Translate

domenica 31 ottobre 2021

HALLOWEEN - LA NOTTE DELLE STREGHE

919_HALLOWEEN - LA NOTTE DELLE STREGHE (Halloween); Stati Uniti, 1978; Regia di John Carpenter.

E’ sempre cosa saggia fidarsi fino ad un certo punto delle dichiarazioni dei registri a proposito dei propri film, per svariati motivi tra cui anche la semplice modestia; ma, nel caso di John Carpenter e di Halloween – La notte delle streghe abbiamo più di qualche elemento che ci dice che le dichiarazioni dell’autore siano corrispondenti al vero. Ad un’intervista con Giulia D’Agnolo e Roberto Turigliatto (Conversazione con John Carpenter, dal volume John Carpenter, 1999 Lindau) Carpenter ammette candidamente che Halloween – La notte delle streghe assunse presto, presso il pubblico più attento e gli addetti ai lavori, significati di cui neppure lui era a conoscenza. Non aveva manco idea di cosa stesse parlando, stando alle parole dello stesso cineasta americano, quella gente quando gli chiedeva approfondimenti convinta che lui avesse tutte le risposte. E qui si potrebbe legittimamente pensare che il buon John cercasse di schernirsi per una sorta di pudore autoriale, forma artistica della modestia, ma dallo stesso libro arrivano anche le parole di Debra Hill (“Cosa credi che ci sia in quella nebbia?” altra intervista di capitale importanza contenuta nel notevole tomo). La preziosa collaboratrice (co-soggetto, co-sceneggiatura, produzione) a proposito di Halloween – La notte delle streghe dichiara lapidaria: “Eravamo ragazzi. Per noi era come un home movie.” E poi, cosa ben più concreta delle semplici parole, c’è anche il film in questione. Il fatto è che l’horror del periodo, dalla fine degli anni settanta del XX secolo e per tutti gli ottanta, assunse spesso una connotazione politica impegnata, di cui Carpenter stesso divenne un dichiarato portabandiera (basti vedere il suo Essi vivono, 1988). 

Per cui, in genere a posteriori, in Halloween – La notte delle streghe sono stati trovati, quando non del tutto affibbiati in modo un po’ posticcio, significati che, appunto, erano sfuggiti persino agli autori. Il che potrebbe anche succedere, sia chiaro, visto che spesso l’artista è un catalizzatore di sensazioni, impressioni, che poi concretizza più o meno consapevolmente nella sua arte. Carpenter, però, è un autore molto cerebrale, scientifico, e Halloween – La notte delle streghe è un distillato della sua consapevole scienza artistica. Innanzitutto, perché uno degli aspetti più importanti nella riuscita del film è prettamente tecnico e legato alle capacità specifiche dell’autore, alla sua conoscenza delle lenti degli obiettivi da usare per questo o quell’effetto, all’uso della Panaglide, una innovativa steadycam, alla sua superiore concezione del montaggio e della composizione dell’immagine. Carpenter utilizza le sue superbe competenze, perfino la sua capacità di compositore musicale con un motivo che resterà negli annali del cinema horror e terrorizza fin dai titoli di testa, per inquadrare in modo adeguato il suo film. Dopo l’agghiacciante incipit, che vede all’opera il bambino di sei anni Michael Myers (qui interpretato da Will Sandin) far fuori la sorella maggiore nel 1963, la vicenda vera e propria è ambientata nella stessa fittizia cittadina di Haddonfield, un tranquillo paesino dell’Illinois, ma ai tempi contemporanei dell’uscita del film nelle sale, quindici anni dopo la tragedia mostrata. 

