, nonostante le vicende viste in mezzo a queste immagini. In realtà, nel finale, vediamo Jess, vedovo della sua squaw, e Ellen, la donna bianca rapita, che se ne vanno a cavallo, con il bimbo che lei ha avuto dal figlio del capo Apache. Infatti, delle due unioni miste, sopravvivono solo l’uomo e la donna bianca, mentre anche il figlio del capo, padre del piccolo, muore, proprio come la squaw moglie di Jess. La coppia rimasta quindi è totalmente bianca, ma il bambino è comunque un meticcio.
In sostanza, nonostante sembra proprio che non ci sia posto per gli indiani nella società bianca, nel futuro qualcosa di loro rimarrà. A patto che l’uomo bianco impari a vedere le cose anche da un punto di vista diverso, magari addirittura opposto o sottosopra. Come forse simbolicamente raffigurano i due uomini legati a testa in giù che si vedono all’inizio e alla fine del film.   




Bibi Andersson




lunedì 27 novembre 2017

FAHRENHEIT 451

44_FAHRENHEIT 451 . Regno Unito 1966;  Regia di François Truffaut

La prima neve d’inverno imbianca una brughiera inglese, accanto ad un fiume che scorre pigramente. Alcuni individui passeggiano apparentemente non troppo preoccupati dal freddo, recitando versi in differenti lingue; l’unico a noi comprensibile dice: ho intenzione di narrare un racconto pieno di orrore. Lo sopprimerei volentieri se non fosse una cronaca. Sappiamo, visto che siamo al finale del film, che a parlare è Montag (Oskar Werner),  che sta leggendo I racconti del mistero e dell’immaginazione di Edgar Allan Poe. E’ quindi questa la chiave di lettura di Fahrenheit 451 di François Truffaut, tratto dall’omonimo romanzo di Ray Bradbury? E’ quindi una storia realistica e attuale, una cronaca appunto, ma piena di orrore, quella che l’autore francese ha necessità di raccontare? Il film è una storia di fantascienza distopica, apparentemente ambientata in un futuro non troppo lontano; è evidente che anche nella matrice letteraria dell’opera vi sia già insita una metafora su quanto accadeva nella società americana del dopoguerra. Truffaut la visualizza nella sua trasposizione con una mirata strategia: ipotizza alcuni elementi futuribili, come lo schermo gigante o i programmi televisivi che coinvolgano, non si sa come, direttamente gli spettatori; ma inserisce anche alcuni dettagli retrò, dagli apparecchi telefonici al veicolo dei vigili del fuoco, mischiandoli ad altri di gusto strettamente contemporaneo, come la casa di Montag, il protagonista dell’opera.

Il risultato è un pastiche poco omogeneo che non lascia intendere se quello che si veda sia un futuro possibile o magari un presente possibile; a darci la definitiva idea che stiamo osservando un presente senza passato, e quindi senza futuro, sarà poi il resto dello sviluppo del lungometraggio. Nella società della storia raccontata, è vietato leggere e possedere libri; quando vengono trovati, i testi, vengono bruciati da una unità operativa dedicata appositamente a questo scopo, ovvero i Vigili del Fuoco. La motivazione di questa messa all’indice della letteratura, è, per farla breve, legata alla volontà di controllo sulla popolazione da parte dell’elite dirigente.

La letteratura, attraverso le opere degli scrittori, frutto delle loro esperienze, custodisce il nostro passato; eliminata la quale, si potrà sostituire questo spazio vuoto con la contemporaneità del flusso delle immagini televisive. La simultaneità della televisione, enfatizzata efficacemente dalla scena in cui Linda (Julie Christie) guarda un programma da casa partecipandovi, è apparentemente solo un dettaglio, ma invece è cruciale. La donna si compiace pensando a cosa diranno le amiche avendola vista in diretta allo show televisivo; non è solo sua, se ne deduce, la partecipazione all’evento mediatico, ma collettiva. In questo senso c’è un riferimento anche agli sport che, proprio per la loro natura, tendono a uniformare il momento di fruizione; a differenza dei libri, che possono invece essere letti con tempi diversi e in tempi diversi.

E allora diventa chiaro che la lotta alla letteratura sia una lotta alla diversità, in luogo di un tentativo di uniformare invece gli individui per poterli meglio controllare. In un mondo così uniformato si perderà così la figura dell’altro: non a caso quando Montag incontra un’altra donna, Clarisse, questa è uguale alla moglie (e infatti è interpretata sempre dalla Christie): in un mondo di uguali, non si possono trovare persone diverse. L’esaltazione narcisistica derivante si nota poi negli atteggiamenti intimi dei vari personaggi, spesso intenti a massaggiarsi ora il viso ora il corpo. Insomma, il film è ricco di significati e rimandi alla nostra società, e vuoi per l’ottima base del soggetto, vuoi per la passione, l’inventiva, il talento di Truffaut, ci sono tantissimi aspetti interessanti.

