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martedì 31 ottobre 2017

NATALE CON I TUOI

17_NATALE CON I TUOI (Home for the holidays). Stati Uniti, 1972;  Regia di Jhon Llewellyn Moxey.

Nonostante sia stato messo in onda il 14 dicembre del 1978 all’interno del ciclo ‘Sette storie per non dormire’, Natale con i tuoi è un film per la tv del 1972. La data di produzione (e di trasmissione in America) può sembrare un fatto secondario, ma permette invece di capire che questo film televisivo non segue la fortunata scia degli Horror del decennio, ma ne è uno dei precursori. La matrice televisiva è ben gestita dal regista Moxey, che limita location e personaggi, per una storia intima, famigliare, addirittura natalizia, come si capisce anche dal titolo. Balza subito all’occhio che nel film mancano figure pericolose, ma anche figure protettive: di fatto gli uomini sono relegati in secondo piano. Il padre è un vecchio morente (Walter Brennan), e il dottore sembra troppo giovane e distante; e poi è un dottore, mica un uomo d’azione. Nella casa, oltre al padre, si ritrovano l’inquietante seconda moglie Elizabeth (Julie Harris), e le quattro figlie dell’uomo: Alex (l’elegante Eleonor Parker), la primogenita; Joanna (una deliziosa Jill Haworth), la più spigliata; Frederica (l’avvenente Jessica Walter), ancora turbata dal presunto suicidio della madre, ovvero la prima moglie del padre; e Christine (una bravissima e dolcissima Sally Field), la più giovane e innocente.
Le figlie sono tutte donne molto belle, ma anche molto diverse tra loro in senso generazionale: da Alex che sembra una diva degli anni ’50, a Christine che è una ragazza moderna. Ad una prima metà di attesa più che di ambientamento, grazie al sapiente uso dei vari trucchi del mestiere (la tempesta, i lampi, le occhiate, le allusioni), l’incombente deriva horror arriva e travolge quasi tutti i protagonisti. Le scene dell’inseguimento nel bosco, con l’assassina di cui sono mostrati solo l’impermeabile e gli stivali, sono ben oltre il limite in genere concesso alle produzioni televisive. Il colpo di scena portante della vicenda è preparato con grande maestria, e mette davvero i brividi. Anche il contro-colpo di scena del finale è molto bello, con l’assassina che si spaventa e urla fino a perdere (definitivamente) il senno, vedendo l’innocente ultima vittima che è sopravvissuta.
Un film delizioso come un dolce di Natale.
Avvelenato.
















Sally Field




Eleanor Parker





 Jessica Walter





Jill Haworth









lunedì 30 ottobre 2017

DUNKIRK

16_DUNKIRK (Dunkirk) Regno Unito, Olanda, Francia, Stati Uniti, 2017;  Regia di Christopher Nolan.

Un espediente narrativo usato spessissimo nei fumetti, ad esempio in quelli di Paperino, vede il nostro protagonista addormentarsi sotto una pianta e sognare di essere questo o quell’eroe, oppure di vivere in un’altra epoca, interpretando nel sogno, magari insieme agli abituali compagni di avventura, una vicenda storica famosa. Al risveglio, Paperino o chi per lui, tornerà alla sua vita abituale; ma per gli autori lo stratagemma del sogno è comodissimo per ambientare le storie in luoghi o tempi diversi. Christopher Nolan conosce sicuramente molto bene i comics avendo diretto la trilogia di Batman-Il Cavaliere Oscuro; e infatti ecco che in un passaggio, nel finale del suo Dunkirk, getta una piccola esca, apparentemente senza troppo significato. L’evacuazione delle truppe inglesi dalla Francia è ormai conclusa, e abbiamo ancora negli occhi e nelle orecchie il fragore delle scene, quando un soldato sul molo d’imbarco si sveglia. Buon per lui che ci sono ancora gli ultimi ufficiali e quindi, può imbarcarsi, ma per un attimo viene il dubbio che tutto il pandemonio appena terminato possa essere stato un sogno di quel soldato; nel qual caso, più che un sogno, sarebbe stato un incubo. Ovviamente lo è, un incubo, ma un incubo a occhi aperti; vi è sembrato un incubo? sembra infatti volerci dire Nolan, ma è realtà. Perché la realtà della guerra è ben peggiore di qualsiasi incubo partorito dalla fantasia di qualsiasi narratore. Che poi a questo punto verrebbe anche da chiedersi se Dunkirk sia effettivamente un film di guerra; naturalmente lo è, perché mostra una ricostruzione, romanzata o meno, di un evento storico inerente alla Seconda Guerra Mondiale, la famosa Operazione Dynamo. Che tecnicamente è nota come un’evacuazione ma ai più somiglia ad una fuga dal campo di battaglia, sebbene fatta in modo organizzato e senza scadere in un’infamante, in termini militari, rotta disordinata.

