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giovedì 30 aprile 2020

LE SABBIE DEL KALAHARI

561_LE SABBIE DEL KALAHARI (Sands of Kalahari); Regno Unito 1965. Regia di Cy Endfield.


Se date una scorsa al fondamentale sito IMBd  (Internet Movie Data base) a proposito di questo Le sabbie del Kalahri di Cy Endfiled, probabilmente la cosa che vi salterà più all’occhio sono i nomi delle star associate a questo film ma che poi non vi hanno preso parte. Innanzitutto pare che gli attori principali dovessero essere Richard Burton e Elizabeth Taylor; poi si fecero vari tentativi anche con Robert Mitchum, Carroll Baker, Suzanna Leight, Lee J. Cobb, George Peppard per restare ai contatti più concreti. Ma nessuno che accettava le offerte di Stanley Baker, il produttore (oltre che attore protagonista del film): insomma, un fuggi fuggi generale. E’ un fatto curioso, perché, coi dovuti distinguo, è quello che accade ad uno dei protagonisti del film, O’Brien, interpretato da Stuart Whitman. Tra l’altro, la convinzione con cui O’ Brien, nel film, si sbarazza dei propri compagni di sventura, assomiglia anche alla determinazione con cui proprio Whitman decise di restare nel film, a fronte della pletoria di rifiuti. E, pur di farlo, visto che non gli piaceva il personaggio che gli avevano proposto, pretese proprio quello di Stanley Baker. Il quale, come detto essendo anche produttore dell’opera, e vedendo che le cose nel casting non andavano troppo per il meglio, accettò lo scambio pur di tenersi un attore come Whitman, comunque in grado di reggere di fisico, la scena principale. Come accennato, O’ Brien, Mike (il personaggio di Baker) e altri sono compagni di sventura: precisamente dello schianto con l’aereo sulle dune del deserto del Kalahari, nell’Africa meridionale. Una bella sfortuna incappare in un gigantesco sciame di cavallette che, bloccando i motori, aveva fatto precipitare il piccolo aereo capitanato da Sturdevan (Nigel Davemport). 


Oltre a questi tre, gli altri a bordo erano il copilota, che muore nell’incidente, Grimmelman (Harry Andrews), il dottor Bondrachai (Theodore Bikel) e una donna, Grace (Susannah York). Una sventura replicata anche fuori dallo schermo, in questo caso non precedentemente, come per il casting, ma a conti fatti: il film fu un fiasco e mise in seria difficoltà la carriera di Baker. Con tutte questo avvisaglie di scarso auspicio, e con un’impostazione forse troppo ambiziosa per le capacità di approfondimento del regista Cy Endfield, era prevedibile un bilancio complessivamente negativo. Al contrario, il film è nel suo insieme apprezzabile. Gran bell’avvio, con una preparazione stringata che ci porta subito sopra il deserto africano a bordo del piccolo veicolo; in breve la tensione cresce e fino allo schianto il film gira a mille. 

I superstiti si organizzano, riescono, tra tante difficoltà, ad arrivare ad un vecchio insediamento boscimani nelle cui vicinanze sono stanziati numerosi e pericolosi babbuini. Nel gruppo emergono le differenti personalità: Stundervan, il pilota, assume il ruolo di leader con prepotenza; il dottore Bondrachai è un uomo saggio, di scienza; Grimmelman è un politico e non si inimica nessuno; Mike sembra in gamba ma ha una gamba ferita e sta male; O’Brien è il cacciatore; Grace è la preda. Stundervan prova a far valere i diritti di capobranco su di lei, ma la passività della donna lo disgusta; si stabilirà quindi il prevedibile legame tra O’Brien e Grace, cacciatore e preda. Mentre tutti, chi più chi meno, cercano di salvarsi in senso collettivo, O’Brien comincia a pianificare di sfoltire i ranghi per aumentare le possibilità di sostentamento. E’ una teoria che utilizza anche esplicitamente nei confronti degli altri primati che abitano l’area, i babbuini, che uccide semplicemente per evitare che si nutrano dello stesso cibo, le scarse piante della zona, necessario agli umani. 


