Translate

domenica 29 aprile 2018

TRILOGIA DEL TERRORE

138_TRILOGIA DEL TERRORE (Trilogy of terror). Stati Uniti, 1975;  Regia di Dan Curtis.

Trilogy of Terror è un film a episodi per la televisione che, a dispetto di questa sua matrice considerata generalmente minore, si rivela invece un prodotto di ottimo livello. Pur essendo sia regista che produttore, il pur bravo Dan Curtis non è certamente l’unico o il maggior responsabile della riuscita dell’opera: egli è parte di un triangolo creativo che ha il suo vertice nella presenza assolutamente magnetica di Karen Black, e il terzo elemento nella base fornita dai racconti del formidabile scrittore Richard Matheson, che sono le fonti ispiratrici di tutti e tre gli episodi. Matheson, inoltre, partecipa attivamente all’adattamento del terzo capitolo, Amelia, non a caso il più terrorizzante ma anche quello dove l’atmosfera inquietante è gestita in modo sapiente e certamente superiore agli altri due episodi. Che in ogni caso sono validi: il primo, Julie, racconta tutta una storia da un certo punto di vista, poi ribaltato nel finale, con un cambio di prospettiva tipico dello scrittore americano. A livello narrativo, per legittimare ciò viene, anche se in modo solo accennato, introdotto l’elemento fantastico, che sembrava invece assente nel racconto (e questo è un ulteriore ribaltamento). Se la Julie interpretata efficacemente dalla Black, è a conoscenza di frasi che non avrebbe potuto ascoltare, allora potrebbe essere una strega o un qualcosa del genere, cosa che spiegherebbe anche il rovesciamento prospettico dell’intera vicenda. Ma saggiamente la cosa è solo abbozzata, senza ulteriori approfondimenti, in quanto arriva opportunamente una nuova vittima a suonare alla porta della nostra perfida Julie. E’ così, in un certo senso, dimostrata la supremazia dell’emozione indotta dalla narrazione (ci si preoccupa per il nuovo malcapitato) rispetto all’esigenza di una spiegazione razionale degli eventi.

Il secondo episodio è più scontato, e qui forse si paga la scelta di fare interpretare sia Millicent che Theresa (le due protagoniste dell’episodio Millicent e Theresa) dalla stessa attrice (ovviamente la Black), nonostante siano fisicamente diversissime pur essendo gemelle. Karen è bravissima, oltre che in grandissima forma nelle vesti della disinibita Theresa, ma il gioco sul suo doppio ruolo è un po’ troppo prevedibile, e l’episodio in definitiva termina come era abbastanza intuibile. Il terzo capitolo, Amelia, è quello più bello, più memorabile e soprattutto più terrorizzante (legittimando pienamente l’intera trilogia nell’ottica del titolo del film).

L’impronta di Richard Matheson nella sceneggiatura è notevole, si veda il panico crescente quando il feticcio zuni è sparito e si sentono i primi rumori, ma anche Karen Black sembra avere avuto alcune intuizioni eccellenti nella riuscita di questo episodio, e non solo per la sua magistrale e folle interpretazione. Oltre ad alcuni dialoghi da lei suggeriti, pare infatti che l’idea della scena finale con la dentatura simile a quella del feticcio sia stata sua, e questo dimostrerebbe una notevole capacità di intuizione e una grande disponibilità a mettersi in gioco. Se gli attori sono comunque in numero molto limitato anche nel restante lungometraggio, in Amelia ritroviamo la solitudine (evidenziata anche dalla scarsa comprensione che la donna riscontra nelle telefonate alla madre, al fidanzato o al centralino telefonico), uno dei temi portanti della poetica mathesoniana.

