269_GERONIMO (Geronimo: an american legend); Stati Uniti, 1993; Regia di Walter Hill.
Tredici anni dopo I
cavalieri dalle lunghe ombre, Walter Hill torna a dirigere un western e,
unitamente all’attesa per il film del validissimo regista, ci assale un pizzico
di timore. Se, nella sua precedente incursione nel genere, l’autore americano
aveva spogliato di ogni riflesso epico la figura del celebre bandito Jesse
James, con il suo nuovo lungometraggio posta l’obiettivo della sua macchina da
presa su un’altra leggenda del west: Geronimo, l’irriducibile capo Apache. E il
titolo originale, Geronimo: an american
legend, non lascia molti dubbi: sarà ancora una volta la riduzione (termine azzeccatissimo) in
film di un mito della frontiera e, trattandosi di un film di Walter Hill, non
aspettiamoci sconti. Innanzitutto possiamo notare che Hill si conferma nel ruolo di guastatore della festa: The long riders arrivava come voce un po' fuori dal coro alla fine di un decennio, i settanta, che esaltava le imprese di banditi ed antieroi; Geronimo esce nel 1993, dopo che Balla coi lupi di Kevin Costner, nel 1990, ha riconosciuto, in
forma più che mai esplicita, le ragioni dei nativi. Solo due anni dopo, sul
manifesto de L’ultimo dei Mohicani,
grande film Michael Mann, Daniel Day-Lewis, vestito come un indiano, sembrava
confermare che fosse ormai di dominio pubblico una rilettura filo-pellerossa della
conquista del west. Ma, se vi potesse sembrare quindi il momento adatto per
fare un film su Cavallo Pazzo (e pare che in effetti un’idea Hill ce la fece),
su Toro Seduto o anche su Capo Giuseppe, personaggi davvero eroici, alla
stregua di autentici martiri della causa indiana, è perché non siete Walter
Hill.
Perché, nel periodo di maggior enfasi rivolta alla questione dei nativi
americani, per cavalcare
(ironicamente, ovvio) l’onda favorevole, l’arguto regista va invece a pescare
proprio Geronimo, che era il capo peggiore
tra gli indiani peggiori, gli Apache.
E quei termini peggiori vanno intesi nel
senso di ipotizzare una pacifica convivenza tra uomini bianchi e rossi, non
tanto a livello morale: per quanto gli Apache vivevano di scorrerie, di furti e nemmeno tra le varie tribù dei paraggi erano visti di buon occhio. Comunque,
ad interpretare l’indomito guerriero viene chiamato proprio quel Wes Studi che
nei citati film sugli indiani dei primi anni 90 (Balla coi lupi e L’ultimo dei
Mohicani) faceva la parte del cattivo; un ulteriore indizio che il regista
non ha intenzione di edulcorare la realtà.
Il tentativo di fornire un’analisi
lucida e non troppo romanzata, è supportato anche dal soggetto, ispirato al
libro La verità su Geronimo di
Britton Davis, ufficiale nel film interpretato da Matt Damon e che funge quindi
anche da voce narrante, conferendo un ulteriore aspetto storico all’opera. Il soggetto è preparato da John Milius che
esalta il lato predatorio del capo indiano, lo dipinge come un vero combattente,
un autentico guerriero; sembra anche che Milius volesse un punto di vista
indiano a raccontare la vicenda, ma la produzione optò per una scelta che
riprendeva la formula che aveva portato fortuna a Balla coi Lupi, con la voce narrante di un inesperto (e quindi
neutra, vergine) ufficiale dell’esercito americano.
A reimpostare la giusta prospettiva, almeno quella voluta
dalla coppia di autori, ci pensa il regista, Hill, che immerge il suo film in
una dominante rossa, in parte dovuta
alla natura del paesaggio, ma spessissimo con l’uso di filtri fotografici
smaccatamente evidenti. Il personaggio principale, tra i bianchi, è il tenente
Gatewood, la cui lealtà è affidata al volto sincero di Jason Patric; nel film
ci sono anche Gene Hackman, nei panni del Generale Crook e Robert Duwall in
quelli di Al Sieber, capo degli scout. I due interpreti rappresentano bene
l’America del tempo: gente dura, pratica; anche giusta, ma solo fino ad una
logica pragmatica.
Contro un simile avversario, razionale, organizzato, più
forte, più numeroso, anche gli indomiti Apache di Geronimo si devono arrendere.
Il capo indiano è dipinto con uno sguardo forse parzialmente benevolo, nella
sua ricerca di amicizia verso Gatewood, ma nel complesso la forza selvaggia e
ribelle è resa in modo che sembra credibile. Non era uno stinco di santo
Goyatlay, questo il vero nome del condottiero Chiricahua, ma nemmeno un volgare
predone; perlomeno il ruolo con cui è passato alla Storia non fu quello. Se la resa a fronte
di un nemico più potente e spietato è vista, nel finale, con rassegnazione e
fatalismo da Geronimo, e dallo stesso Hill, l’aspetto più triste della
questione è che non saranno i leali Gatewood o Davis a raccogliere le armi
deposte dal nemico sconfitto. Ma nemmeno saranno Crook e Sieber, validi
combattenti, corretti almeno fino a che la logica della guerra consente.
No,
Geronimo si arrende al Generale Nelson Miles (Kevin Thiege) un ottuso burocrate
dell’esercito: la vittoria finale arride a gente senza valore.
E questa è la vera sconfitta raccontata in Geronimo: la forza, anche brutale, ma
che in una terra selvaggia ne costituiva anche il valore, di un uomo, di un
capo, degno rappresentante del suo popolo, piegata solo dalle false promesse e
dall’inganno di gente senza onore come Miles.
Nessuna epica quindi, in questa vicenda, ma solo una storia
dal finale triste, grigio; e tocca a Hill metterci un po’ di colore con le
sue enfatiche immagini.
Che almeno al cinema, Geronimo sia leggenda.
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