Se il pilota si lascia con relativa facilità convincere ad inoltrarsi a piedi nel deserto per cercare aiuto, con altri del gruppo O’Brien arriva addirittura ad eliminarli direttamente. Mike si è ripreso e prova a far aprire agli occhi a Grace, attratta dalla forza maschia del cacciatore. Il ritmo narrativo è scandito dai vari episodi, dalle informazioni sulle popolazioni locali e le loro usanze, sulle abitudini dei babbuini, o sulle inevitabili forzature tra i rapporti: non ci si annoia tant’è che le due ore film si esauriscono quasi prima del previsto. E, mentre vediamo Mike e Grace andarsene con l’elicottero del soccorso, ci si accorge che al film è mancato il cuore. Cosa fa, ora, O’Brien, il cacciatore, che gira a petto nudo e non si è voluto far trovare dai soccorritori? Ha ucciso in duello il leader dei babbuini: è forse diventato il nuovo capo delle scimmie? I babbuini gli si stringono intorno, per esaltarlo o per vendicare il vecchio capo? L’immagine sfuma e il film finisce. Ma, in entrambi i casi, cosa sarebbe cambiato? L’uomo è un primate tanto quanto il babbuino, d’accordo. Ma si possono fare confronti tra uomo e uomo (Mike nel film li fa e lo spiega anche a Grace) e perché non si dovrebbe potere fare tra individui di specie diverse ma tutto sommato imparentate? Che O’Brien fosse un uomo rozzo, stolto, brutale, era evidente. Ma assimilandolo ai babbuini gli si fa un complimento immeritato.   


Susannah York






      

martedì 28 aprile 2020

SUA ECCELLENZA DI FERMO' A MANGIARE

560_SUA ECCELLENZA DI FERMO' A MANGIARE ; Italia 1961. Regia di Mario Mattoli.

Commedia farsesca che ha momenti assolutamente irresistibili, Sua Eccellenza di fermò a mangiare di Mario Mattoli è un film a cui manca forse un minimo di struttura morale, necessaria in ogni storia, anche nella più leggera, per poter dirsi davvero compiuta. Ed è un vero peccato, perché il pretesto narrativo con cui la vicenda si innesca è sorprendente e spassoso e il nostro stupore nel sentire annunciare l’arrivo del dottor Tanzarella (Totò) è quantomeno pari a quella di Ernesto (Ugo Tognazzi). In realtà Totò è un elegante truffatore che coglie al volo l’occasione per ricattare Ernesto, reo di tradire la moglie, salvo poi insistere nella parte del medico del Duce per sfruttare ulteriormente la situazione. C’è la scena del trapano, all’osteria, che è un altro esempio mirabile di costruzione dei meccanismi basati sugli equivoci, arte che la commedia italiana non sempre sviluppava come sapeva fare, preferendogli scorciatoie di grana più grossa. Che, alla lunga, emergono anche qui, soprattutto quando entra in gioco l’Eccellenza del titolo, ovvero un ministro del governo del Ventennio, interpretato da Raimondo Vianello. Qui il soggetto insiste gratuitamente sulla scarsa virilità mostrata dall’uomo nell’attività maschile per antonomasia, in una forma un po’ leziosa, (anche considerato il periodo d’uscita del film, che è del 1961) pur di prendere in giro alcuni argomenti cari a Mussolini e al suo regime. Il che sembra, più che altro, una ruffianata alla classe governativa del tempo: la satira politica ha un senso quando il regime è in carica, assai meno decenni dopo. Nonostante dai titoli di testa la sua sia presentata come semplice partecipazione, Totò è l’indiscusso mattatore; la coppia Tognazzi e Vianello, già collaudata dall’esperienza televisiva, cede infatti il passo al principe della risata a cui si ascrivono i momenti migliori del lungometraggio. 

