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giovedì 30 luglio 2020

UN UOMO, UNA CITTA'

609_UN UOMO, UNA CITTA'. Regia di Romolo Guerrieri.

Alcuni aspetti di Un uomo, una città di Romolo Guerrieri, film del 1974, lo rendono particolarmente interessante. Ad esempio l’idea, già anticipata dal titolo, di fornire uno spaccato di vita cittadina della Torino dei primi anni settanta, vista con gli occhi del commissario Michele Parrino (Enrico Maria Salerno). La storia del film non vede, infatti, il funzionario di polizia alle prese con un caso particolare ma, piuttosto, con una serie di situazioni, di indagini che si sviluppano con personaggi ricorrenti, che bene rendono l’idea dell’aria che tirava nel capoluogo piemontese nel periodo tanto tribolato a cavallo tra i giorni della contestazione e gli anni di piombo. La grande cura con cui vengono descritti i vari personaggi tradisce forse l’origine letteraria dell’opera: Il commissario di Torino, romanzo da cui Guerrieri ha tratto il suo film, è scritto a quattro mani dai giornalisti di cronaca Riccardo Marcato e Pietro Novelli. Dal commissario Parrino, al giornalista Paolo Ferrero (Luciano Salce), al brigadiere Polito (Gipo Farassino), all’aitante agente Balestrieri (Francesco Ferracini) sono tutte figure ben tratteggiate. Meno riuscite quelle femminili: un po’ sprecate sia Paola Quattrini nei panni di Anna, la fidanzata del commissario, che Françoise Fabian in quelli di Cristina, madre di un ragazzo coinvolto in un giro losco, di cui lo stesso commissario si invaghisce. C’è poi anche Tino Scotti nella parte del cavalier Battista, uno strampalato vecchietto che non si rassegna ad essere pensionato e vive nel culto della fabbrica Fiat e del suo padrone, l’Avvocato. 

E’ una caduta di tono, una macchietta che viene troppo in fretta a noia perché non riesce a celare minimamente il moralismo qualunquista travestito da critica sociale tanto in voga all’epoca, e che permea tutta quanta la pellicola. Gli sberleffi distribuiti con nonchalance sia alla borghesia nobiliare della Torino-bene che al più popolano genere cinematografico poliziottesco, rivelano come gli autori non riescano a nascondere la propria paternalistica supponenza, che viene allo scoperto completamente quando Salerno guarda ripetutamente in macchina, rivolgendo la predica anche all’incredulo spettatore e non solo alla povera Cristina. 

Il tema sociale tanto sentito da Guerrieri è la questione meridionale che a Torino era particolarmente evidente; si trattava certo di un problema concreto ma non è ribaltando i luoghi comuni il modo in cui si può fare chiarezza, al massimo si crearono luoghi comuni contrari, come in effetti accadde (e ancora accade) troppo spesso nel cinema italiano. Non tutti i meridionali immigrati sono criminali, ma nemmeno si può mostrare che lo sono praticamente tutti i figli della borghesia. Perlomeno se si pretende di pontificare moralisticamente, cosa che, purtroppo, è il limite più evidente del film di Guerrieri. Il quale, per altro, nemmeno lo vuole nascondere, chiarendo i suoi intenti nella morale della canzone dell’osteria o nel citato sguardo nell’obiettivo del suo protagonista. Un peccato di superbia sempre in agguato, nel cinema (così come nella cultura) degli anni ‘70 del belpaese, che finisce per sciupare questo Un uomo, una città, un poliziesco con l’ambientazione tipica di una commedia (con tanto di musica adeguata) che, con un rigore maggiore, avrebbe potuto ambire ad essere un noir italiano sul modello dei polar francesi. Purtroppo Guerrieri snobba il poliziottesco (‘bella minchiata’ in commento ad un titolo giornalistico che lo invoca) ma non dimostra qui una cifra autoriale per fare qualcosa di più ambizioso.


Françoise Fabian




Paola Quattrini


  
       



martedì 28 luglio 2020

IL GRANDE PAESE

608_IL GRANDE PAESE (The Big Country)Stati Uniti 1958. Regia di William Wyler.

