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giovedì 29 febbraio 2024

APOCALYPSE DOMANI

1445_APOCALYPSE DOMANI . Italia, Spagna 1980; Regia di Antonio Margheriti.

La contrapposizione tra elementi differenti sembra essere la cifra stilistica dominante in Apocalypse Domani, film di Antonio Margheriti del 1980. Sin da subito, sin dal titolo, con il termine “Apocalisse” che è un concetto che si riferisce al futuro ma proviene a noi dall’antichità, con il tema cronologico rafforzato dall’avverbio “domani”. L’accostamento delle due parole che compongono il titolo sembra cercato per citare i riferimenti del film di Margheriti, che sono Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola e Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato (1980). In effetti, il titolo del film di Margheriti, sembra riprendere spudoratamente quello di Coppola, laddove il “now”, adesso, è sostituito, e concettualmente spostato solo leggermente un po’ più in là, per divenire “domani”. Tuttavia, tra i tanti titoli con cui è stato distribuito nel mondo, spicca il Cannibal Apocalypse dei paesi anglosassoni, dove si cercò di sfruttare anche l’effetto traino del leggendario film di Deodato. In ogni caso, la simbiosi di elementi diversi caratterizza anche la sostanza del lavoro di Margheriti: Apocalypse domani è, infatti, un curioso innesto tra il cinema bellico, e più specificatamente quello noto come Vietnam movie, e il genere cannibal italiano. Ma prima di addentrarci nel dettaglio di come questo avvenga sullo schermo, ci sono ancora alcune curiosità che sottolineano la natura binaria del film di Margheriti. È bizzarro, ad esempio, che il titolo sia composto da una parola in inglese e una in italiano, senza una ragione valida, dal momento che “apocalisse”, come termine, esiste anche nella nostra lingua. Questa sorta di esterofilia del regista, che firma il film sui credits con il suo noto pseudonimo Anthony M. Dawson, è un altro elemento da segnalare: la moda di utilizzare nomi anglosassoni, per i nostri registi e attori, era cominciata negli anni Sessanta, quando il cinema italiano provò a sondare generi, come il gotico e in seguito il western, che gli erano sconosciuti. Riccardo Freda raccontava l’aneddoto di una coppietta, fuori da un cinema a Sanremo, che, una volta letto il nome italiano del regista sul manifesto de I vampiri, preferì glissare e voltò i tacchi. Il regista sulla locandina in questione era, naturalmente, lo stesso Freda e l’anno era il 1957: nasceva così l’esigenza di utilizzare nomi anglosassoni, inizialmente per i film dell’orrore ma poi la cosa si diffuse trasversalmente per altri generi, al fine di convincere gli spettatori della qualità delle opere. 

Un’abitudine pericolosa, a dirla tutta, perché sottintendeva che gli italiani, in quanto tali, non fossero in grado di cimentarsi con alcune tipologie di film: non a caso, ci fu chi, come Mario Bava, che, appena gli fu possibile, provò ad affermarsi con il proprio nome all’anagrafe. Margheriti, al contrario, mantenne fede al suo nickname anglofilo e, in Apocalypse domani, prova anche a confermare questa specie di “ipocrisia” perfino all’interno nel testo filmico: il lungometraggio è una produzione italo spagnola, ma si presenta in tutto e per tutto come una pellicola americana. La capacità di interpretare gli stilemi del cinema di genere hollywoodiano da parte di Margheriti è sorprendente: forse unicamente le scene ambientate nella giungla vietnamita sono un po’ deboli, in questo senso, anche per via del contrasto creato da sequenze che sembrano riprese originali di guerra. Tuttavia, appena la storia comincia a muoversi nel tipico scenario americano, la classica cittadina di provincia –gli esterni sono girati perlopiù ad Atlanta– il film appare come un credibile prodotto d’oltreoceano. Non una pellicola mainstream, ovviamente, ma un onesto film di genere, di quelli che, nel decennio al tempo appena cominciato, invaderanno il globo. 