La trama è arcinota e nemmeno troppo originale: Myers, fino all’ora rinchiuso in un istituto per cure psichiatriche, fugge per tornare al paese natale in quella stessa notte di Hallowen in cui aveva compiuto il misfatto. Il lungometraggio dura quasi un’ora e mezza: in questo lungo lasso di tempo, Myers uccide cinque persone (contando anche la sorella nella sequenza introduttiva) tra cui un uomo, un giovane e le due ragazze amiche della protagonista Laurie (Jamie Lee Curtis, fantastica). Questo per dire che, per un film che ha fatto epoca e segnato per sempre il genere slasher, e di cui è considerato uno dei capostipiti, non è che ci sia poi tutto questo movimento. Eppure ogni singola inquadratura di Halloween – La notte delle streghe trasuda tensione emotiva grazie al costante e puntuale lavoro della regia. 

Cominciando, come detto, dai titoli di testa: scritte semplici affiancate da una Jack-O’-lantern, la lanterna ricavata dalla zucca simbolo stesso di Halloween, che, accompagnata dal terrificante motivo della colonna sonora scritto dallo stesso Carpenter, si avvicina progressivamente, condensando la sensazione di incombente minaccia. A completare le coordinate narrative, il citato incipit in cui assistiamo, in soggettiva, al primo delitto di Michael: la scena è ben girata ma raggiunge l’apice assoluto quando la ripresa esce dalla soggettiva per rivelare che l’omicida è un bambino di sei anni. L’attonito atteggiamento dei suoi genitori nel vederlo con un coltellaccio grondante di sangue, sopraggiungendo solo allora e non potendo sapere cosa ha combinato il figlioletto, incarna perfettamente la sensazione dello spettatore che si trova totalmente (come direbbe una delle ragazze uccise nel film) spiazzato da un simile colpo di scena. A questo punto, comincia il lavoro di Carpenter sull’ambientazione angosciante in quel di Haddonfield, inframezzato, giusto per alimentare la tensione anche da un punto di vista narrativo, dalla fuga di Myers (Nick Castle) dall’istituto o dai dialoghi in cui il dottor Sam Loomis (Donald Pleasense) cerca di convincere lo sceriffo del paese (Charles Chypres) sulla pericolosità della situazione. Ma sono elementi marginali. 


La tensione crescente in Halloween – La notte delle streghe è data da semplici inquadrature che vedono la cittadina costantemente deserta sullo sfondo dei movimenti delle tre ragazze o dei bambinetti della cittadina. Nella situazione creatasi, i puerili scherzi dei ragazzi per l’arrivo della notte delle streghe della tradizione americana contribuiscono efficacemente a creare disagio. Due giovani ragazze conversano camminando in una cittadina deserta, gli enormi spazi vuoti, la strada ampia, i giardini delle case senza che si veda mai nessuno e poi gli ambienti celati dietro una siepe ed ecco un’auto, una singola auto parcheggiata lungo la via… e ancora, gli alberi dalle forme inquietanti, con rami che somigliano a braccia pronte a ghermirti, insomma, Carpenter costruisce qui il suo film dell’orrore. Proprio gli alberi del film possono essere una curiosa chiave di lettura dell’opera: Debra Hill, sempre nell’intervista citata, racconta di come la storia sia stata ambientata volutamente nel Midwest nonostante lo scarso budget a disposizione per girare il film costrinse la troupe a rimanere in California. A sentire le parole di Debra il problema principale fu tener fuori le palme dalle inquadrature ma, in compenso, Carpenter utilizzò in modo sontuoso le piante che poté lasciare sullo schermo per alimentare la tensione grazie alle forme dei rami. 


Uno stratagemma, quello degli alberi che incutono timore con la loro incombenza, che è roba da bambini, si pensi al bosco delle fiabe o anche ai film di animazione della Disney. Ma è proprio qui il punto: oggi, il concetto stesso di Halloween può far paura ma proprio grazie alla saga cominciata col film di Carpenter. Perché nel 1978 era esattamente roba per bambini, tant’è che i ragazzini giravano in piccoli gruppetti, senza adulti che li accompagnassero, per la celebre prassi del dolcetto o scherzetto (trick or treat, in inglese). E la decisione di ambientare il film nell’Illinois, nel pacifico Midwest, andava proprio in questa direzione: Los Angeles e la California erano, negli anni settanta, già un posto turbolento (in proposito la Hill cita gli hippy, quelli della contestazione al sistema, e Manson) mentre gli autori volevano un ambiente tranquillo per la loro vicenda. Insomma, Carpenter crea uno spazio vuoto per dirci che, nonostante ci possa anche non essere alcuna premessa che lo faccia presagire, il Male incombe comunque. 