Un film monumentale, questo Il Grande Paese di William Wyler, dove di grande c’è davvero tutto: a cominciare dal commento sonoro, con la travolgente musica dei titoli di testa, opera di Jerome Moross, davvero strepitosa. Naturalmente di grande c’è anche il soggetto del film, ovvero il sud-ovest americano, le grandi distese di erba, i canyon: qui si vede tutta la stoffa del regista tedesco naturalizzato americano, che compone le sue inquadrature con grandissima cura permettendo allo spettatore di spaziare con lo sguardo sull’enorme schermo del formato Technirama. Poi ci sono gli attori: Grecory Peck (che interpreta il protagonista, il comandante di marina James McKay) e Charlton Heston (nei panni di Steve Leech, rivale in amore, almeno in prima istanza di McKay), sono due autentici marcantoni, a cui va aggiunto Chuck Connors (Buck, il figlio maggiore degli Hannassey) attore inferiore di rango e di ruolo ma non in fatto di presenza scenica. In realtà i personaggi più ingombranti sono i due patriarchi delle famiglie Terril e Hannassey: il maggiore Henry Terril (Charles Bickford) non è imponente di statura ma ha carisma e autorità da vendere; Rufus Hannassey (Burl Ives) è invece una sorta di orco delle favole con una personale legge morale. Il film è ambientato durante lo scontro che questi giganti mettono in scena, coinvolgendo non solo le famiglie ma tutta la zona. McKay, marinaio e uomo dell’est, dovendo sposare la figlia del maggiore Terril, Patricia (una Carroll Baker piuttosto stucchevole), si reca al ranch del futuro suocero, nello sconfinato Far West. L’arrivo di un elemento estraneo scatena subito più di un pretesto per alimentare la faida tra le famiglie rivali e Mckay, provando a sottrarsi a questa spirale di violenza, verrà ben presto messo in discussione. 

Il film è sicuramente di genere western ma il protagonista lo affronta in modo, diciamo così, più contemporaneo andandone in giro sempre disarmato; in effetti McKay non solo è estraneo all’ambiente in cui si trova catapultato ma anche al tempo, un po’ come se tornasse ad un’epoca precedente la sua. Si prenda l’esempio simbolico del suo cappello che è subito preso di mira non essendo un classico stetson da cow boy; e nonostante nel corso del film lo cambierà, rimarrà fedele a fogge più moderne. Insomma, deciso a non scendere a compromessi con la barbarie degli abitanti del west, McKay si troverà solo, abbandonato dai Terril, compresa quella che doveva essere la futura sposa, e guardato in cagnesco dagli Hannessy. Buon per lui che nella storia ci sia anche la maestrina Julie (una deliziosa Jean Simmons) che lo ricompenserà per il rigore morale dispensato nel film. Pellicola western ma dal sapore dei classici film drammatici americani, Il Grande Paese prova a trovare una soluzione ai problemi della convivenza civile che non sia la violenza o la legge del più forte. C’è chi ci ha colto un originale, per un western, riferimento alla Guerra Fredda, con gli americani ben rappresentati dal maggiore Terril e i suoi, e i russi, di cui gli Hannassey (Rufus in primis) sono una sorta di rozza caricatura. Nel caso sarebbe una chiave di lettura particolarmente singolare e non certo abituale. Tuttavia la strepitosa musica di Moross consegna di diritto Il Grande Paese al novero dei classici del genere western.



















Carrol Baker




Jean Simmons












domenica 26 luglio 2020

IL MEDICO DEI PAZZI

607_IL MEDICO DEI PAZZI Italia 1954. Regia di Mario Mattoli.

Dopo Un turco napoletano, e Miseria e nobiltà, Mario Mattoli porta nel cinema di Totò un’altra opera teatrale di Eduardo Scarpetta, Il medico dei pazzi. Ancora una volta il regista decide di lasciare perfettamente visibile l’origine teatrale del film, con una cornice introduttiva e conclusiva dove gli attori, tra cui appunto uno strepitoso Totò, si rivolgono direttamente agli spettatori, creando un effetto finzione nella finzione. Come nei precedenti di quella che potremmo definire una trilogia scarpettiana, anche in questo lungometraggio l’ambientazione in set chiaramente artificiosi e i tenui colori pastello delle immagini, rimandano direttamente agli allestimenti di un palco teatrale; in scena poi ci sono attori in costume, (Otello, il militare), musicisti e saltimbanchi. E’ curioso che Mattoli in questi tre film con Totò tratti da Scarpetta abbia sempre omaggiato in modo così evidente il teatro; probabilmente il regista ritiene l’origine teatrale (delle opere stesse ma anche del cinema in generale) un connotato di nobiltà per la settima arte. O forse il suo intento è rimarcare come il cinema sia un mezzo (un media) popolare, in grado cioè di diffondere la cultura (il teatro) su larga scala. Sia come sia, anche Il medico dei pazzi è molto piacevole soprattutto per la cura e la raffinatezza dei passaggi narrativi, merito sicuramente del soggetto alla base della trasposizione. Totò (Felice Sciosciammocca) è in ottima forma, gli manca un po’ una spalla adeguata ma se la cava comunque molto bene anche da solo. Nel cast anche Aldo Giuffrè (Ciccillo, il nipote di Felice) e la scenicamente notevole Franca Marzi (la signora Cristaldi). Per una volta Totò non è il truffatore ma il truffato e, tutto sommato, anche per via di questa soluzione narrativa, il film risulta meglio equilibrato di altri del Pincipe della risata.   




Franca Marzi



venerdì 24 luglio 2020

IL GIORNO DELLA VENDETTA

606_IL GIORNO DELLA VENDETTA (Last Train from Gun Hill). Stati Uniti 1959. Regia di John Sturges.