Nell’episodio fisicamente appaiono solo Amelia e il feticcio zuni e similitudini in altre opere del geniale scrittore le possiamo trovare, senza scomodare la biblioteca ma restando alle opere cinematografiche, in Duel di Steven Spielberg e anche ne La notte dei morti viventi, dove la solitudine derivava dal ribaltamento del concetto di normalità. Un altro elemento importante e tipico delle tematiche dello scrittore americano è l’assenza di movente, in questo caso di una spiegazione razionale di quanto succede, (similmente a Radiazioni BX distruzione uomo di Jack Arnold dove, se è vero che ce n’era una, era però debolissima). La mancanza di una giustificazione a quanto accade ai protagonisti nei racconti di Matheson li lascia ancora più soli e disperati, in quanto non hanno mai nemmeno la soddisfazione di sapere il motivo della loro condanna. Un’innovazione in un genere, quello che si fonda su un qualche elemento fantastico, che abitualmente è invece prodigo di spiegazioni per legittimare le anomali mostrate, in parte a mo’ di giustificazione da parte dell’autore, in parte per alimentare la sospensione dell’incredulità necessaria a questo tipo di racconti. Matheson non se ne cura, perché pur presentando storie apparentemente incredibili come un feticcio zuni che si anima, il suo essere credibile deriva dall’utilizzo dei codici narrativi della realtà, il suo essere crudele e senza motivazione logica.
Per questo Matheson è un genio, e per questo Trilogia del terrore è giustamente ritenuto un film di culto.
E poi c’è sempre in scena Karen Black.


Karen Black





venerdì 27 aprile 2018

IL GRANDE RE

137_IL GRANDE RE (Der grosse konig). Germania, 1942;  Regia di Veit Harlan.

Film prodotto nella Germania nazista nel 1942, ottenne da Goebbels il riconoscimento “Film della Nazione”, mentre nell’Italia fascista vinse la Coppa Mussolini al Festival di Venezia come miglior film straniero. Questi riconoscimenti non devono pesare in modo negativo preventivamente nella valutazione dell’opera; è meglio premetterli, a scanso di equivoci, ma la pellicola ha una sua autonomia al di là della matrice propagandistica che però è comune a tantissimi film di guerra, storici o biografici. Da un punto di vista storico Il Grande Re è visto ovviamente in ottica germanica, e quindi c’è il normale accento sulle ragioni prussiane come è lecito attendersi in questi casi. La faziosità nei confronti degli austriaci, o dei russi, è però assai limitata, e non inficia lo sguardo dello spettatore neutrale. Di notevole impatto l’aspetto visivo, che conferma l’alta scuola cinematografica tedesca del periodo (il film, prodotto dalla Tobis Filmkunst, venne distribuito dalla celebre Universum Film, meglio nota come UFA). Nell’insieme la pellicola è fondamentalmente composta da scene d’interni e dalle riprese delle battaglie. Nelle prime spicca la grandissima abilità recitativa di Otto Gebhur, che interpreta Federico II di Prussia, Il grande Re del titolo dell’opera. L’attore ha interpretato già più volte Federico II, con il quale ha anche una notevole somiglianza: è forse divenuto un po’ troppo anziano per il ruolo, ma compensa con un’ottima recitazione che sfocia nell’apparente identificazione fisica e psicologica col personaggio. Da parte sua il regista Veit Harlan gestisce in modo sicuro gli elementi nelle riprese d’interni; le ricostruzioni ambientali sono accurate e d’atmosfera, la direzione degli attori puntuale. 

Uno degli aspetti migliori dell’opera sono però le scene di guerra, in particolar modo quelle iniziali della battaglia di Kunersdorf. In questi frangenti Harlan dirige un autentico kolossal bellico, con movimenti di masse di soldati e riprese panoramiche che illustrano le fasi del conflitto in modo assolutamente spettacolare. Il punto di vista sulla battaglia è simile al quadro generale dei movimenti delle truppe su una mappa, con il condottiero che manovra i movimenti dei suoi soldati dall’alto. Curiosamente questa prima battaglia è quella girata con più cura, con maggiore attenzione: curiosamente perché è la più grande disfatta subita dall’esercito prussiano. Le altre due battaglie mostrate nella pellicola (Torgau e Schweidnjtz) pur se vittoriose per Federico II, non hanno la stessa enfasi: nella prima è addirittura evidenziato un episodio fortuito che avrebbe risolto la contesa in favore dei prussiani. Come a delegittimare le capacità tattiche dello stesso Federico II, del resto già apertamente contestate dal fratello, il principe Enrico, dopo la disfatta di Kunersdorf. Ma qui l’interesse è forse posto su un altro aspetto: il sergente Treskow, disubbidendo agli ordini, aveva suonato la carica per avvertire i suoi compagni dell’arrivo degli Austriaci alle loro spalle; mossa che aveva ribaltato il prevedibile esito della battaglia consegnando la vittoria ai prussiani.