Debole, ed è clamoroso visto il tema e le possibilità del testo, l’apporto femminile alla riuscita del film: Virna Lisi (Silvia), la splendida moglie di Ernesto, esce davvero con le ossa rotte dalla storia o, per usare una definizione cara agli italiani, cornuta e mazziata. Tre mesi di reiterati tradimenti di Ernesto sono cancellati e perdonati per il semplice fatto che la ragazza non è abbastanza focosa. Certo, c’è la critica ad un certo perbenismo incarnato dalla donna ma che suona come mera giustificazione al confronto di un atto come procurarsi un’amante e poi dedicarcisi per un trimestre intero. Ma anche l’amante in questione, Lauretta (Lauretta Masiero), non è che ci faccia una gran figura: compartecipe della figuraccia sessuale del ministro, quando Silvia decide di sciogliersi un po’ viene messa prontamente da parte. La contessa (Lia Zoppelli) madre di Silvia, preoccupata solo degli aspetti sociali e dalle eventuali opportunità di trarre qualche vantaggio, sembra quella che conosce come stare al mondo: è infatti lei che consiglia la figlia di farsi istruire dall’amante del marito su come comportarsi. E l’iniziale indignazione di Silvia è uno dei pochi moti condivisibili del passaggio. Che in una farsa sono peraltro leciti, sia chiaro, ma, curiosamente, il film di Mattoli ironizza su certi aspetti (la donna che viene cornificata, il ventennio fascista) mentre su altri atteggiamenti sembra approvare compiaciuto (la sanatoria ottenuta dal marito senza pagare alcun pegno, la truffa perpetrata da Totò con il ricamo finale del furto delle posate d’oro). E’ il solito vizio italiano e della commedia italica: si può prendere in gioco chi è inoffensivo (gli onesti, gli ingenui, i regimi ormai passati) ma chi fa il furbo e la sfanga non può che avere la generale approvazione.   





Lauretta Masiero



Virna Lisi






domenica 26 aprile 2020

SILENCE

559_SILENCE ; Stati Uniti, Taiwan, Messico 2016. Regia di Martin Scorsese.

Se l’oggetto del film Silence di Martin Scorsese fosse da ricercare in qualche ambito religioso o comunque legato al concetto di Dio, saremmo di fronte, come semplici spettatori in un cinematografo, ad una difficoltà non indifferente. Se tace il diretto interessato, al cui silenzio fa più che altro riferimento il titolo del film, che mai potremmo avere noi da dire? Forse, il tema religioso è ovviamente importante per Scorsese ma, in questo caso, è più che altro da interpretare in senso metaforico. Come del resto la questione storica,  certamente fondamentale in un’opera che ha una spiccata connotazione in questo senso; perché un’ambientazione in un determinato luogo e in un preciso tempo, comporta una serie di considerazioni polito sociali che ne derivano in modo quasi naturale. Ma anche li, forse non sono questi aspetti ad essere il centro del discorso di Scorsese, forse il Giappone dell’epoca Tokugawa è da intendersi come esempio di società chiusa a difesa di sé stessa, delle sue regole, delle sue leggi, dei suoi usi e costumi, della sua cultura e della sua religione ma, più di ogni altra cosa, dei privilegi ivi connessi. Nel film i gesuiti padre Rodrigues (Andrew Garfield) e padre Garupe (Adam Driver) portano avanti le ragioni del cristianesimo, mentre l’inquisitore giapponese Inoue (Issei Ogata) e i suoi sottoposti, fanno notare come il paese del sol levante avesse già una sua religione. 

Anche al messaggio cristiano, certamente valido perché predica la fratellanza tra gli uomini, i funzionari della autorità giapponese contrappongono i valori della dottrina buddista. Sono discussioni interessanti, con spunti degni di riflessione, ma che nel film non vengono, in fondo, approfonditi più di tanto; ne mancherebbe comunque il tempo ma, soprattutto, forse non sono il cuore del problema. Perché si potrebbe facilmente far notare, ai pur lodevoli gesuiti che, se è vero che la religione cristiana predica l’amore e la fratellanza, in quegli stessi tempi, in Europa la Chiesa appoggiava molte teste coronate di monarchie che si fondavano ancora su uno spiccato assolutismo. Per cui il discorso di Scorsese sembra essere più interessante se viene inteso in modo più generico e meno inerente allo specifico mostrato: il Giappone del XVII secolo è semplicemente una società che si fonda sul privilegio, e quella cristiana è una dottrina che smuove le coscienze degli umili perché offre loro un’opportunità di riscatto sociale, diversamente proibitivo. Lettura un po’ troppo semplicistica? Forse, perché non tiene conto, per fare un esempio tra i tanti possibili guardando il racconto del film, della differente concezione tra occidentali e nipponici dell’importanza dell’immagine. 