Tra le trovate geniali e originali, c’è anche quella dei titoli di testa, non scritti ma affidati alla voce di un’annunciatrice televisiva; e si potrebbe continuare. Però, anche parlandone per ore, Fahrenheit 451 non riuscirà a sovvertire la sensazione di film non del tutto riuscito che rimane dopo la visione. I Pinewood Studios non valgono Hollywood, questo è certo, e non serve il film di Truffaut per capirlo; il punto è che Fahrenheit 451 porta con se alcune contraddizioni che non sembrano essere state risolte. Un tema come quello del libro di Bradbury, necessitava forse dei mezzi hollywoodiani; oppure si poteva farne un film d’autore, come in effetti prova a fare il regista francese.
Ma la produzione inglese sembra invece aver alzato la posta, senza, di contro, esserne stata poi all’altezza; e forse al parziale fallimento dell’obiettivo pieno ha contribuito anche l’inesperienza di Truffaut: prima grossa produzione, primo film straniero, prima volta con attori famosi, primo film a colori. Ma con questo non si deve assolutamente bocciare il lungometraggio: ci sono alcune idee addirittura geniali, alcuni passaggi di grande vigore, con influenze hitchcockiane che rivelano tutta l’ammirazione di Truffaut verso il maestro inglese e, nel complesso, un’impostazione dell'opera interessante. Avesse funzionato tutto, sarebbe stato un capolavoro.



Julie Christie





domenica 26 novembre 2017

L'ORCA ASSASSINA

43_L'ORCA ASSASSINA Italia, Stati Uniti 1977;  Regia di Michael Anderson

Seguendo la logica prevedibile di un certo modo di fare cinema, al successo commerciale di Lo squalo non poteva mancare  un tentativo di emulazione che superasse il modello di riferimento, almeno nelle intenzioni. L’orca assassina è esattamente questo tipo di film: lo si capisce già dalla produzione (Dino De Laurentis), ma la visione del film sembra confermare quest’idea. In ogni caso, nel complesso, il regista Michael Anderson, pur non essendo certo Spielberg,  porta a casa il risultato, girando un horror marino che ha qualche spunto di notevole tensione. Le scene degli attacchi del cetaceo (ma ci sono anche quelle di uno squalo, all’inizio) non sono credibilissime, ma sono comunque d’effetto; in uno dei passaggi cruciali, quando è issata sulla barca l’orca femmina, la trama ha un rivolto forse eccessivo (la perdita del piccolo, le grida disperate dell’orca/padre) e il rischio di superare quel limite che fa cadere nel trash, è pericolosamente vicino. Del resto tutta la vicenda con l’umanizzazione esagerata dell’orca padre che si erge a vendicatore in grado di studiare complesse strategie, mette un po’ a repentaglio la pur eventuale volenterosa sospensione dell’incredulità anche del più ben disposto spettatore. E dire che nel film c’è un dialogo che esprime in maniera corretta il modo di relazionarsi al mondo animale: il capitano Nolan chiede al sacerdote che ha appena ufficiato un funerale se si può peccare contro un animale; il prete risponde che si può commettere un peccato anche contro un filo d’erba, ma che in realtà si pecca sempre contro se stessi. Un passaggio molto interessante, poi disatteso dallo sviluppo della pellicola in favore della ricerca di una maggiore spettacolarità.
Comunque, come si è detto, L’orca assassina è un film godibile, e che mette una certa dose di paura. Purtroppo come molte produzioni italiane (o parzialmente italiane) presenta qualche superficialità di troppo: ad esempio, per quale motivo, solo ad un certo punto, viene introdotta la voce narrante fuori campo? Se il film è raccontato da una voce in supporto alle immagini, occorre che lo sia sempre (o almeno all’inizio e alla fine); diversamente, che la cosa abbia una sua logica, e non che sia un mero stratagemma per semplificare qualche passaggio che gli sceneggiatori non riescono a mettere in scena. Benissimo invece il cast, con Richard Harris nel ruolo del protagonista, il capitano Nolan, e soprattutto con una elegantissima e affascinantissima Charlotte Rampling nel ruolo di Rachel Bedford, una studiosa esperta di orche; da segnalare anche Will Sampson nei panni di Umilak e la bellissima Bo Derek in quelli di Anne, a cui, ahinoi, l’orca stacca con un morso una delle splendide gambe.    




Charlotte Rampling






Bo Derek