Federico II punirà il gesto indisciplinato del suo sergente, infliggendogli tre giorni legato alla ruota; solo in seguito il militare potrà venir promosso per i meriti sul campo. E’ forse questo il passaggio cruciale: l’indisciplina non è mai esente dalla giusta punizione, anche quando è a fin di bene. Ma Treskow patisce moralmente l’umiliazione ed è sul punto di disertare; da quell’atto disonorevole lo salverà la moglie Louise. Questa ragazza, una mugnaia di Kunerdorf, si era resa protagonista di una gustosa scena, non priva di significato, quando si era trovata téte-a-téte  con il re, senza averlo riconosciuto. La sera della cruenta battaglia, pur essendo sfollata, era rincasata per recuperare gli effetti personali; furibonda per la devastazione subita dalla sua abitazione e dal rogo in cui era andato distrutto il suo mulino, avendo trovato la sua casa occupata da uno stanco e male in arnese soldato, si era lasciata andare a invettive contro la politica belligerante del re, responsabile di tutte le sue disgrazie. Memorabile il “alzati, sei seduto sul mio cappotto” con cui intimava, non avendolo appunto riconosciuto, di sollevarsi dalla sedia al povero Federico II; condottiero che, dopo l’umiliante sconfitta sul campo di battaglia aveva ora, ascoltando le parole della donna, anche l’amaro riscontro di valutare in presa diretta il calo di popolarità presso la sua gente. Questi aspetti umani, lo sconforto, l’atteggiamento dolente ma indomito del re sono molto interessanti e resi in modo convincente da Otto Gebhur. Nel complesso, Federico II viene descritto da Harlan in modo tridimensionale: subisce il contraccolpo della sconfitta bruciante, ma possiede anche una ferrea volontà che lo sorregge nei momenti più disperati. 
Indubbiamente nelle vicende narrate ci si possono vedere delle analogie con la storia tedesca del XX secolo: una pesante iniziale sconfitta (Kunerdosf come la Grande Guerra), il tradimento interno (il disonore del reggimento di Bernburg, i cui soldati in rotta riportarono ferite alla schiena, come il disonore della Repubblica di Weimar, con l’accettazione passiva dei diktat del trattato di Versailles), fino alla rivalsa finale (i trionfi prussiani come l’auspicata, nel 1942, vittoria nella II Guerra Mondiale). Il riferimento a Versailles ha molteplice valenza: nel film vengono infatti citati da Federico II i trattati di Versailles, dove durante la guerra dei sette anni si sanciva l’alleanza Franco-Austriaca di matrice anti prussiana; quella stessa Versailles sede del trattato del 1919 che fu una delle ragioni della rivalsa nazista. Ma Versailles era anche luogo dell’incoronazione ad imperatore del Re Prussiano nel 1871, con la nascita del II Impero Tedesco proprio in terra francese, massimo scorno per il popolo transalpino. Questo rendeva la residenza voluta da Luigi XIII una metafora geografica che conteneva essa stessa sia i momenti critici necessari ai moti reattivi, che i successi derivanti dalla indomita capacità teutonica di reagire alla avversità con sempre rinnovato vigore. 

La valenza del lungometraggio di Veit Harlan è quindi notevole, perché non scade mai nell’apologia di Federico II o della storia germanica; ha un’ottica parziale, questo è vero, ma in modo che è abituale a questo tipo di pellicole. E, se è pur vero che contiene spunti e rimandi utilizzati dalla propaganda nazista, questo, se è criticabile in senso etico o morale, non lo è dal punto di vista cinematografico; e forse neanche storico.





Kristina Soderbaum




mercoledì 25 aprile 2018

SHALAKO

136_SHALAKO  Germania Occidentale, Regno Unito, 1968;  Regia di Edward Dmytryk.