E’ difficile, per noi europei, comprendere la portata del fenomeno dello Yefumi, ovvero il calpestare un’immagine cristiana sacra come modo per simboleggiare l’abiura; anche gli stessi gesuiti, gente pratica, non ci avrebbero certo fatto cambio della vita dei propri fedeli, mentre per i locali era un atto molto più grave. Questi aspetti sono appunto esplorati dal film di Scorsese, forse a mostrare le grandi differenze culturali tra i due popoli, ma manca il tempo per approfondire bene tutta quanta la questione. Anche se viene un po’ il sospetto che, queste presunte differenze tra i popoli e le rispettive culture, non alimentano più di tanto una  distinzione, ma piuttosto indichino quanto la società umana sia simile, nei suoi cardini principali, ad ogni latitudine. 

Il Giappone (del 1600), ripete Inoue quasi fosse un mantra, è una palude, e il seme del cristianesimo non può (e non deve) germogliare, soprattutto perché è un seme pericoloso, perché porta una concezione diversa, e questo destabilizza l’ambiente. Ecco quindi una valenza politica del messaggio cristiano nel film, (e volendo ben vedere, in ogni contesto): ciò che scombina lo status quo è sempre mal visto da chi è al potere. Al di là dei contesti storici o geografici, il privilegio è sempre in agguato, sempre lesto nel insediarsi e mal disposto a sloggiare. E’ quindi un film politico Silence, o la traccia religiosa, pur se approfondita unicamente nelle possibilità che offre il cinema, è comunque più interessante? Certamente una cosa non esclude l’altra. E allora stia alla sensibilità dello spettatore portare nel cuore il segno religioso, intimo e personale o, in caso di mancanza di sintonia in questo senso, non sottovalutare il significato rivoluzionario della dottrina cristiana. 


venerdì 24 aprile 2020

DELITTO E CASTIGO

558_DELITTO E CASTIGO ; Italia 1983. Regia di Mario Missiroli.


La Rai, la televisione nazionale, aveva sempre guardato all’opera di Fëdor Dostoevskij, attingendone spunto per i suo famosi sceneggiati. Umiliati e offesi, (1958 regia di Vittorio Cottafavi), L’idiota (1959, di Giacomo Vaccari), I fratelli Karamazov (1969, di Sandro Bolchi) e I demoni (1972, sempre di Bolchi) sono tutte valide testimonianze del felice connubio tra l’autore russo e la televisione di stato italiana. Rimaneva forse in sospeso la questione Delitto e castigo: quello che era forse il testo più famoso di Dostoevskij aveva avuto un riscontro più controverso. Per la verità era stato proprio la truce vicenda di Rodiòn Romànovič Raskòl'nikov (interpretato da uno scatenato Giorgio Albertazzi) ad inaugurare la messa in onda televisiva di testi letterari, nel lontanissimo 1954. Più che uno sceneggiato, una rappresentazione teatrale ripresa e trasmessa in diretta. Poi, nel 1963, c’era stato il tentativo di Anton Giulio Majano ma, forse, almeno stando a parte della critica, il risultato non fu così convincente e in effetti, vent’anni la Rai mise in cantiere un ulteriore tentativo di dare forma televisiva allo splendido testo dostoevskijano. Purtroppo, l’età dell’oro dello sceneggiato televisivo era ormai tramontata e, così, anche la versione del 1983 è sostanzialmente una mezza delusione. Intendiamoci: l’attacco del testo di Dostoevskij è comunque una botta tremenda e, quindi, la prima puntata, di circa un’ora, lascia lo spettatore certamente turbato. 


Però, passato lo choc (che anche se la trama è risaputa è comunque d’urto), quando la storia deve lavorarsi lo spettatore, tra le sue pieghe emergono le scelte stilistiche di Mario Missiroli e qualche perplessità comincia a farsi strada. L’idea dell’uso del colore per realizzare una sorta di dipinto, più che una rappresentazione realistica, è buona; così come sembrano funzionali alcune scelte surreali, del resto quello di Dostoevskij potrebbe benissimo essere un incubo e, quindi, al cinema o in TV, un horror. Ma il ricorrere ad una messa in scena completamente teatrale, girata interamente in studio, per creare un’atmosfera angosciante non paga. 