Anzi; nel film di Nolan, i soldati inglesi non tradiscono la loro indole rispettosa delle code e stanno tutti composti in fila indiana, pronti per essere imbarcati e portati a casa. Sono talmente ordinati che non sembrano nemmeno uomini, e meno che mai uomini in fuga; somigliano a piccoli ingranaggi che si muovono in modo coordinato anche sotto le micidiali picchiate degli stukas tedeschi. Ma andiamo con ordine; all’inizio del film tre didascalie danno le istruzioni per comprendere il meccanismo di Dunkirk: ci sono tre linee temporali, di differente durata, per i tre grandi elementi militari in gioco, terra, acqua e aria (al fuoco ci pensano i tedeschi). La storia sulla terraferma dura una settimana, quella sul mare un giorno e in aria dovrà bastare invece solo un’ora: e già abbiamo un indizio di quale forse sia uno dei temi di Dunkirk. Infatti si può notare come le tre linee narrative siano intrecciate, pur avendo lunghezze temporali diverse, il che significa che il tempo è una variabile. Che, ahinoi, diminuisce al diminuire delle nostre certezze: alla settimana sulla solida terraferma, fa da contraltare la misera ora a disposizione nell’inconsistenza dei cieli. Nolan mette queste istruzioni ad inizio film e dà quindi il via al conto alla rovescia, scandito magnificamente dal ticchettio e dalle musiche della totalizzante colonna sonora di Hans Zimmer.

Sulle immense spiagge di Dunkerque va in scena un drammatico balletto, con scene di massa che disegnano coreografie costellate dalle esplosioni dei terribili bombardamenti tedeschi. Lo spazio aperto del bagnasciuga francese diventa una gigantesca trappola, a definire come anche l’altro elemento cruciale del film, lo spazio appunto, sia anch’esso variabile in modo non convenzionale. Le enormi spiagge diventano trappole, allo stesso modo della claustrofobica barca arenata, dello stretto molo o della angusta cabina del Supermarine Spitfire che non vuole saperne di cedere. E di contro, la Gran Bretagna, lontana solo una quarantina di chilometri, sembra irraggiungibile.
La messa in scena maestosa di Nolan è magnificamente cinematografica e si affida agli stilemi del cinema muto con l’ausilio di un supporto sonoro di grandissimo livello; a questo punto i dialoghi servono a poco. Anche perché quando si scappa, ma per davvero, non si ha troppa voglia di parlare. E allora le scelte del regista britannico appaiono giustificate anche nell’ottica di dare una resa concreta, vivibile, all’orrore della guerra. E su tutte le scene, ma soprattutto nell’incipit, grava un senso onirico, come se tutto fosse un gigantesco incubo. Ma non è un incubo: il risveglio del soldato, che si ritrova nella stessa drammatica realtà lasciata al momento di addormentarsi, è la prova che ci porta Nolan per dirci che non si tratta di un incubo. E’ una realtà da incubo.