In quest’ottica ambigua è scelto anche il cast, dominato dalla prestazione non solo muscolare dell’ottimo John Saxon, nei panni dell’ex capitano Norman Hopper. Saxon, oltre che di origini italiane –che il vero nome Carmine Orrico lascia ampiamente intendere– era attore capace di stare a suo agio sullo schermo in produzioni hollywoodiane allo stesso modo in cui si cimentava con il cinema di cassetta del Belpaese, e in Apocalypse domani garantisce, con la sua esperienza e il suo carisma fisico, un’ampia parte della riuscita del film. Il resto degli interpreti è scelto alimentando questa doppia anima dell’operazione: sul versante italiano, Giovanni Lombardo Radice –è Charlie Bukowski, il reduce del Vietnam che innesca tutta quanta la vicenda– era sostanzialmente all’esordio, mentre un po’ di esperienza in più la poteva vantare Cinzia De Carolis –nel ruolo di Mary, la ragazzina che provoca il capitano Hopper. Nonostante non venga citato nei titoli di testa, l’esponente più importante e noto del cinema italiano coinvolto nel cast è però Venantino Venantini, nei panni dell’agente di polizia. La moglie del capitano Hopper, Jane, è interpretata dalla semisconosciuta Elizabeth Turner, un altro elemento un tantino ambiguo: già vista in più di qualche film italiano, aveva però l’aspetto della tipica donna americana emancipata. Bella, alta, bionda, fisicamente inappuntabile, si destreggia con mestiere in un classico ruolo di contorno. Più invasiva la prestazione di Tony King –è Tom Thompson, l’altro soldato americano salvato in Vietnam– che dà man forte al commilitone nella bagarre cannibalica. 

King era attore americano relativamente noto, sia per i suoi ruoli marginali ma anche in produzioni importanti –era addirittura nel cast de Il Padrino, 1972, regia di Francis Ford Coppola– sia per film d’azione, le partecipazioni a serie televisive, o le pellicole blaxploitation. Anche per quel che concerne il canovaccio, Margheriti mischia sapientemente le carte, dal momento che il tema cannibalico è trattato prendendo spunto dai film sugli zombie o, volendo, su quelli dei vampiri. Bukoswki e Thompson, durante la prigionia di guerra in Vietnam, avrebbero infatti contratto un virus che li ha trasformati in cannibali. In questo modo Margheriti può alimentare il suo film con la suspense legata al dubbio o alla tempistica degli effetti del contagio che i reduci distribuiscono durante il racconto. Naturalmente anche Hopper finirà contagiato, per la verità sin da subito, ovvero dalla liberazione dei soldati prigionieri che si vede nell’incipit bellico della pellicola. La presenza di un virus che trasmette il fatale contagio, permette al regista romano un finale aperto, assai pessimista ma a suo modo anche ironico, in linea con gli horror del tempo. In ogni caso, pur presentando il suo film come un prodotto americano, Margheriti ha sempre la capacità di tenere in vita il suo legame con il cinema di genere italiano, si veda, giusto a titolo di simbolico esempio, il whisky J&B insistentemente in bella vista in casa Hopper. Più che una citazione, in questo caso, la bottiglia verde con l’etichetta gialla sembra una sorta di ancora, un legame, con il cinema del paese d’origine del regista. Intanto, dopo una lunga sequenza ambientata tra le fogne, le forze dell’ordine riescono ad avere la meglio sullo sparuto manipolo di cannibali e la polizia può dirsi soddisfatta per aver finalmente chiuso la questione. Guardando l’autopattuglia con gli agenti andarsene, Mary e il fratellino, sorridono sornioni. Dietro di loro, si vede penzolare sanguinante il cadavere della loro acida zia (Joan Riordan): la fine che meritava, almeno in un film di cannibali.   




Elizabeth Turner 


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martedì 27 febbraio 2024

IL LUNGO COLTELLO DI LONDRA

1444_IL LUNGO COLTELLO DI LONDRA (Circus of Fears). Regno Unito 1966; Regia di John Llewellyn Moxey.