Il regista di origine ucraina Edward Dmytryk conosce il mestiere e conosce in particolare il genere western (La lancia che uccide, Ultima notte a Warlock) ma il suo stato di grazia sembra essere legato all’epoca classica di Hollywood, dagli anni quaranta fino a tutto il decennio successivo. Il genere western sul finire degli anni sessanta è ormai cambiato e anche Dmytryk prova ad aggiornarsi per girare questo suo Shalako, film non proprio completamente riuscito. L’opera non è totalmente disprezzabile ma, pur avendo svariati e anche validi ingredienti, la sua miscela finale non convince. L’ambientazione crepuscolare, ormai consolidata nei codici del genere, c’è; lo spunto per la trama anche, con il gruppo di europei che sconfina in territorio apache per cacciare, mettendo a rischio la propria pelle e la stabilità della pace nella regione. Forse è proprio il cast, a non funzionare; e questo nonostante i tanti attori di richiamo assoluto. Ma, per cominciare, Sean Connery non è molto credibile nei panni di uomo del west. E’ evidente che tutti se lo figurano con lo smoking da Agente Segreto 007 appena lo vedono sullo schermo e, semmai questo non accadesse, non aiuta certo la presenza di Honor Blackman (che fu una delle più famose bond-girls della storia, la mitica Pussy Galore). Va beh, va riconosciuto che almeno la Blackman recita bene la sua parte, torbida come da copione western crepuscolare; in modo forse anche eccessivo. In ogni caso anche lei contribuisce a rendere una sensazione di estraneità al genere. 

Poi naturalmente c’è Brigitte Bardot, che è una tale icona da essere difficilmente piegata agli stilemi di un genere cinematografico così specifico come il tardo-western. Per altro la sua entrata in scena, in completo nero con un cappello a tuba, è uno dei passaggi migliori del film. La presenza scenica della Bardot è notevole, ma contribuisce anch’essa a creare un senso di spaesamento rispetto ad un tipico western, impressione accentuata anche dai nobili europei inseriti nella trama. A conti fatti questa potrebbe essere anche l’intenzione di Dmytryk: creare cioè un clima estraneo al genere pur in un contesto apparentemente all’interno agli abituali canoni. L’utilizzo di icone degli anni 60 (Connery/James Bond, la divina BB, la bond-girl) potrebbe quindi essere un tentativo per attualizzare il genere. Sia come sia, il tutto fatica a girare per il verso giusto.

Honor Blackman




Brigitte Bardot








lunedì 23 aprile 2018

UNA CALIBRO 20 PER LO SPECIALISTA

135_UNA CALIBRO 20 PER LO SPECIALISTA (Thunderbolt and Lightfoot). Stati Uniti, 1974;  Regia di Michael Cimino

Il regista Michael Cimino è un esordiente dietro la macchina da presa e la cosa va tenuta presente, nella valutazione di questa Una calibro 20 per lo specialista, per fare almeno due considerazioni.
La prima, quella che salta all’occhio sin dalla sequenza iniziale, è la straordinaria capacità della messa in scena del regista americano. C’è Clint Eastwood, quello dell’ispettore Callaghan o dei film western di Sergio Leone, travestito da prete, quasi irriconoscibile; poi arriva il giovanissimo Jeff Bridges, che dimostra di avere la stoffa del grande attore: la storia raccontata da Cimino se li trascina via veloce, e noi con loro. Ecco, questa capacità narrativa, soprattutto la sua resa sullo schermo, è notevole per un esordiente; e notevole è anche il modo in cui Cimino gestisce un attore già famoso come Clint Eastwood, che tra l’altro figura tra i produttori dell’opera.
L’altro lato della medaglia dell’inesperienza di Cimino si manifesta in alcuni passaggi un po’ approssimativi della vicenda, che forse soffre la riduzione da soggetto a opera cinematografica. Rimangono così alcuni punti un po’ oscuri, qualche personaggio abbozzato e poi abbandonato, ma niente che possa guastare la visione del film nel suo complesso.
In ogni caso, l’opera, nel suo insieme, non ha mai la pretesa di essere perfetta, dal punto di vista della confezione. Tutt’altro. Ci sono molti passaggi che, quasi certamente in modo consapevole da parte del regista, lasciano senza parole: si pensi all’incontro con il tizio che ha i conigli bianchi nel baule dell’auto. E’ solo uno dei tanti passaggi un po’ casuali che dominano la vicenda, che del resto si chiude con il ritrovamento fortuito dell’agognato tesoro.