Spesso si è letto che l’assassino uccida le ragazze che fanno sesso mentre a salvarsi è Laurie, l’unica casta del gruppo, e la cosa è stata interpretata come una condanna alla deriva che dopo la rivoluzione sessantottina aveva intaccato i principi morali in materia. Analogamente si potrebbe osservare come Laurie è l’unica delle tre ragazze a fare coscienziosamente il proprio compito di baby sitter; Annie (Nancy Kyes) non esista ad abbandonare la ragazzina affidatale pur di andare a spassarsela e Lynda (P. J. Soles) non si fa problemi ad occupare col suo ragazzo il letto altrui, entrando di soppiatto in casa di estranei per farci i propri comodi. Ma sono gli unici elementi che abbiamo: Myers uccide cinque persone, quattro delle quali coinvolte in attività sessuali (per la verità Annie è sola in macchina, ma possiamo concedere che si punisca l’intenzione). 

Una buona statistica, ma nemmeno così solida in quest’ottica. Perché, forse, si potrebbe intendere la licenziosità del comportamento dei giovani di Haddonfield come specchio della tranquillità e del benessere della comunità. Una comunità nella quale i ragazzi potevano spassarsela mentre davano un occhio distratto ai bambini, intenti a godersi la serata guardando la Tv, con gli adulti fuori casa a divertirsi a loro volta. Quella che Carpenter tratteggia, in sostanza, è la comunità perfetta, dove non esistono minacce e tutti quanti possono vivere serenamente. Del resto c’è in questo senso anche l’osservazione di Laurie, quando sospetta che lo sceriffo padre di Annie non possa non aver avvertito l’odore dello spinello che lei e l’amica stanno fumando; eppure il tutore della legge non dice nulla. In quella scena, tra l’altro, è in atto un furto, in quel preciso momento sta suonando la campana dell’allarme di un negozio, e lui si ferma beatamente a parlare con la figlia che passa di lì in auto; questo per dare il quadro della situazione raccontata dal film. Anche quei minimi problemi che c’erano non destavano alcuna preoccupazione: il modo migliore per dire che non c’erano problemi. Forse, come lo stesso genere slasher prenderà poi d’abitudine, le vittime davvero pagano la condotta discinta ma, in Halloween – La notte delle streghe sembrano essere semplici coincidenze. 

La stessa maggior moralità, mettiamola così, di Laurie serve per far immedesimare lo spettatore, visto che i personaggi più complessi assolvono meglio a questo compito. Nessuno tende naturalmente ad identificarsi in una ragazza frivola e questa potrebbe essere la semplice risposta alla differente natura di quella che si salva rispetto alle amiche che vengono invece uccise dal mostro. Quello che si percepisce, anche dalle vaghe spiegazioni fornite dal dottor Loomis, è che non c’è una motivazione o una causa scatenante per la follia omicida che muove Myers: il Male non ha bisogno di pretesti. Questo aspetto è il vero punto cruciale dell’opera di Carpenter ed è un fatto forse insospettabile, soprattutto perché l’autore è stato in seguito preso come modello per una certa critica rivoluzionaria che, come accennato, ne ha fatto addirittura uno dei suoi portabandiera. L’intellighenzia che furoreggiò dalla rivoluzione sessantottina in poi anche nella critica cinematografica, riteneva che il male avesse sempre una ragione sociale, cercando così, se accettiamo l’ipotesi della buona fede di queste opinioni, di perorare la causa delle classi meno abbienti. Naturalmente era un punto di vista, non certo totalmente infondato, che aveva le sue radici molto più indietro nel tempo ma arrivò ad una sorta di aberrazione con la contestazione al sistema borghese. Specchio di questo modo a quel tempo già dominante di pensare è, tornando al film di Carpenter, l’infermiera che dialoga con il dottor Loomis e che lo invita a chiamare Myers con il rispettoso appellativo di paziente, mentre testimonia l’emancipazione femminile dell’epoca fumando ostentatamente una sigaretta. 