Dopo tre anni e sei adattamenti per la serie The Edgar Wallace Mysteries, John Llewellyn Moxey decide di sfruttare questa sua esperienza con i soggetti del grande scrittore inglese per il ritorno al cinema da grande schermo. Il lungo coltello di Londra – funambolico titolo italiano per l’originale Circus of Fear – è infatti tratto dal racconto I tre giusti del maestro britannico dei gialli. Rispetto ai precedenti film per la Tv, Il lungo coltello di Londra si differenzia innanzitutto per il colore della pellicola in luogo del canonico bianco e nero e per una maggiore durata, la classica ora e mezza dei film previsti per l’uscita nelle sale contro l’ora scarsa dei precedenti televisivi. Questo permette a Moxey di dare ampio spazio agli intrighi della trama che, peraltro, finiscono per risultare perfino eccessivi. Anche perché il colpo di scena finale con la scoperta del colpevole, il film è un classico whodunit, non è di per sé efficacissimo e funziona solo per l’ammaliante manovra narrativa orchestrata dagli autori. In effetti il meccanismo giallo per essere davvero efficace dovrebbe dare più informazioni allo spettatore sul colpevole, dissimulandole abilmente in modo che la rivelazione finale non arrivi del tutto inaspettata. Lettori e spettatori, quando il racconto deduttivo è ben costruito, più che per il colpo di scena in sé sono stupiti per non esserci arrivato da soli pur avendo avuto gli elementi per farlo. Ne Il lungo coltello di Londra questo non avviene non potendo sapere, chi guarda, che Eddie (Eddi Arent) sia il figlio del Grande Danilo, un noto lanciatori di coltelli circense. Tuttavia il ritmo incalzante degli avvenimenti non dà tempo allo spettatore di annoiarsi tenendo le tante trame in costante sviluppo e questo è in effetti uno stratagemma narrativo altrettanto valido al finale davvero a sorpresa. Da questo punto di vista Moxey si supera nello strepitoso incipit: una decina di minuti senza una parola, che raccontano di una complicata rapina ad un furgone trasporta valori, fermato e derubato proprio in mezzo al Tower Bridge, il celeberrimo ponte mobile di Londra sul Tamigi. La regia, in ogni caso, non molla mai la presa anche nel resto del lungometraggio. Il regista inglese sfrutta abilmente l’ambientazione circense per creare un’atmosfera davvero affascinante e che racchiude le peculiari e differenti influenze di quel particolare universo. Un pizzico di esotismo – gli animali come leoni, elefanti, dromedari – la magia tipica del circo – gli acrobati, i clown, il nano – ma anche un filo di inquietudine – le maschere grottesche, il lanciatore di coltelli. Il tutto in una cornice semi documentaristica visto che le riprese furono realizzate nel Bill Smart’s Circus, uno dei più famosi circhi londinesi. 

In ogni caso il versante inquietante è poi alimentato anche dalla trama – siamo pur sempre in un racconto di Wallace – e dal cast, nel quale spicca la presenza di Christopher Lee nel ruolo di Gregor, il domatore di leoni che se va in giro con una maschera nera sul volto. In effetti l’uomo si spaccia per il proprio fratello, e questo passaggio fa parte del complesso castello narrativo che presenta numerosi svincoli e intrecci. I fan di Lee potrebbero rimanere un po’ delusi, visto che il mitico attore icona dell’horror britannico scopre il volto solo verso il finale ma, per lo spettatore diciamo così neutrale, il fatto non costituisce in sé una nota di debolezza del film. Klaus Kinski è un altro elemento del cast che incrina l’atmosfera con la sola presenza: nel racconto ha un ruolo marginale, e forse serve più che altro a ribadire, insieme a Heinz Drake (è Carl) la coproduzione tedesca dell’opera. In questo senso appare chiaro il debito del film di Moxey al cosiddetto genere krimi, ad esempio l’incipit che ricorda gli stilemi della spy-story, oltre alla presenza di Kinski, vera star della corrente tedesca ispirata a Wallace, ma anche dello stesso Drake che in patria era altrettanto noto nell’ambito dei film gialli prodotti dalla mitica Rialto. 

Nonostante la trama sentimentale non sia particolarmente sviluppata, nel cast spiccano le presenze delle biondissime Suzie Kendall (è Natasha) e Margaret Lee (è Gina) che permettono comunque alla storia qualche passaggio acceso, dalle gelosie tra uomini ad un lieve momento erotico. In sostanza tutta la sponda ambientata nell’ambito circense gronda tensione: il malloppo della rapina è stato nascosto lì e questo è un ulteriore elemento che alza i toni ma già tra i vari personaggi non è che regni un’atmosfera idilliaca. Fedele al suo classico cliché dei racconti di Wallace non manca neanche il ricatto, con Mr Big (Skip Martin) che scuce denaro a Gregor. Che il personaggio del nano si chiami Mr. Big [Grande] è un pizzico ironia, altrimenti nel lungometraggio esclusiva delle forze dell’ordine chiamate ad indagare. L’ispettore Elliot (Leo Genn) è un personaggio che dispensa il tipico humor inglese semplicemente con il suo compassato modo di fare. Il suo superiore Sir John (Cecil Parker) è invece direttamente ridicolo e viene preso in giro in modo spudorato dallo stesso Elliot, ad esempio nella gag delle sigarette, dove l’ispettore gli fa il verso imitandolo. Nonostante tutto, la polizia nel racconto è peraltro vista come garanzia di legalità e lascia un’impronta decisamente positiva. Come suo solito, Moxey opera sempre con un misto tra audacia e prudenza e per il suo ritorno al grande schermo, preferisce un soggetto meno pessimista di altri suoi adattamenti da Wallace. Senz’altro positivo, in ogni caso: Il lungo coltello di Londra è un testo ricco di azione e tensione e conferma l’abilità tecnica del regista.