Così com’è casuale lo starnuto del Rosso che, unito al lembo della camicia rimasto anch’esso accidentalmente fuori dal baule, manda all’aria il piano congeniato e studiato al secondo per rapinare la banca. Il fato, il destino, è quindi il vero protagonista del film, e i personaggi si muovono nella pellicola senza una direzione precisa, ma condotti dalle circostanze. Caribù (Jeff Bridges), personaggio di punta del film, è un giovane sbandato alla ricerca di amicizia, e la trova nell’Artigliere (Clint Eastwood). Il quale è in fuga perché sospettato dai suoi complici di rapina di averli traditi. Tra questi c’è il Rosso (George Kennedy), un bruto in cerca di vendetta; contro l’Artigliere, certo, ma anche contro chiunque gli si pari di fronte. Per finire c’è Goody (Geoffrey Lewis), più che buono, come vorrebbe il nomignolo, è l’anello debole del gruppo. I quattro non sono certo una squadra unita, anzi; l’unico rapporto sincero è quello tra Caribù e l’Artigliere. Anche se il primo ha stima e amicizia per il secondo, mentre quest’ultimo sembra più che altro provare un senso di paterna protezione, doverosa più che sentita. Il Rosso è invece palesemente ostile ai suoi compagni di ventura: ostilità di maniera nei confronti dell’Artigliere, con il quale condivide il passato, ma aperta e sincera nei confronti del giovane Caribù. Peraltro, i maltrattamenti che riserva a Goody sono probabilmente più una sorta di valvola di sfogo che vera cattiveria. In ogni caso non è nello sviluppo dei rapporti e delle personalità che il film compie la sua strada: il senso di vagabondaggio sia fisico che morale, domina i personaggi, ai quali chiedere un qualunque percorso di crescita sarebbe vano.
Il senso di spaesamento è il lascito di questa pellicola, con la star Clint Eastwood  incapace di catalizzare su di sé l’umore finale, che è tutto nella desolante fine di Jeff Bridges/Caribù, morente in seguito ai colpi ricevuti dal Rosso, senza un reale motivo, a bordo dell'agognata Cadillac convertibile bianca. Eastwood ormai è il mito, il modello: ma per chi arriva adesso alla ribalta, non sembra essere così semplice seguirne le orme, sembra quindi dirci l’esordiente Cimino. Il suo alter ego, l’altrettanto novizio Caribù, finge, all’inizio del film, di essere zoppo; l’Artigliere ha invece davvero una gamba artificiale. C’è quindi un legame tra i due, con il primo che, metaforicamente, imita il secondo, quasi fosse il suo punto di riferimento. Questa sorta di legame tornerà nel finale, virato in chiave negativa, quando la ferita mortale paralizzerà metà del corpo Caribù: un Destino segnato ma avverso, e non basterà fare la propria parte al minuto secondo.





Catherine Bach








sabato 21 aprile 2018

SCIUSCIA'

134_SCIUSCIA' Italia, 1946;  Regia di Vittorio De Sica

Dopo I bambini di guardano, De Sica concentra ancora l’obiettivo della sua macchina da presa sul mondo infantile; il polivalente artista sembra quasi avvertire la necessità di uno sguardo innocente, puro e incontaminato dalle scorie ideologiche del periodo bellico. Non cerca, però, De Sica una fuga dalla realtà, tutt’altro. Già il titolo lo testimonia: Sciuscià è una storpiatura del termine Shoeshine, ovvero lustrascarpe, che era poi l’unico modo che avevano i ragazzini dell’immediato dopoguerra di fare qualche soldo, lucidando le scarpe ai soldati alleati ancora stanziati nel nostro paese. C’è quindi un rimando diretto e un’ambientazione fortemente attinente al drammatico periodo storico dell’immediato dopoguerra italiano. Autore del soggetto, tra gli altri, è Cesare Zavattini, a cui si deve lo stile della prima parte dell’opera, quella ambientata per le vie di una Roma ancora malmessa dallo scontro bellico. La macchina da presa di De Sica segue le vicende di due ragazzini, Pasquale (Franco Interlenghi) e Giuseppe (Rinaldo Smordoni) con la peculiare caratteristica del pedinamento zavattiniano. In questo senso appare anche logica la scelta di prediligere uno sguardo infantile per fare un bilancio sui resti dell’Italia disastrata del dopoguerra, in modo che risulti il più possibile neutrale, mondato da qualunque giustificazione ideologica.

