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venerdì 21 dicembre 2018

GERONIMO

269_GERONIMO (Geronimo: an american legend)Stati Uniti, 1993;  Regia di Walter Hill.

Tredici anni dopo I cavalieri dalle lunghe ombre, Walter Hill torna a dirigere un western e, unitamente all’attesa per il film del validissimo regista, ci assale un pizzico di timore. Se, nella sua precedente incursione nel genere, l’autore americano aveva spogliato di ogni riflesso epico la figura del celebre bandito Jesse James, con il suo nuovo lungometraggio posta l’obiettivo della sua macchina da presa su un’altra leggenda del west: Geronimo, l’irriducibile capo Apache. E il titolo originale, Geronimo: an american legend, non lascia molti dubbi: sarà ancora una volta la riduzione (termine azzeccatissimo) in film di un mito della frontiera e, trattandosi di un film di Walter Hill, non aspettiamoci sconti. Innanzitutto possiamo notare che Hill si conferma nel ruolo di guastatore della festaThe long riders arrivava come voce un po' fuori dal coro alla fine di un decennio, i settanta, che esaltava le imprese di banditi ed antieroi; Geronimo esce nel 1993, dopo che Balla coi lupi di Kevin Costner, nel 1990, ha riconosciuto, in forma più che mai esplicita, le ragioni dei nativi. Solo due anni dopo, sul manifesto de L’ultimo dei Mohicani, grande film Michael Mann, Daniel Day-Lewis, vestito come un indiano, sembrava confermare che fosse ormai di dominio pubblico una rilettura filo-pellerossa della conquista del west. Ma, se vi potesse sembrare quindi il momento adatto per fare un film su Cavallo Pazzo (e pare che in effetti un’idea Hill ce la fece), su Toro Seduto o anche su Capo Giuseppe, personaggi davvero eroici, alla stregua di autentici martiri della causa indiana, è perché non siete Walter Hill. 
Perché, nel periodo di maggior enfasi rivolta alla questione dei nativi americani, per cavalcare (ironicamente, ovvio) l’onda favorevole, l’arguto regista va invece a pescare proprio Geronimo, che era il capo peggiore tra gli indiani peggiori, gli Apache. E quei termini peggiori vanno intesi nel senso di ipotizzare una pacifica convivenza tra uomini bianchi e rossi, non tanto a livello morale: per quanto gli Apache vivevano di scorrerie, di furti e nemmeno tra le varie tribù dei paraggi erano visti di buon occhio. Comunque, ad interpretare l’indomito guerriero viene chiamato proprio quel Wes Studi che nei citati film sugli indiani dei primi anni 90 (Balla coi lupi e L’ultimo dei Mohicani) faceva la parte del cattivo; un ulteriore indizio che il regista non ha intenzione di edulcorare la realtà. 
Il tentativo di fornire un’analisi lucida e non troppo romanzata, è supportato anche dal soggetto, ispirato al libro La verità su Geronimo di Britton Davis, ufficiale nel film interpretato da Matt Damon e che funge quindi anche da voce narrante, conferendo un ulteriore aspetto storico all’opera. Il soggetto è preparato da John Milius che esalta il lato predatorio del capo indiano, lo dipinge come un vero combattente, un autentico guerriero; sembra anche che Milius volesse un punto di vista indiano a raccontare la vicenda, ma la produzione optò per una scelta che riprendeva la formula che aveva portato fortuna a Balla coi Lupi, con la voce narrante di un inesperto (e quindi neutra, vergine) ufficiale dell’esercito americano. 
A reimpostare la giusta prospettiva, almeno quella voluta dalla coppia di autori, ci pensa il regista, Hill, che immerge il suo film in una dominante rossa, in parte dovuta alla natura del paesaggio, ma spessissimo con l’uso di filtri fotografici smaccatamente evidenti. Il personaggio principale, tra i bianchi, è il tenente Gatewood, la cui lealtà è affidata al volto sincero di Jason Patric; nel film ci sono anche Gene Hackman, nei panni del Generale Crook e Robert Duwall in quelli di Al Sieber, capo degli scout. I due interpreti rappresentano bene l’America del tempo: gente dura, pratica; anche giusta, ma solo fino ad una logica pragmatica. 

Contro un simile avversario, razionale, organizzato, più forte, più numeroso, anche gli indomiti Apache di Geronimo si devono arrendere. Il capo indiano è dipinto con uno sguardo forse parzialmente benevolo, nella sua ricerca di amicizia verso Gatewood, ma nel complesso la forza selvaggia e ribelle è resa in modo che sembra credibile. Non era uno stinco di santo Goyatlay, questo il vero nome del condottiero Chiricahua, ma nemmeno un volgare predone; perlomeno il ruolo con cui è passato alla Storia non fu quello. Se la resa a fronte di un nemico più potente e spietato è vista, nel finale, con rassegnazione e fatalismo da Geronimo, e dallo stesso Hill, l’aspetto più triste della questione è che non saranno i leali Gatewood o Davis a raccogliere le armi deposte dal nemico sconfitto. Ma nemmeno saranno Crook e Sieber, validi combattenti, corretti almeno fino a che la logica della guerra consente.

No, Geronimo si arrende al Generale Nelson Miles (Kevin Thiege) un ottuso burocrate dell’esercito: la vittoria finale arride a gente senza valore.
E questa è la vera sconfitta raccontata in Geronimo: la forza, anche brutale, ma che in una terra selvaggia ne costituiva anche il valore, di un uomo, di un capo, degno rappresentante del suo popolo, piegata solo dalle false promesse e dall’inganno di gente senza onore come Miles.
Nessuna epica quindi, in questa vicenda, ma solo una storia dal finale triste, grigio; e tocca a Hill metterci un po’ di colore con le sue enfatiche immagini.
Che almeno al cinema, Geronimo sia leggenda. 





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