Ma non possono sfuggire anche tutti quei segnali che ci dicono che Dunkirk è un film particolare anche in rapporto al suo essere un film di guerra, o non essere solo un film di guerra. Se ne possono citare alcune, di queste anomalie rispetto ad un canonico film bellico: per cominciare, non è mostrato un conflitto vero e proprio, ma piuttosto una ritirata. I nostri non fanno altro che scappare, a parte il lavoro svolto dagli Spitfire, sebbene anche questi non se la passino troppo bene, costretti all’ammaraggio quando non declassati al ruolo di aliante. L’Operazione Dynamo sembra l’esatto opposto di un’operazione militare, visto che sono i civili a salvare i militari. E se non ci sono gli americani, che sulle spiagge di Normandia al cinema sono elemento indispensabile in ogni film bellico, mancano pure i tedeschi, anche se fanno giusto una capatina nel finale, sempre al netto dell’ossessiva e martellante presenza della Luftwaffe che però, più che vedersi, si sente. Se paragoniamo poi i due eventi cruciali sulle spiagge di Normandia, noteremo una simmetria speculare alquanto insolita: nell’Operazione Overlord, abbiamo uno sbarco disordinato, nel quale, nella maggior parte dei casi, i soldati andavano incontro a morte certa; a Dunkerque i soldatini inglesi attendono pazientemente incolonnati di imbarcarsi per fuggire al nemico. Esattamente il contrario, per cui si potrebbe affermare che Dunkirk si presenta con presupposti che sono esattamente contrari ad uno dei più classici tra gli episodi di guerra.

Ma allora ben difficilmente il fulcro centrale della questione può essere strettamente inerente all’aspetto bellico. Il tempo, lo spazio, le difficoltà da affrontare, sono infatti temi universali; e Nolan sembra volerci mostrare come, anche a fronte di scene di grandissima efficace evidenza, spesso non si riesce a capire, vuoi perché nelle avversità il tempo scorre troppo veloce o il terreno manca sotto i piedi o, al contrario, non si trova un angolo dove nascondersi. Il tema dell’incapacità di vedere, di capire quello che succede è evidenziato nel finale, quando i soldati non si rendono conto di essere accolti con favore, nonostante la debacle militare; e del resto, l’Operazione Dynamo è acclamata in patria come un successo, (umanamente in effetti lo è, ma non in termini militari anche per via dell’impiego dei civili), ma nell’insieme forse ci sarebbe poco da festeggiare, in considerazione di quanto sarebbe costato in seguito riconquistare la posizione sul continente. Anche il ragazzo morto sulla barca viene raccontato come un eroe ma la sua morte, purtroppo, ha ben poco di eroico. Retorica di guerra, d’accordo, di cui Nolan sottolinea la falsità; ma di cui, nonostante sia palese, in pochi si accorgono. Il passaggio cruciale avviene quando i soldati sbarcano in patria e ad accoglierli trovano un non vedente che si congratula con loro per essere arrivati sani e salvi; che di fatto, è l’unica cosa che conta. Non solo il soldato non si rende conto del significato delle parole dell’uomo, pur avendo vissuto sulla propria pelle quell’esperienza; ma, pur potendolo guardare in faccia, non comprende nemmeno che questi è cieco, e scambia la sua naturale incapacità di guardarlo negli occhi come un segno di disprezzo.
Dunkirk è un film che esalta l’aspetto visivo e partecipativo dello spettatore all’ennesima potenza; ma lo avverte: a volte, per capire le cose, non basta guardarle e nemmeno viverle. 


domenica 29 ottobre 2017

LA BRIGATA DEL DIAVOLO

15_LA BRIGATA DEL DIAVOLO (The Devil's Brigade). Stati Uniti, 1968;  Regia di Andrew V. McLaglen.