Margaret Lee 









Suzy Kendall 






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domenica 25 febbraio 2024

LO STRANO AMORE DI MARTA IVERS

1443_LO STRANO AMORE DI MARTA IVERS (The strange love of Martha Ivers). Stati Uniti 1946; Regia di Lewis Milestone.

La cosa che incuriosisce maggiormente, nel guardare Lo strano amore di Marta Ivers di Lewis Milestone è la struttura del racconto. Se prendiamo il corpo narrativo principale, siamo di fronte ad un classico noir degli anni Quaranta: un uomo – Sam (Van Heflin) – che ha una storia con un giovane ragazza – Tony (Lizabeth Scott) – incontra una dark lady – Marta Ivers (Barbara Stanwyk) – che prova a sedurlo per condurlo alla rovina, almeno da un punto di vista morale. La presenza di Walter O’Neil – Kirk Douglas, al suo esordio sullo schermo – marito di Marta, in parte serve a rinvigorire i toni melodrammatici, visto che il classico triangolo è in questo modo raddoppiato: da una parte abbiamo Tony-Sam-Marta, mentre dall’altra Sam-Marta-Walter. In effetti, Tony e Walter, ruoli affidati ad un’attrice semi-esordiente e ad un attore al debutto, sono lievemente marginali nella storia, che è tutta giocata sul rapporto tra il protagonista Sam e la dark lady Marta. Il che, come detto, rientra nei binari classici del noir; il fatto che Van Heflin e la Stanwyk fossero, al tempo, all’apice della carriera è una solida garanzia per la riuscita del film. Barbara, in particolar modo, è sublime, sia nel tratteggiare una figura ambigua che man mano rivela la sua natura malvagia, sia nello sparare battute ficcanti con la sua tipica verve abilmente rivestita di classe cristallina. E, restando in tema di elogi, val la pena ricordare il carisma baldanzoso di Van Heflin o l’algida bellezza di Lizabeth Scott che, all’occorrenza, mostra con grazia le gambe, lasciando intendere possibilità che, purtroppo, in carriera non raccoglierà pienamente. 

Era al suo secondo film e si poteva pensare che l’attrice fosse una nuova diva, mentre rimarrà piuttosto una promessa poco mantenuta. Chi stupisce, in modo semmai al contrario, è Kirk Douglas: intendiamoci, è credibilissimo nel ruolo di maritino che si fa medicare la manina dalla moglie, ma fa un certo effetto sapendo che razza di verve vitale mostrerà l’attore nel corso della carriera. Ad impreziosire il sontuoso cast è anche Judith Anderson – è la severa zia di Marta – un ruolo che riprende la sua celeberrima interpretazione della governante in Rebecca – La prima moglie (1940, di Alfred Hitchcock). La sua apparizione sullo schermo è, per la verità, limitata al fondamentale incipit; questa parte introduttiva è la nota più caratteristica di Lo strano amore di Marta Ivers ma, prima di vedere il perché, chiudiamo con le tante note di merito del film. La regia di Milestone è precisa anche se, se proprio si vuol disquisire, lascia un po’ a desiderare la veridicità di un paio di scene cruciali. L’assassinio non è certo un capolavoro di messa in scena e nemmeno lo è l’incidente che occorre a Sam, che finisce con l’auto contro un palo: peccati veniali in un film che ha certamente ben altri meriti che non la resa dinamica di questi passaggi. Tra le altre cose, val la pena ricordare la sceneggiatura di Robert Rossen, una garanzia, così come la musica di Miklòs Ròzsa, per un film, nel complesso, coinvolgente ed appassionante. Ma si accennava all’incipit: in effetti, se la struttura del racconto si è visto essere quella tipica dei noir, l’introduzione richiama il citato capolavoro hitchcockiano anche solamente per la presenza della Anderson nel ruolo di una donna che opprime con la sua autorità la giovane protagonista. E, proprio come in un thriller del maestro inglese, si consuma un delitto: la giovanissima Marta (Janis Wilson), colpisce la zia che precipita dalla scala rimanendo uccisa. Accanto alla ragazzina c’è Walter, figlio del tutore di Marta, che assiste impietrito. Sam, al contrario, se l’è data a gambe: c’è da capirlo, è solo un poveraccio e facilmente verrebbe incolpato, viene da dedurre. La natura di Marta, fin lì apparsa unicamente ribelle nei confronti della dispotica zia, comincia proprio ora a delinearsi meglio: con la sua personalità impone al debole Walter la versione ufficiale dell’accaduto. 