Accettare l’idea di male in senso astratto e assoluto in sé, voleva dire, per quell’élite culturale, depotenziare la critica ad un Sistema che prevedeva la disuguaglianza sociale. Un intento politicamente nobile ma che deresponsabilizzava pericolosamente l’individuo, e che aveva un che di paternalistico che artisti come Carpenter faticavano ad accettare. Per capire quanto fosse radicato questo modo di concepire il problema si può prendere, ad esempio, la valutazione che il critico Paolo Mereghetti storicamente ha dato a L’esorcista, film epocale del 1973. Pur essendo un evidente capolavoro, quella di William Friedkin è un’opera non inquadrabile nel classico schema dove il male derivi dai problemi sociali e quindi venne bollato in genere come reazionario (al contrario di altre opere, come La notte dei Morti Viventi, 1968 di George A. Romero, caposaldo dell’horror rivoluzionario). 

Il Dizionario dei Film del citato Mereghetti ha valutato almeno fino al 2011 (!!) con due misere stellette il film di Friedkin definendolo “sopravvalutato”; solo recentemente ha rivisto il suo giudizio con un più consono quattro stelle. Questo per dire quanto fosse inopportuna l’idea, all’epoca ma anche molto successivamente, che il male non potesse essere ascritto ad una qualche ragione che lo ingabbiasse, lo inquadrasse e lo mettesse di conseguenza in modo conformistico al di fuori del nostro campo di azione. In fondo, se il male era solo il frutto di cattiva educazione, della miseria sociale, della povertà, bastava essere al di fuori da quel perimetro per sentirsi già salvi. Per questo Carpenter ambienta Halloween – La notte delle streghe in quella sorta di my own private Illinois che è a prima vista Haddonfield. Non hanno colpe i genitori che lasciano soli i loro figli più piccoli nelle mani degli esuberanti adolescenti che, giustamente e anch’essi senza alcun rimprovero da subire, cercavano solo di divertirsi in quella che, in sostanza, era appunto una notte di festa. Il male esiste e il problema non è chi pensa a divertirsi ma, piuttosto, chi si ostina opportunisticamente a negarlo.




Jamie Lee Curtis




P.J. Soles


Nancy Kyes

venerdì 29 ottobre 2021

CRUDELIA

918_CRUDELIA (Cruella); Stati Uniti, 2021; Regia di Craig Gillespie.

Ad un certo punto, Artie (John McCrea) pone il quesito cruciale a Crudelia (Emma Stone): davvero ha ucciso i cuccioli di dalmata per farci una pelliccia? Crudelia (o Cruella, come viene chiamata anche nei dialoghi della versione italiana del film) lo nega sottovoce, quasi che non averlo fatto fosse un’azione deplorevole: non è vero, non ha ucciso i cuccioli, si tratta solo di una mossa propagandistica facente parte della sua guerra contro la Baronessa von Hellman (Emma Thomson). Questo passaggio, minimizzato dallo stesso personaggio protagonista, è ben poca cosa rispetto ai 134 minuti del film di Craig Gillespie che, dopo aver carburato un po’ in partenza, filano via come la splendida Panther De Ville di Crudelia. Gillespie conosce il tema e non lesina riferimenti e citazioni che riprendono sia, come prevedibile, i casi specifici (ovvero, il classico d’animazione La carica dei centouno del 1961, il romanzo alla base La carica dei 101 del 1956 e il live action del 1996 La carica dei 101- Questa volta la magia è vera) sia attingendo all’immaginario visivo di registi come Tim Burton o Robert Zemekis. Il cineasta australiano, con il precedente e notevole Tonya (2017), ha già poi dimostrato di saper tratteggiare sontuosamente un certo tipo di protagonista femminile, un po’ fuori registro eppure in modo diverso dal solito. Crudelia, analogamente alla pattinatrice interpretata da Margot Robbie, vorrebbe anche essere una bella e brava ragazza, solo che quei panni le vanno stretti. Ma non per questo intende rinverdire i fasti delle femministe che negavano la loro femminilità anzi, al contrario. 

