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venerdì 28 dicembre 2018

MUNICH

276_MUNICHStati Uniti, 2005;  Regia di Steven Spielberg.

Munich, il nome della città bavarese, appare nitidamente in mezzo allo schermo pieno di nomi di altre città che, al contrario, si sdoppiano visibilmente più sbiadite. Questa è la prima immagine di Munich, il film del regista Steven Spielberg sui drammatici eventi delle Olimpiadi del 1972. Non quindi un riferimento all'evento, che prevederebbe almeno l'indicazione della data (Monaco '72, ad esempio, non lascerebbe alcun dubbio), ma semplicemente un nome di una città più focalizzato rispetto ad altri nomi meno in evidenza. Una messa a fuoco tra le tante possibili, sembra dirci Spielberg.
Anche la seconda didascalia ci da', forse, indicazioni in quella direzione: ispirato a fatti reali. E' una frase che appare convenzionale, per i film con alla base un riferimento storico, è vero. Ma la formula usata, "ispirato a", potrebbe servire a smarcare ulteriormente il regista da qualsiasi pretesa di obiettività, anche rispetto alla abituale licenza poetica concessa di prassi per i film pur aventi una matrice storica. Le immagini che seguono a questi primi fotogrammi sono l'espressione visiva di queste indicazioni: sono immagini che rimbalzano riportando le notizie degli avvenimenti su una moltitudine di schermi, per lo più televisivi ma non solo (ad esempio su specchi, finestre, targhe di ottone lucido) corollate da una altrettanto nutrita moltitudine di idiomi. Tra questo vociare si diffondono notizie false e notizie vere, smentite e commenti di parte; gli spettatori seguono lo sviluppo degli eventi come ad una partita, facendo il tifo, esultando o disperandosi. La potenza di fuoco dell'informazione sembra amplificare il concetto paradossale per cui le lingue non sarebbero fatte per comunicare ma  per evitare di farsi capire, perlomeno da chi non conosce il linguaggio giusto. 
Anche le location smentiscono il titolo, visto che la storia è ambientata in molte città (Roma, Parigi, Londra e altre, oltre che a Monaco), a ribadire che il film ci racconta qualcosa di parziale, di parte, a cominciare già dal titolo.  Il tema narrativo del film è la vendetta israeliana ai fatti di Monaco, dove terroristi palestinesi uccisero 11 atleti di Israele. Sappiamo che Spielberg è americano ma di origine ebraica, e sappiamo anche che è contrario alla violenza. In questo senso, questa pellicola sembra un atto dovuto del regista che con Schindler's List aveva splendidamente messo sullo schermo l'orrore dell'Olocausto: la violenza è sbagliata, chiunque la eserciti. 
E la violenza della guerra, anche quella al terrorismo, è un orrore così grande, che chi la accetta, anche controvoglia, anche pensando sia inevitabile, finirà per perdere la ragione; proprio come Avner, il protagonista (il bravo Eric Bana) che nel finale appare molto più che disorientato. Il frutto della guerra non è mai la pace: la spirale verso l'abisso del protagonista è illustrata metaforicamente dalla traccia culinaria, presente in tutto il corso del film. Dalle tavolate di inizio vicenda, con tutti i protagonisti alla mensa imbastita da Avner, dal banchetto alla residenza di Papa, un inquietante individuo dall'aspetto luciferino a capo della società di informazioni con cui i nostri hanno stipulato una sorta di classico patto col diavolo, le occasioni di pranzare, di condividere il cibo, si fanno sempre più spoglie di commensali. Fino al rifiuto da parte di Ephraim, membro del Mossad, che risponde ad Avner con un lapidario "no" all'invito a cena; un no la cui valenza si può forse estendere anche alle speranze di pace simbolicamente implicite allo spezzare del pane della tradizione ebraica. Ed è un no anche per chi pensa che Spielberg sia un regista sempre e fin troppo ottimista. Ottimista probabilmente si; ma non in modo ottuso.



Marie-Josée Croze



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