Film di guerra di puro intrattenimento, questo La brigata del diavolo è girato con sicuro mestiere da Andrew V. McLaglen. Il film è divertente ed è interessante per l’aspetto rilevante che viene riservato all’addestramento dell’Unità Speciale Combattente. Nel film questa fase occupa una prima parte importante almeno quanto la seconda, laddove la scena si sposta sul fronte di guerra italico. Ulteriori caratteristiche meritevoli del lungometraggio sono legate alla matrice storica, focalizzata su argomenti meno conosciuti della Seconda Guerra Mondiale. In primo luogo l’Unità Speciale Combattente, conosciuta come la brigata del diavolo, è fortemente ispirata ai Diavoli Neri, il 1° Special Service Force, corpo speciale realmente esistito. E a comandarlo c’era un colonnello che si chiamava Robert T. Frederick, esattamente come il personaggio interpretato da William Holden nel film. Lo stesso episodio culminante dell’opera filmica, la presa della postazione tedesca arroccata sul Monte La Difensa risalendo la vetta dal lato scosceso e quindi inatteso dai nazisti, è un episodio storico del fronte italiano della Seconda Guerra Mondiale. Quindi, al di là degli effettivi riscontri storici, il film ha una sua valenza nel gettare un po’ di attenzione anche su episodi meno celebrati della liberazione alleata dell’Italia; la curiosità indotta allo spettatore, eventualmente invogliato ad approfondire i temi del film, è di per sé già un merito non trascurabile. E poi lo spettacolo è divertente anche grazie ad un cast, magari di second’ordine, ma non disprezzabile: a parte il citato William Holden (attore di assoluto rango), troviamo Cliff Robertson (Crown, il maggiore canadese), Vince Edward (Bricker, il maggiore americano), Claude Akins (il caporale Rocky), John Watson (il sergente Peacock), fino alla comparsata di uno spento Dana Andrews (il brigadiere generale Naylor).

Il tema portante del film, soprattutto della prima parte, è lo spirito di corpo che unisce i militari al di là delle precedenti divisioni: in questo caso la brigata del diavolo è composta da canadesi e statunitensi, che si detestano almeno finché, durante una libera uscita, i sudditi della regina non vengono aggrediti dai boscaioli residenti nei pressi del centro di reclutamento per una comune disputa a proposito di alcune ragazze locali. A fronte di un attacco esterno, gli americani delle brigata solidarizzeranno ovviamente con i commilitoni canadesi, suggellando la definitiva coesione del reparto. Niente di nuovo quindi; come  del resto nella seconda parte incentrata sull’azione militare, dove si esaltano i valori eroici dei soldati. Valori magari discutibili, ma che i soldati meritarono mettendo a rischio la vita in prima persona.
Non un capolavoro della settima arte, insomma, ma comunque godibile.

sabato 28 ottobre 2017

L'ANGELO AZZURRO

14_L'ANGELO AZZURRO (Der Blaue Engel). Germania, 1930;  Regia di Josef Von Sternberg.