Insomma, c’è un mix di forze che spingono in direzioni opposte, simbolicamente esplicitate dal bianco e nero dei capelli di Crudelia, che non necessariamente troveranno l’equilibrio in modo, diciamo così, tranquillo e sereno. Una volta dettate le coordinate narrative, nella primissima fase, poi la sceneggiatura parte a cannone e la vicenda si snoda trascinandoci sotto il martellante commento musicale di una colonna sonora che pesca moltissimo nel pop rock degli anni in cui, grosso modo, la vicenda è ambientata. Insomma, formalmente, il film di Craig Gillespie è un vero spasso. Eppure, se anche può essere divertente ricercare questo o quel riferimento a questo o a quel film, magari distantissimo dagli esempi citati, perché il lavoro in questo senso del regista è vulcanico, non è questo il nocciolo del discorso. 

Questo è parte del divertimento e quindi è giusto che ognuno lo risolva come crede, un po’ come fare un puzzle o un cruciverba. La questione è quella che raggiunge il suo apice nel passaggio citato in apertura: è dunque la Crudelia di Gillespie una cattiva politicamente corretta? E, approfondendo, è un problema se lo fosse? La questione non è lana caprina: la politically correctness ha dilagato per anni finendo per rendere dura la vita soprattutto ai personaggi non conformi alle regole del bon ton etico, che erano però il sale della narrativa (cinematografica e non). Crudelia era stata, fin qui, sostanzialmente una cattiva a tutto tondo; curiosamente, era affascinante nonostante non avesse il look da vamp delle streghe di altri film Disney. Né la sgangherata signora del capolavoro d’animazione né la Glen Close del remake live action se la giocavano troppo bene su quel piano. Eppure Crudelia era un villain che bucava lo schermo. Ora, Emma Stone, già solo per essere stata Gwen Stacy (nei film di Spider Man del 2012 e del 2014) o Mia in La la land (2016), lo schermo addirittura lo straccia ma certo la questione si pone in altro modo. 


La sua Crudelia è diversa, infatti sarebbe quasi lecito chiamarla definitivamente Cruella, giusto per differenziarla dalle versioni precedenti del personaggio, anche se questa diversità dei nomi è un semplice effetto collaterale del doppiaggio e non un elemento proprio del film. Tuttavia ci è utile perché, effettivamente, la Cruella di Emma Stone è un personaggio nuovo, originale: rispetto alle sue precedenti ha una ragione, alla base del suo essere cattiva, e questa finisce per essere una sorta di attenuante. Del resto è un elemento insito nel tipo di operazione narrativa: uno spin off tende necessariamente ad esplorare parte del vissuto di un elemento che, nel contesto originale, non era stato sondato. Diversamente non sarebbe possibile cavarci una storia. Quindi, nel momento in cui si mette al centro del racconto Crudelia, percorrendo la via che era stata già di Maleficent (2014) remake de La Bella Addormentata nel bosco (1959) narrato dal punto di vista della strega, il rischio è quello di depotenziare il personaggio e quindi il film. Nel lungometraggio con Angelina Jolie era stata l’altera classe dell’attrice ha sostenere efficacemente l’ambiguità della situazione ma la Stone non ha ancora (?) quello status, tant’è che quel registro sarà proprio della sua rivale interpretata da Emma Thompson. E’ quindi credibile la Cruella in versione 2021? La sbilenca cattiva passata alla storia per essere spietata cacciatrice di teneri cuccioli di dalmata per farci un’odiosa pelliccia che scopriamo invece essere una disgraziata (per via delle traversie famigliari), deliziosa, scatenata, geniale artista glam che si limita a raccontare di spellare i cagnolini in questione? Come detto, a Gwen Stacy, che riconosciamo sotto la parrucca bianconera, è impossibile dire di no, e quindi non si può che condividere l’aggiornamento. Eppure, a meno di non essere un dalmata, qualche dubbio ci rimane. 