Il titolo originale di quest’opera, Last train from Gun Hill, sembra porci di fronte ad un ultimatum: l’ultimo treno è un chiaro riferimento ad un’ultima possibilità, ad un’ultima via di uscita. In realtà il film di vie di uscita non ne prevede; tutto sembra scritto e quando si arriva al momento della verità è solo il tempo della riscossione, visto che i giochi sono già stati fatti in precedenza. In effetti la pellicola può essere divisa in due fasi: l’antefatto e la storia vera e propria. L’antefatto è in realtà la parte più importante, quella in cui avviene il crimine (la violenza e l’uccisione di un’indiana da parte di due cowboys ubriachi), quella in cui i personaggi decidono liberamente, con il libero arbitrio (sebbene quello dei cowboys obnubilato dall’alcool). La seconda fase è semplicemente la conseguenza della prima: qui i personaggi smettono di scegliere e si attengono solamente al proprio ruolo. Il tema dominante del film comincia, non a caso, con lo sceriffo Pat Morgan (un araldico Kirk Douglas) che sta raccontando, in modo assai efficace, una storia del vecchio west ai ragazzini del paese. Gli eventi drammatici occorsi nel prologo irrompono, innestandosi alla perfezione alle parole di Morgan che, da quel momento, smetterà i panni dello sceriffo di paese e buon padre di famiglia per assumere quelli della Legge, della Legge in persona. In questo senso c’è forse l’equivoco del nome dell’opera nella versione italiana: Il giorno della vendetta è, in effetti, fuori luogo perché Pat Morgan non si vendicherà dell’assassino della sua donna (la ragazza indiana era infatti sua moglie) ma, con modi sicuramente più consoni ad una mentalità americana piuttosto che italiana, porterà a termine il corso della Giustizia

Lo sguardo narrativo quasi astratto di Sturges è sottolineato dalle molte inquadrature dei personaggi iscritti negli stipiti di porte e finestre o all’interno di specchi; insomma, l’idea che si ha è quella di una rappresentazione incorniciata, fuori quindi dal contesto reale. Il tema del racconto, e il suo svilupparsi in modo estraneo alla realtà, ritorna, nella terrificante anteprima che Morgan fa al suo prigioniero, prospettandogli con un’agghiacciante cronaca la futura esecuzione sulla forca con tanto degli angoscianti giorni di attesa. Ma la questione è messa in modo esplicito dallo stesso regista: al portiere dell’albergo che gli obietta “Lei va contro la legge!” lo sceriffo Morgan risponde perentorio “la legge sono io”. Non è quindi la Vendetta, come vorrebbe il titolo italiano, a fare il suo corso in questa pellicola, ma la Legge, la Giustizia: e, nell’accezione tipicamente americana, questa non fa nessuno sconto. La sua mano è inesorabile, inarrestabile: proprio come lo sceriffo Morgan che procede contro tutto e contro tutti affinché i colpevoli siano puniti. Colpevoli che, di fronte alla suprema Giustizia e non ad un concreto tribunale terreno, sono tali senza dubbi, senza possibilità di errore. 


Nel film manca, infatti, la fase istruttoria, tutto è chiaro quasi fin da subito: la sella dell’assassino è marchiata, il colpevole è sfregiato e gli altri passaggi chiave si svelano facilmente (i bar chiusi la domenica). Non ci sono tante piste da seguire: ce n'è una sola e porta al pagamento delle proprie colpe. L’inesorabilità di questa storia, anticipata dal titolo americano (l’ultimo treno), è resa con effetto anche dalle musiche dell’ottimo Dimitri Tiomkin, mentre nel cast Anthony Quinn è tetro e tenebroso quanto basta e la figura femminile di turno, la deliziosa Caroline Jones, è addirittura strepitosa. In effetti è davvero solo una figura, tanto da sembrare quasi bidimensionale: la si vede tra le lettere della vetrina del saloon, quasi fosse un’illustrazione parte di essa, si sposta nel film camminando ma senza produrre alcun movimento visivo, come fosse una figurina, e si cambia d’abito senza reale bisogno, come fosse una bambola. Linda, il personaggio interpretato dalla Jones, appare naturalmente nel film con sembianze femminili ma il ruolo di donna le è sostanzialmente negato: la femminilità ad essa intrinseca, in questa storia completamente estranea, è rimasta violata e uccisa insieme alla ragazza indiana dell’incipit. Merito al solido e valido regista John Sturges che costruisce magistralmente un film opprimente, senza momenti di svago o cedimenti. La tensione è in costante crescendo e la scena con l’albergo in fiamme e lo sceriffo che conduce il calesse senza nemmeno potersi sedere è da antologia. Il finale, pur se drammatico, è vagamente consolatorio ma ci lascia impassibili, senza emozioni che non siano un’amara disillusione. Proprio come il volto di un grande Kirk Douglas nell’ultima scena.    










Ziva Rodman





Carolyn Jones