Una certa impostazione scenografica artefatta era per altro tipica negli sceneggiati ma, a suo tempo, la cosa non veniva ostentata, essendo un limite; Missiroli la ritiene invece un utile strumento per non dare via di scampo ai personaggi e poterne approfondire le psicologie. Ma l’operazione frana proprio sulle prestazioni degli interpreti. Nello sceneggiato tipico una certa enfasi di stampo teatrale era necessaria, per distogliere l’attenzione dalle ambientazioni poco realistiche: ma occorrevano prestazioni eccellenti, in grado di tenere un registro tarato in eccesso ma senza perdere credibilità. Qui la situazione è più complessa, perché il romanzo di Dostoevskij è certamente ostico da trasporre sul video e Missiroli, nel tentativo di vincere la sfida, alza la posta, con una scelta stilistica più azzardata del solito. Sarebbe occorsa una superba alchimia recitativa nelle interpretazioni e chissà, forse la cosa poteva funzionare. Ma quell’alchimia né Mattia Sbragia, nel ruolo di Raskòl'nikov, né i suoi compagni d’avventura, la riusciranno a trovare. Del resto, nel 1983, lo sceneggiato televisivo italiano aveva fatto il suo tempo.



giovedì 23 aprile 2020

I DEMONI

557_I DEMONI ; Italia 1972. Regia di Sandro Bolchi.


Tre anni dopo la riuscita trasposizione televisiva de I fratelli Karamazov ad opera di Sandro Bolchi,  la Rai insiste con la stessa formula, dando luce ad uno sceneggiato basato su un altro testo letterario di Fëdor Dostoevskij per la regia dello stesso Bolchi. La scelta, ancora una volta assai felice, cade su I Demoni, romanzo fondamentale della letteratura universale oltre che della bibliografia del geniale autore russo. Bolchi sa perfettamente come muoversi e riesce a ricreare il mondo di Dostoevskij pur con i limitati mezzi che la televisione dell’epoca gli metteva a disposizione; fondamentale, per far questo, il sontuoso cast, come al solito di matrice teatrale ma ottimo anche il lavoro alle scenografie di Maurizio Mammì e ai costumi di Maurizio Monteverde. Il testo di Dostoevskij è, d’altra parte, molto impegnativo: I Demoni, se si riferisce letteralmente a quelli che turbano lo spirito di Nikolaj (uno torvo Luigi Vannucchi), sono poi incarnati anche nei membri della cellula rivoluzionaria ordita da Pjotr (Glauco Mauri, assolutamente strepitoso). La Santa Madre Russia vede agitarsi al suo interno gli arbori della rivoluzione che, negli intenti, vuole rovesciare il dominio zarista. Si tratta, perciò, di intendimenti positivi, almeno in teoria; ma a manovrarli c’è l’anima malata, di Pjotr in primis, ma in generale di una congrega di nichilisti svogliati che discutono del futuro della nazione tanto di nascosto in un’anomia soffitta  quanto in uno dei salotti dell’alta società ma sempre completamente sconnessi ai reali problemi del popolo. 
Ci sono, naturalmente, personaggi che credono negli ideali della rivoluzione, come Šatov (Luigi La Monica), del resto la società russa dell’epoca non è di semplice decifrazione e meno ancora lo è Dostoevskij: come sempre la psicologia e la personalità dei personaggi creati dall’autore russo sono di assoluta profondità e, anche nella riduzione televisiva, queste qualità non vengono meno. Com’è logico i personaggi più riusciti sono quelli su cui Bolchi può concentrarsi di più: il Nikolaj di Vannucchi sembra, a prima vista, il personaggio principale. Sofferto ed incupito, appare ammantato di una sobria severità ma è poi capace di gesti sensazionali, come sposare Marja (Giulia Lazzarini), un’imbruttita ragazza povera, zoppa e folle, per una sorta di autoflagellazione ma, al tempo stesso, di portarsi a letto Lizaveta (una splendida Paola Quattrini) mentre si assicura un futuro con l’affidabile Darja (Angiolia Baggi). 