Emma Stone







 Emma Thompson



mercoledì 27 ottobre 2021

THE HATEFUL EIGHT

917_THE HATEFUL EIGHT ; Stati Uniti, 2015; Regia di Quentin Tarantino.

Si sa che al cinema la chiave di lettura del film è in genere in avvio della pellicola, nell'incipit della vicenda: per comprendere meglio è utile avere sin da subito le coordinate dell’opera. Spesso, tanto per non sbagliare, gli autori cercano di aiutarci cominciando ad indirizzarci sulla pista giusta addirittura dai titoli di testa. Questo se si tratta di registi in gamba. Ma il regista di The Hateful Eight è ben più che un regista in gamba: è Quentin Tarantino in forma smagliante. Nel suo secondo western per sintonizzarsi in modo adeguato alla visione basta soltanto leggerne il titolo. La pronuncia inglese di The Hateful Eight presenta una sorta di ripetizione, hate (iniziale di hateful) e eight hanno grosso modo lo stesso suono. Quindi vi è un suono simile ripetuto. Eight significa ovviamente otto che, come cifra, è composta da due cerchi ripetuti e sovrapposti. Ma l'otto è anche l'unione di due anelli, la prima molecola della catena; quella della catena, dell'essere incatenati, è quindi un’altra coordinata, oltre a quello della ripetizione, che prendiamo direttamente dal titolo. Come detto il film è un western, in modo evidente perlomeno nella prima parte; il protagonista principale è Samuel L. Jackson, e questo lo vediamo già dai poster. Un uomo di colore protagonista di un western non è cosa troppo frequente e quindi l'abbinamento al precedente film di Tarantino con Jamie Foxx è abbastanza ovvio. E a questo punto salta all’occhio un altro evidente legame con Django Unchained, visto che in quel film il riferimento alla catena (unchained, scatenato) era anche più esplicito. E non è certo una novità che i film di Tarantino possano venire accoppiati, dalle analogie degli esordi tra Le iene e Pulp Fiction, al legame più esplicito tra le due parti di Kill Bill

Del regista italoamericano, il settimo e l'ottavo sono quindi (anche) due western: ma parlare di sette nel cinema western, vuol dire inevitabilmente evocare I Magnifici Sette (1960, di John Sturges), che ci permette di cogliere un altro aspetto del legame incatenato tarantiniano, visto che Gli Odiosi Otto (questa la traduzione letterale del titolo del film di Tarantino), almeno stando al titolo, sembra giocare ad esserne il capitolo successivo (sette/otto) ma rovesciato (magnifici/odiosi). Quindi già dal titolo si può dedurre che siamo, come al solito con Tarantino, in campo metalinguistico e il tema del film è l'incatenamento alla propria metà oscura. Poi, nello scorrere della pellicola, questi accenni trovano conferme nelle continue ripetizioni nei dialoghi ("Una lettera di Abramo Lincoln? Quell'Abramo Lincoln? Abramo Lincoln il presidente degli Stati Uniti d'America?") e nelle scene (quella iniziale della richiesta di passaggio sulla diligenza, con tutta la ridondante e ripetitiva procedura del Boia (Kurt Russel), oppure quella demenziale della porta dell'emporio). Queste ripetizioni, di fatto, incatenano i personaggi in una continua reiterazione degli stessi gesti; ma il tema delle catene è ovviamente mostrato in modo esplicito nell'uso delle manette dei cacciatori di taglie, ma anche in modo più sottile, grazie alla presenza nella storia di molti afroamericani, evidentemente liberatisi dopo la recente (almeno al tempo del racconto) guerra civile americana. 