C’è una sproporzione tra il numero delle interpretazioni dei presunti significati sottesi al film L’Angelo Azzurro e quanto realmente mostrato sullo schermo: è questo non un segno di debolezza, ma la caratteristica propria dei capolavori. Considerato il primo film sonoro prodotto in Germania, opera del regista Joseph Von Sternberg, autore già noto ad Hollywood ( Le notti di Chicago, 1927), Der Blaue Engel  è in genere  ricordato per la consacrazione della protagonista della pellicola, Marlene Dietrich, intesa spesso come una semiesordiente quando invece  aveva 28 anni e una carriera decennale con una ventina di film già alle spalle. La vicenda che dà luogo alle molte interpretazioni, è in realtà abbastanza semplice e vede un importante professore del ginnasio seguire i propri studenti, nel tentativo di redimerli, nell’equivoco locale L’Angelo Azzurro, per poi finire lui stesso ghermito dal fascino della vedette dell’ambiguo teatro, Lola Lola (la divina Marlene, appunto). La contingente condizione della Germania dell’epoca, ha spesso suggerito un parallelo tra la caduta della Repubblica di Weimar e la tragica parabola del professor Rath (il notevole Emil Jannings): come la repubblica egli è animato dalle migliori intenzioni (redimere i suoi alunni), ma è ancora troppo legato ai metodi tradizionali e autoritari della società tedesca di matrice imperiale. Questa chiave di lettura è in parte eredità del soggetto originale di Heinrich Mann, Professor Unrat, che aveva evidenti intenti sociologici connessi all’ambientazione nell’ancora Germania gugliemina. 
Von Sternberg, in realtà, focalizza altrove lo sguardo della sua macchina da presa; e l’adattamento al periodo contemporaneo che il regista attua, permette all’autore di mettere l’accento e l’attenzione sugli aspetti ambigui, corrotti, allusivi, soprattutto sotto il profilo sessuale, che la modernità stava portando nella società. Ed è una pista un po’ falsa anche quella psicoanalitica, con l’impotenza del professore (la scena dell’uccellino morto in gabbia, con la governante che dopo averlo gettato nella stufa, sottolinea come non cantasse più da tempo) che sfocia ora nel sadismo (la repressione e l’autoritarismo nei confronti degli alunni) ora nel masochismo (quando si inginocchia davanti a Lola Lola per aiutarla ad infilarsi le calze in nylon). Questi aspetti ci sono, e sono evidenti, ma non hanno l’approfondimento necessario a questo tipo di analisi: Von Sternberg è, sebbene con stile e arte sopraffina, molto più grezzo. A lui interessa il Destino dell’uomo, più che le motivazioni psicologiche che lo determinano. 

Nonostante il suo film parli di una tragedia, di un eminente professore che cade in rovina, lui concentra la sua attenzione sulle gambe di Lola Lola: L’Angelo Azzurro non è infatti il film che viene ricordato per come descrive i rischi dell’attrazione sessuale, ma è il capolavoro che consacra la figura di Marlene Dietrich come diva immortale. E non sembra un effetto collaterale fortuito, quanto piuttosto esattamente lo scopo di Von Sternberg: celebrare una nuova figura femminile, consapevole e padrona del desiderio maschile e, quindi, del Destino dell’uomo. Però, Lola Lola non può certo essere considerata una figura tridimensionale, che possa in qualche modo incarnare il ruolo della donna in una simile metafora. Lola Lola non assolve praticamente mai a questo compito. E infatti anche questa possibilità interpretativa, la celebrazione della ‘femme fatale’ per eccellenza, non soddisfa pienamente, e c’è ancora un margine per un approfondimento migliore. 

Ci può aiutare, in questo, osservare come il ruolo del professor Rath (ambiguo già dal nome, perché gli studenti lo chiamano Unrat, spazzatura) può essere la parte di Von Stenberg stesso e quindi anche dello spettatore, visto che vediamo il film attraverso lo sguardo della sua macchina da presa. La scena iniziale con il professore, insegnante di inglese, che cerca di addolcire la pronuncia troppo tedesca dello studente nel recitare Shakespeare, può essere una sorta di autocitazione, nel momento in cui Von Sternberg era stato richiamato dagli Stati Uniti, dove stava lavorando da anni pur essendo austriaco, per dirigere il primo film sonoro tedesco. Il produttore della UFA Erich Pommer doveva essere conscio delle difficoltà intrinseche all’uso del sonoro, anche in relazione alla gloriosa tradizione del cinema muto in Germania: ingaggiare Von Sternberg che arrivava da Hollywood e che aveva già risolto i problemi tecnici del sonoro avendo diretto La mazzata, poneva l’autore su un piano di superiorità rispetto ai collaboratori. 
Von Sternberg sta’ quindi al cinema sonoro tedesco un po’ come il professore sta’ allo studente a cui insegna a pronunciare correttamente la lingua inglese. E così il film diventa un discorso in prima persona del regista, immortalato nel destino tragico del professor Rath, e assume una dimensione più universale, totalizzante, perché l’autore ammette, con la sua stessa messa in scena, che in sé coesistono sia il desiderio che la consapevolezza della disperazione che ne deriverà. Ma allora non ha scampo l’uomo, nessun uomo, di fronte alle pulsioni del desiderio, perché le sue pericolose conseguenze non arrivano inaspettate, ma forse ne sono strettamente connesse. E più pericolosamente non sono legate al concetto di sesso come segno distintivo, il desiderio di qualcosa che sia altro, ovvero la donna nel nostro caso, ma rimanendo in ambito più ambiguo, possono forse indicare che sono già nel nostro profondo. Il professore rinuncia alla cattedra, alla sua professione, alla sua fonte di reddito e di prestigio pur di potersi congiungere alla cantante dell’Angelo Azzurro. Dal canto suo Lola Lola è algida, noncurante: risponde, affermativamente, alla proposta di matrimonio con una fragorosa risata; è talmente indifferente che non si registrano reazioni nemmeno quando il professore perde il lavoro, e quindi il reddito. La mancanza di attenzione al lato venale è un dettaglio non trascurabile: difficile credere che una donna possa accettare con la stessa nonchalance la perdita di un reddito così importante in vista del proprio matrimonio.