E in seguito arriverà sulla scena anche Marie (Carla Greco) la moglie di Šatov, incinta. Nello sceneggiato non è forse proprio detto esplicitamente ma non è certo un mistero capire di chi sia la corresponsabilità della situazione; non dell’ignaro marito, ovviamente. Sono assolutamente di Nikolaj, come detto, anche i demoni a cui fa letteralmente riferimento il titolo dell’opera. Rimorsi di un uomo tanto ambiguo, per una vita vissuta coscientemente in modo dissoluto, salvo poi cavar fuori una confessione da pelle d’oca nel finale con la quale riprendersi definitivamente lo scettro di assoluto protagonista. Perché, nel complesso, nel lungometraggio era emerso il costante lavoro di Pjotr che, oltre a tramare per i suoi intrighi, in ottica metalinguistica aveva quasi soppiantato temporaneamente Nikolaj dal centro della scena. Per la verità Pjotr sorprende sin da subito, quando si presenta in società per giustificare lo stesso Nikolaj e, quindi, con un intento positivo, ma si fa scappare di bocca una clamorosa gaffe smascherando i piani del padre, Stepan (Gianni Santuccio) che voleva sposare la giovane Darja per mero interesse. Li per lì viene quasi da credere alla buona fede di Pjotr ma poi, nel corso del racconto, vediamo all’opera la sua anima duplice e infingarda potendo apprezzare l’impressionante lavoro interpretativo di Mauri, capace di assecondare con grande capacità espressiva le finzioni, i tranelli, i doppi giochi orchestrati da Dostoevskij per il suo personaggio. E forse sono anche le sue tante anime, tutte finte, fasulle, i demoni della storia. 

Oppure quelli che sembrano aver lasciato Kirillov (Warner Bentivegna), soave ma severo nichilista che pensa di essere ormai arrivato alla verità e, per questo, ritiene di potersi tranquillamente suicidare: un’opportunità che un manipolatore come Pjotr saprà far tornare a proprio vantaggio. Ma i demoni sono forse anche i frequentatori del salotto di Varvara (la bravissima Lilla Brignone), nobili che vivono nell’agiatezza a fronte della dilagante miseria, fantasmi del passato ma autentici vampiri del presente. Ma, dalla loro, almeno i più conservatori, questi imbellettati personaggi hanno una coerenza di comodo che forse, in un certo senso, li rende meno demoniaci dei veri demoni della vicenda. Che, come detto, possono incarnarsi nei rivoluzionari sobillati da Pjotr, inutili intellettuali che negli agiati salotti preparano il terreno per la catastrofe che, con la rivoluzione, arriverà poi veramente. 

Certo, gli ideali erano anche positivi, come testimoniato dalla buona fede di Šatov a cui fa da contraltare una persona gretta e opportunista come Nikolaj, individuo tanto malsano da nascondere la sua anima nell’angolo più inaccessibile della sua metà oscura. Ma non è comunque un pertugio abbastanza profondo. Perché sarà proprio Nikolaj, incapace di sopportare ulteriormente il tormento che lo perseguita, a rivelare la vera natura dei demoni che affliggono l’intera umanità. Una rivelazione tragica, nel dipanarsi degli ultimi istanti del racconto, che dimostra come non ci sia alcuno scampo per l’Uomo, sia a livello individuale che sociale, se questi intenda assurgere a giudice assoluto. Le teorie rivoluzionarie, a livello politico, rivendicavano quell’autonomia dai poteri costituiti, la monarchia e la religione, che, a livello individuale Nikolaj rivendica per sé, rifiutando non solo il perdono di padre Tichon (Carlo D’Angelo), ma perfino quello di Dio o di Cristo, alla fine della sconvolgente confessione. E’ un passaggio straordinario reso da Vannucchi in modo memorabile: la cattiveria dell’animo umano emerge in tutta la sua gratuita crudeltà, senza alcuna giustificazione. Non c’è, infatti, una motivazione apparente che spinge l’uomo a commettere il suo orrendo crimine nella situazione raccontata durante la confessione. Ma soltanto il piacere di fare qualcosa di malvagio senza un effettivo tornaconto e nella totale impunità. 

Come provocare involontariamente la punizione di una bambina e non far nulla per evitargliela quando si potrebbe. Salvo poi dimostrarsi magnanimi nei confronti della piccola e approfittare nella maniera più bassa e sconcia della sua ingenua gratitudine. E infine abbandonarla quando la consapevolezza della gravità dell’accaduto l’aggredirà. Ma, per quanto infame, è un comportamento umano, quello di Nikolaj: perfettamente umano e non demoniaco. E potrebbe trovare una salvifica soluzione nella richiesta di perdono e nel rapporto con gli altri, che Dio o Cristo rappresentano. Il demonio è piuttosto nel pensiero di poter affrontare da solo un’enormità come questa, perché nella propria anima si può solo trovare una soluzione, che non è certo l’assoluzione ma è per forza una definitiva espiazione che equivale alla propria negazione. E, a livello politico, sarà proprio questo lo stesso destino a cui andrà incontro la Russia, nel momento in cui deciderà di lasciarsi guidare da questi demoni in chiave politico/sociale.    