Della quale rimangono sulla scena un generale sudista, uno degli Odiosi Otto, e le molte catene appese nell'emporio. L’incatenamento più evidente è quello tra John Ruth, il boia e la sua prigioniera Daisy (Jennifer Jason Leight): sono effettivamente ammanettati ed è lampante anche il contrasto tra loro. Uno è un uomo, sta dalla parte della legge e, seppur facendo il cacciatore di taglie, ha anche un codice etico da seguire. L'altra è donna, è una fuorilegge ed è totalmente senza un briciolo di morale. Ma ce ne sono anche altri, di questi raddoppi, di cui il più importante è il binomio Maggiore Marquis (Samuel L. Jackson) e Chris Mannix (Walton Goggins), uno nero e nordista e l'altro bianco e sudista della peggior specie, quella delle bande di irregolari. 

Questa sorta di gioco di specchi, il legare un personaggio alla propria nemesi, rappresenta il limite che questi personaggi devono superare per potersi dire liberi, senza catene. La rottura della catena porta una perdita ma è la perdita della nostra metà malata, quella parte di noi corrotta. E' una rottura, una rinuncia, che serve per migliorare. In questo senso, l'evoluzione migliore nel film, nel complesso, la compie il presunto sceriffo Chris Mannix, che smette il suo essere razzista, rinuncia ai facili guadagni che gli vengono offerti se si schierasse con il male e rifiuta anche le menzogne con cui cercano di confonderlo. Insomma, rinuncia a tutta la sua storia di manigoldo irregolare sudista; il tutto solo per poter onorare la sua, in verità poco credibile, futura stella di sceriffo. 

Altri due personaggi importanti, speculari nel loro essere metà negativa del primo binomio in scena (Daisy era la cattiva della coppia boia/fuorilegge) e metà positiva del secondo (il Maggiore Marquis era il buono tra la coppia nordista/sudista) compiono, in quest'ottica, un percorso opposto. Daisy non si libererà mai dalla mano di John Ruth, il citato boia, che le rimane incatenata fino alla fine. E sarà una fine dannata, degna del suo look nel delirante finale, a metà tra la Sissy Spacek di Carrie e la Linda Blair dell'Esorcista. Al contrario, il Maggiore Marquis, accuserà pesanti perdite, nientemeno che i gioielli di famiglia (in senso metaforico, ça va sans dire), ovvero la parte di lui peccaminosa e oltraggiosa, come evidenziato dal suo stesso racconto; ma avrà comunque una sorte più dignitosa. 

D'altronde, il film si apre con un Cristo crocefisso e quindi è evidente che ci parlerà anche di espiazione. Ma la cosa più importante a cui il Maggiore Marquis deve rinunciare è la sua preziosa lettera di Abramo Lincoln. Un falso ben fatto, comunque bello da vedere, da leggere, da toccare, e con un tocco di classe, come non può che ammettere Mannix. Un falso che ha permesso al Maggiore afroamericano di avere credito presso i bianchi, un comodo lasciapassare per avere ammirazione ed invidia indebite. Ed è proprio questo il punto cruciale: perché quello di Tarantino, come detto, è sempre meta-cinema (cinema che riflette sul cinema più che sulla realtà) e, in questo ambito, il rischio che si corre, soprattutto quando si è troppo bravi, proprio come il geniale Quentin o i fratelli Coen, è quello di autocompiacersi un pochino troppo. E allora quella lettera forse ricorda vagamente un certo tipo di cinema che è stato anche di Tarantino; un cinema che è spesso bello da vedere, da vivere, da godere ma, e qui è la nota stonata, qualche volta il rischio che ci sia un retrogusto un po' falso, nel suo essere godimento fine a sé stesso, può davvero esserci stato. 
Con questo magnifico ed autentico The Hateful Eight questi eventuali difetti o limiti del cinema di Quentin Tarantino finiscono nel cestino insieme alla falsa lettera di Lincoln.








Jennifer Jason Leigh