 Invece la vediamo turbata solo nel finale, prima con gli occhi spalancati e colpevoli durante il tradimento, poi dalla paura di fronte alla furia del professore ormai impazzito. Ma sono sentimenti istintivi, di chi ha timore prima, e consapevolezza poi, che la situazione le è sfuggita di mano. Per il resto la Dietrich è statuaria, un monumento alla bellezza, femminile, certo, ma anche un po’ ambigua, androgina, nell’ostentazione perentoria di un fisico che è oggetto di devoto desiderio. Marlene è perfetta, il suo non è un ruolo che richieda una grande interpretazione recitativa, ma deve lasciar parlare la sua presenza scenica: la voce bassa, con la quale canta, tra le altre, Ich bin von Kopf bis Fuss auf Liebe eingestellt (‘sono orientata all’amore dalla testa ai piedi’), le è di grande aiuto ma sono le strepitose gambe ad essere la sua arma definitiva. C’è un costume, tra quelli indossati da Lola Lola durante le sue perfomance, che è particolarmente significativo: è una gonna ampia, semitrasparente, ma è solo la parvenza di una gonna, perché non è completa, limitandosi al solo lato frontale. A parte la funzione nella finzione di lasciar vedere le grazie della cantante quando si gira, essa rappresenta bene la bidimensionalità di Lola Lola. Con L’Angelo Azzurro Von Sternberg prende un’attrice semisconosciuta tedesca, e crea la figura di Marlene Dietrich, che incarna alla perfezione il concetto astratto di desiderio. Non è quindi completamente valida nemmeno la traccia dell’emancipazione della donna, che potrebbe veder la presa di cognizione del proprio potere sugli uomini, da parte di Lola Lola, come primo passo dall’affrancarsi dallo stato di subalternità dei secoli passati. Marlene interpreta, in maniera a dir poco sublime, il desiderio, a prescindere dalla sessualità: ella detiene i requisiti femminili, (la bellezza, la grazia), ma anche maschili, (l’imponenza, la sicurezza), che suscitano desiderio ed è quindi un simbolo universale. Non a caso indossa il cappello a cilindro tipicamente maschile o siede a cavalcioni su una sedia posta al contrario, come un rude cowboy. In definitiva L’Angelo Azzurro può essere considerato un monito: facciamo attenzione perché se i nostri desideri dovessero andare contro ai nostri valori, saremmo perduti. Non è in grado, l’uomo (in senso generale, non in senso di genere maschile) di reggere con la sola forza morale l’urto delle proprie pulsioni più profonde.
Ma qualora fossero dovute a Marlene Dietrich, ce ne faremmo volentieri una ragione.





Marlene Dietrich