DOSTOEVSKIJ TRA LETTERATURA E TELEVISIONE: I DEMONI 

a cura di Antonio Gatti

Besy, il titolo nell’originale russo, già offre degli spunti interessanti per la comprensione dell’opera. Infatti il termine, non indica tanto i demoni in senso generico, come figure infernali, “dantesche” (per quello il russo usa, esattamente, come noi, Demony) , ma più specificatamente il demone tentatore, il demone del peccato. Colui insomma, che più che fuori da noi si trova dentro. Non a caso a fare da prologo al romanzo è una citazione evangelica, l’episodio dell’indemoniato geraseno, nel quale Gesù libera un uomo da una “legione” di demoni che si trasferisce allora in un branco di porci: demoni che, come un virus, non possono esistere se non dentro un essere vivente e lo terrorizzano con la convinzione che quella parte “demoniaca” non sia esterna ma radicata fortemente nella sua personalità. Con la convinzione quindi, non solo di essere capace di male con un gesto di libero arbitrio, ma di essere egli stesso il male.
Se nell’episodio dell’indemoniato geraseno la Legione di demoni si sposta dall’essere superiore a quello inferiore, dall’uomo ai porci, nel romanzo, in un certo senso accade l’inverso e il “male” si propaga dal basso verso l’alto. In fondo I demoni è la storia di come l’influsso delle generazioni più anziane possa essere benefico, o al contrario devastante, per quelle più giovani. Nel caso del romanzo, e questo è un aspetto che il regista Bolchi coglie molto bene, l’influsso negativo è quello della rottura con la propria terra, le proprie radici, il proprio sangue. Infatti i primi ad essere introdotti sono Stepan Trofimovic Verchovenskij e il suo club di più o meno annoiati intellettuali che si danno posa di progressisti, che leggono libri occidentali e brindano alla libertà delle nazioni europee contro la tirannia che opprime la Russia. 

Gianni Santuccio è perfette nel rendere Stepan Trofimovic con la sua supponenza intellettuale un po’ bonaria, con i suoi proclami roboanti, ma vuoti e innocui. Per questa intelligentsia di uomini di mezz’età, abbienti e possidenti, il progressismo è solo una posa, un modo come un altro per tirare sera e per giocare “ai ribelli” ma ovviamente senza esporsi realmente in una lotta sociale nella quale -tra l’altro- sarebbero i primi a rimetterci i loro averi e la loro posizione. Nello sceneggiato di Bolchi si cerca di riprodurre l’acida ironia di Dostoevskij nei confronti di questo gruppo, ma nel complesso la figura di Stepan Trofimovic ne esce (leggermente) meglio che nel romanzo. Quest’aria di pseudo-progressismo, però, se per i padri è poco più di un gioco, per i figli è qualcosa che avrà un effetto devastante: e questo è il secondo livello di ascesa dei “demoni” da un corpo (in questo caso socio-generazionale) ad un altro. Giocando a far finta di mettere in dubbio i valori più profondi, Stepan Trofimovic e la sua cricca, hanno allevato una generazione che a quei valori non crede più per davvero. Ma, drammaticamente, non riesce a sostituirli con altri. Parlo naturalmente dell’ateo “candido” Kirillov, interpretato da Walter Bencivegna, il quale riesce a rendere benissimo le contraddizioni di un personaggio che -si sente benissimo- vorrebbe poter credere (è l’unico che conserva un’icona del Salvatore in casa, e a Bolchi non sfugge il dettaglio) ma non riesce ad affidarsi a una religione percepita come dottrinaria e superata e si contorce ad elaborare una teoria sulla “liberazione dell’uomo” dove confluiscono un po’ i grandi temi filosofici e letterari dell’epoca, da Nietzsche a Goethe, una sorte di religione atea. 