La zia è caduta incidentalmente dalla scala ed è morta; si può stare tranquilli, uno scapestrato come Sam non è certo il tipo da fare la spia. Questi fatti avvengono una ventina d’anni prima rispetto al corpo principale del film, ma stravolgono il senso del canovaccio noir che, in apparenza, lo sostiene. In effetti, nella seconda citata scena non irresistibile, Sam va a sbattere perché non vede una curva; al marinaio che è con lui sull’auto, lo dice anche esplicitamente: “la strada ha curvato; ma io no”. È infatti la strada, la via, ad essere deviata, e non il protagonista, che è un individuo a suo modo onesto, come ancora dice esplicitamente Sam, pagando a suon di cazzotti un suo debito. Inoltre, la deviazione in cui incappa il protagonista, non è per un luogo ignoto o sconosciuto, ma per la sua natale Iverstown. Iverstown: letteralmente la cittadina degli Ivers, la famiglia di Marta, quella che era stata sua amica o forse qualcosa in più. Le cose stanno andando a rovescio, insomma: il noir è un genere metropolitano e qui siamo al contrario in un paesino di periferia. La dark lady è l’ex fidanzatina dell’eroe, anche se ormai è divenuta una vera e propria mantide, mentre il terzo incomodo, il marito di Marta, sebbene si comporti come un mezzo gangster è il Procuratore Legale. Allo stesso modo, nel gioco dei ribaltamenti dei ruoli, la candida ed ingenua Tony, non è una ragazza di strada dal cuore d’oro, ma una condannata per furto in libertà vigilata. 

La questione si inasprisce perché, quando Walter e Marta vedono tornare sulla scena Sam, hanno paura che possa smascherarli, rivelando la verità sull’omicidio della signora Ivers. A suo modo la coppia aveva già sistemato le cose, incolpando un innocente finito poi alla forca; a questo punto l’arrivo del vecchio amico era un pericolo troppo grande da correre. Il pretesto narrativo è ottimo e permette, soprattutto alla Stanwyk, una prestazione superlativa, tutta ambiguità nel cercare di capire le intenzioni di Sam, approfittarne per scaricare il troppo debole Walter ma, soprattutto, non veder vanificato il lavoro che aveva profuso nel decuplicare l’impero industriale di famiglia. Benissimo, come già detto, sia Heflin, che sembra non sapere nulla del fattaccio ma lascia comunque il dubbio, che Douglas, che dà vita ad un individuo debole ma subdolo, e perciò pericoloso. Ma, al di là di questi innegabili ed eccellenti pregi, quello che stupisce è come Milestone demolisca l’America utilizzando a rovescio un genere che già poneva alcune critiche al paese. Il Male, il peccato originale in versione a stelle e strisce, quello che mina sin dall’origine il Sogno Americano, è nella stessa radice della società. La ricchezza e la prosperità dell’America sono state realizzate da gente senza scrupoli, come ammette di essere Marta Ivers, che non ha esitato sin da subito a macchiarsi di qualunque crimine. Le autorità, la polizia, ad esempio il Procuratore Legale e i suoi detective, sono una forza negativa: nel film, di fatto, sono i cattivi.
A quel tempo, Milestone si disse stupito che finì sulla cosiddetta Lista Grigia, una sorta di purgatorio istituito dal Maccartismo; non la condanna esplicita della famigerata Lista Nera, ma comunque una segnalazione poco piacevole. Il regista ne fu indispettito, visto che ebbe difficoltà a lavorare pur senza essere stato accusato apertamente. A quel punto, qualcuno disse che avrebbe preferito finire direttamente sulla Lista Nera.
A vedere Lo strano amore di Marta Ivers, ci si stupisce che non vi finì, in effetti.
  




Barbara Stanwyck




Lizabeth Scott 






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