276_MUNICH; Stati Uniti, 2005; Regia di Steven Spielberg.
Munich, il nome della città
bavarese, appare nitidamente in mezzo allo schermo pieno di nomi di altre città che, al contrario, si sdoppiano visibilmente più sbiadite. Questa è la prima
immagine di Munich, il film del
regista Steven Spielberg sui drammatici eventi delle Olimpiadi del 1972. Non
quindi un riferimento all'evento, che prevederebbe almeno l'indicazione della
data (Monaco '72, ad esempio, non
lascerebbe alcun dubbio), ma semplicemente un nome di una città più focalizzato
rispetto ad altri nomi meno in evidenza. Una messa a fuoco tra le tante
possibili, sembra dirci Spielberg.
Anche la seconda didascalia ci da', forse, indicazioni in
quella direzione: ispirato a fatti reali.
E' una frase che appare convenzionale, per i film con alla base un riferimento
storico, è vero. Ma la formula usata, "ispirato
a", potrebbe servire a smarcare ulteriormente il regista da qualsiasi
pretesa di obiettività, anche rispetto alla abituale licenza poetica concessa
di prassi per i film pur aventi una matrice storica. Le immagini che seguono a questi primi
fotogrammi sono l'espressione visiva di queste indicazioni: sono immagini che rimbalzano riportando le notizie degli avvenimenti su una moltitudine di
schermi, per lo più televisivi ma non solo (ad esempio su specchi, finestre, targhe di ottone
lucido) corollate da una altrettanto nutrita moltitudine di idiomi. Tra questo
vociare si diffondono notizie false e notizie vere, smentite e commenti di
parte; gli spettatori seguono lo sviluppo degli eventi come ad una partita, facendo
il tifo, esultando o disperandosi. La potenza di fuoco dell'informazione sembra
amplificare il concetto paradossale per cui le lingue non sarebbero fatte per
comunicare ma per evitare di farsi
capire, perlomeno da chi non conosce il linguaggio giusto.
Anche le location smentiscono il titolo, visto che la storia è ambientata in molte città (Roma, Parigi, Londra e altre, oltre che a Monaco),
a ribadire che il film ci racconta qualcosa di parziale, di parte, a cominciare già dal titolo.
Il tema narrativo del film è la vendetta israeliana ai fatti di Monaco,
dove terroristi palestinesi uccisero 11 atleti di Israele. Sappiamo che
Spielberg è americano ma di origine ebraica, e sappiamo anche che è contrario
alla violenza. In questo senso, questa pellicola sembra un atto dovuto del regista che con Schindler's
List aveva splendidamente messo sullo schermo l'orrore dell'Olocausto: la
violenza è sbagliata, chiunque la eserciti.
E la violenza della guerra, anche
quella al terrorismo, è un orrore così grande, che chi la accetta, anche
controvoglia, anche pensando sia inevitabile, finirà per perdere la ragione;
proprio come Avner, il protagonista (il bravo Eric Bana) che nel finale appare
molto più che disorientato. Il frutto della guerra non è mai la pace: la
spirale verso l'abisso del protagonista è illustrata metaforicamente dalla
traccia culinaria, presente in tutto il corso del film. Dalle tavolate di inizio
vicenda, con tutti i protagonisti alla mensa imbastita da Avner, dal banchetto
alla residenza di Papa, un
inquietante individuo dall'aspetto luciferino a capo della società di
informazioni con cui i nostri hanno stipulato una sorta di classico patto col diavolo, le occasioni di
pranzare, di condividere il cibo, si fanno sempre più spoglie di commensali.
Fino al rifiuto da parte di Ephraim, membro del Mossad, che risponde ad Avner
con un lapidario "no"
all'invito a cena; un no la cui
valenza si può forse estendere anche alle speranze di pace simbolicamente
implicite allo spezzare del pane della tradizione ebraica. Ed è un no anche per chi pensa che Spielberg sia
un regista sempre e fin troppo ottimista. Ottimista probabilmente si; ma non in modo ottuso.
Marie-Josée Croze
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