Una teoria che, pur pretendendo di essere un salto qualitativo della vita, porta alla morte. Parlo anche naturalmente di Shatov, in un certo senso il contraltare di Kirillov; con la sua slavofilia e la sua fede ostentata, sì, ma non vissuta. Una fede che è posta al servizio della politica e che non sgorga dall’intimo ma è un effetto del grande fascino che Nikolaj Stavrogin esercita su di lui (come su tutti gli altri “demoni”). Parlo poi, ovviamente, di Pjotr Stepanovic Verchovenskij, un grande Glauco Mauri, sicuramente l’attore che centra meglio il personaggio (ed è un gran complimento visto che sono praticamente tutti centrati).  Verchovenskij è il demone “globale”, colui che mette in dubbio tutto, Dio, patria, famiglia; non esiste nulla che meriti serietà o rispetto per Verchovenskij, nemmeno le sue stesse idee, nemmeno il suo stesso padre. Terrorista, egli combatte per nulla, disprezzando allo stesso modo le vecchie idee e le nuove, il passato e il futuro. Nel figlio si vedono le estreme conseguenze del “gioco” iniziato dal padre. Dal gioco dell’abbattimento dei valori, all’abbattimento del concetto di “valore”. In una cosa sola sembra credere Verchovenskij: in Nikolaj Stavrogin, la cui personalità affascina e soggioga anche lui, al punto da investirlo di attese messianiche come il mitico personaggio del folklore russo, Ivan Zarevic. 

Sequenza questa molto forte del romanzo che è anche uno dei picchi dell’arte di Glauco Mauri nello sceneggiato. Naturalmente i due livelli “demoniaci” corrispondono a fasi reali della “ribellione” russa all’assolutismo, che Dostoevskij criticava proprio per la sua assenza di valori positivi col quale sostituire quelli che voleva distruggere e per i suoi elementi “stranieri” occidentali. Il circolo di Stepan Trofimovic corrisponde agli ambienti liberali e occidentalizzanti fatti da grandi proprietari e cortigiani che premevano per vaghe concessioni da parte dello zar. Verchovenskij e i “demoni” sono in un certo senso la trasposizione letteraria del movimento dei narodniki , romantici rivoluzionari che presto ricorreranno al terrorismo e all’assassinio come regola di lotta. Dostoevskij anticipa anche, ma non vivrà abbastanza per vedere, le logiche conseguenze di questa escalation: il movimento rivoluzionario russo verrà preso in mano, infine, da gente che, come Lenin e Trotskij, spenderà gran parte della loro giovinezza in Occidente, e importerà in Russia idee internazionaliste e estranee a qualsiasi “tradizione”.
Ma c’è un personaggio che è al di fuori in un certo senso da questo processo storico: il passaggio finale del demone tentatore, il terzo livello, non è generazionale, ma qualitativo. Il demone entra in una personalità particolare, forte, misteriosa, superiore a quella degli Shatov e dei Verchovenskij. Nikolaj Stavrogin è ispirato all’anarchico russo Mikhail Bakunin, un uomo che in effetti si era messo anche storicamente al di fuori del movimento socialista dell’epoca (fu il grande rivale di Marx alla prima Internazionale). 

Luigi Vannucchi, ottimo attore fa del suo meglio per rendere la figura di Stavrogin e in parte riesce nel difficilissimo compito. Lo Stavrogin del romanzo è più giovane, più imponente fisicamente del Vannucchi che però riesce a convogliare nello spettatore l’idea di grande superiorità di Stavrogin rispetto agli altri personaggi e al contempo di grande tormento interiore, di vero tormento interiore, laddove i Kirillov, gli Shatov a suo confronto sembrano ragazzini. Il cognome Stavrogin deriva dal greco stauròs, croce, un riferimento che nessun ortodosso poteva ignorare. Come Dostoevskij abbia potuto associare un termine così perfettamente cristiano a un personaggio che si macchierà di peccati tra i più atroci (pedofilia, suicidio), peccati contro i quali lo stesso Cristo ebbe parole durissime, è una delle chiavi per leggere il romanzo. Nella “confessione da Tichon”, brano prima espunto dal romanzo per il suo contenuto, poi infine messo in appendice, Stavrogin risulterà l’unico tra tutti i personaggi del romanzo, che infine si assumerà pienamente le responsabilità dei suoi atti, confessando anzi di essere tormentato quasi fisicamente da quell’orrendo peccato. Di fronte alla proposta penitenziale di Tichon, Stavrogin sceglie, ancora una volta, l’alternativa più radicale e negativa: il suicidio. Ma anche in quest’atto tragico, nel quale non riesce a cogliere il perdono di Dio e cede alla disperazione, Stavrogin dimostra la sua superiorità rispetto agli altri protagonisti lasciando un biglietto col quale si accolla non solo i propri peccati, ma anche quelli di tutti i Demoni del romanzo: Non accusate nessuno, sono stato io. 





Paola Quattrini