L’obiettivo è centrato proprio grazie all’immersione nella vita quotidiana di questi lustrascarpe, coi loro sogni, a volte anche assurdi (l’acquisto d’un cavallo), e le loro difficoltà a distinguere il bene dal male, a fronte di una completa assenza delle istituzioni in fase di ausilio o supporto dell’individuo. In merito a tale assenza, c’è la presenza minima anche della famiglia, da sempre ritenuto storico baluardo della società italiana: Pasquale è orfano, e la famiglia di Giuseppe è fonte di guai (il fratello maggiore) o rimproveri (la madre), e soltanto la sorellina è in qualche modo d’aiuto con il suo semplice ma genuino affetto. La seconda parte del film è più cruda e drammatica, ed è ambientata in riformatorio, dove i nostri piccoli eroi finiscono in seguito di un loro coinvolgimento in alcuni traffici illeciti. 

La vita in riformatorio è sicuramente e prevedibilmente difficile ma, la cosa che lascia sgomenti, è l’evidente resa della società, che in sostanza non fa nulla per recuperare i ragazzi dell’istituto. C’è un approccio molto brutale, non nel senso delle sevizie o percosse, che non sono, per fortuna, all’ordine del giorno: l’impressione che si ricava è che i ragazzi, alcuni dei quali ancora molto giovani, siano considerati già irrecuperabili, senza speranza. E questa sfiducia delle istituzioni per soggetti ancora in tenera età, finisce per far male anche più delle inaccettabili cinghiate che il povero Pasquale deve subire, in seguito ad una ingiusta accusa di tentata evasione

Il finale è tragico, il più tragico che si potesse immaginare, perché concretizza quelle nefaste previsioni: non c’è futuro per questi ragazzi, a cui la nostra società nega ogni speranza o fiducia. De Sica è bravissimo, perché mette in scena questa tragedia senza scadere nel sentimentalismo spicciolo, e se il copione paga qualche ingenuità, lo si può perdonare in un computo generale di un’opera tanto rilevante.





giovedì 19 aprile 2018

LA PRINCIPESSA SISSI

133_LA PRINCIPESSA SISSI (Sissi). Austria, 1955;  Regia di Ernst Marischka.

Il regista austriaco Ernst Marischka aveva già diretto una Romy Schneider sedicenne in L’amore di una grande regina, dove l’attrice connazionale interpretava una giovanissima regina Vittoria. Pur con tutto il rispetto dovuto alla sovrana, la bellezza della favolosa attrice austriaca era davvero sprecata nel ruolo della futura monarca britannica. E di questo se ne deve essere accorto anche Marichka, che infatti rispolverò Sissi, al secolo Elisabetta di Baviera, ovvero una regnante la cui leggendaria bellezza potesse credibilmente essere resa sullo schermo dalla folgorante figura di Romy Schneider. La Schneider, al tempo diciassettenne, era ancora un po’ acerba, ma era perfetta per portare aria fresca nei palazzi della nobiltà asburgica, raffigurati con dedizione dalla produzione austriaca del film. Film che non è certamente niente di trascendentale, ma è girato con cura, brio e una massiccia dose di ironia. Ci sono alcuni passaggi molto interessanti e anche delicati, come il momento in cui l’imperatore Francesco Giuseppe annuncia il suo fidanzamento con Sissi, a discapito della sorella Elena, che era la candidata ufficiale a quel ruolo. In nome del bon ton nobiliare, la tensione scaturita rimane tutta interiore e non viene mostrata in modo plateale, ma il regista riesce con abilità a rendere la drammaticità della situazione. Insomma, una favola piacevole e che prova a coniugare le agiatezze di una vita principesca con l’insofferenza per le regole, in modo molto semplice ma genuino. Peccato che, alle tutto sommato perdonabili licenze poetiche che un film romanzato come questo si concede in materia storica, si aggiunga quella gratuita del distributore italiano che promuove a principessa Sissi quanto questa era una semplice duchessa.



Romy Schneider