257_LA DONNA DEL TENENTE FRANCESE (The french lieutenant's woman); Regno Unito, 1981; Regia di Karel Reisz.
L’impressione che si ha, guardando La donna del tenente francese, è un po’ quella di porsi tra due
specchi contrapposti, e provare per un attimo la vertigine di vedere la propria
immagine ripetersi all’infinito. Perché il film di Karel Reisz è spiazzante sin
da subito, da quella scena ibrida tra l’ambientazione di fine Ottocento con
quell’autoveicolo che si vede chiaramente sullo sfondo. Poi, naturalmente, si
capisce che il lungometraggio racconta della realizzazione di un film, La donna del tenente francese, appunto,
e che assistiamo alle due storie, quella nel film e quella fuori dal set, che
si intrecciano. Curiosamente le storie sono simili, ma speculari: tutte e due
le tracce vertono sulla storia d’amore tra una strepitosa Meryl Streep che
interpreta rispettivamente l’attrice Anna e Sarah, la protagonista del film nel
film (la donna del tenente francese
insomma) e il bravissimo Jeremy Irons, che è l’attore Mike e il Charles Henry
Smithson nella finzione in costume.
Nella storia ambientata nell’Inghilterra del 1800, Charles, un paleontologo già
in accordo di matrimonio con una giovane benestante, incontra Sarah, una donna
perdutamente innamorata di un ufficiale d’oltremanica che l’ha abbandonata. La struggente
malinconia che affligge la donna è piuttosto l’amor fou tipicamente romantico: un sentimento irrazionale e
immotivato, che soddisfa (o cerca di soddisfare) il bisogno fisiologico di
amare qualcuno e, in questo modo, è anche una sorta di negazione dell’amore
stesso, perché è rivolto principalmente a sé stessi e non all’altro.
In quel primo incontro tra Sarah
e Charles c’è un incrocio di sguardi che non è che il primo dei tanti punti
di intreccio della storia: in quel caso è come se la follia amorosa passasse
dalla donna all’uomo, che di lì in poi progressivamente si innamorerà
perdutamente di Sarah, nonostante l’atteggiamento scorretto di lei gli sia anche chiarito dal dottor Grogan (Leo
McKern). Ma d’altronde l’amore è irrazionale per definizione, quindi è tutto
perfettamente plausibile. A proposito di incroci, tra le due tracce del film quello simbolicamente più rappresentativo è il momento in cui i due attori stanno provando e che sfuma nella scena della finzione ottocentesca: un punto
dell’intreccio dove le due trame si intersecano in modo lampante. Le storie
sentimentali non sono però sovrapponibili, ma, come si accennava, sono
speculari, e i punti di incrocio possono essere indicativi dei rispettivi
ribaltamenti, che avvengono quasi in simultanea.
Inizialmente, quando Charles
incontra Sarah e ancora non la conosce, vediamo Mike e Anna già a letto
insieme; nel finale, mentre nella storia in
costume la coppia si ricompone per il loro lieto fine, Anna lascia Frank al
ricevimento, per il controfinale,
quello triste. Se, nella vicenda ambientata nel IXX secolo, il problema è
l’amore ossessionato che tocca prima Sarah, nei confronti del tenente francese,
e poi Charles, verso la stessa Sarah, nella storia contemporanea è sempre il
desiderio a rappresentare un pericolo, ma sembra avere una matrice più terrena.
Mark desidera Anna, e non sembra importagli più di sua moglie o di sua figlia,
e nemmeno del marito di lei (francese, esattamente come il tenente, altro
elemento ridondante tra le due trame). Ma, volendo guardare, che sia definito
folle o semplicemente carnale, sempre di desiderio si tratta. Questo continuo
gioco di rimandi imprigiona la storia in una gabbia simile a quella in cui si
viene costretti dall’ossessione amorosa o del desiderio estremo: la vertigine
impedisce a Charles di capire il gioco
sporco di Sarah, o confonde le idee a Mark quando, nel finale, sbaglia a
chiamare Anna gridando il nome del personaggio di lei nel film.
Perché, sia l’amour fou che il desiderio sessuale,
sono entrambi amore per sé stessi, e l’altro è solo uno strumento per
soddisfarlo; in principio Sarah disegna ripetutamente il suo ritratto, allo
stesso modo in cui si concentra su se stessa atteggiandosi a dama, o meglio puttana, inconsolabile. E, sebbene in
chiave leggermente diversa, anche il desiderio contemporaneo di Mark è
altrettanto egoista: ti voglio, dice
l’uomo; mi hai appena avuto, risponde
Anna, (facendo però riferimento alla scena d’amore avuta nei rispettivi ruoli
del film nel film). Nel finale la
storia che finisce bene è quella in cui i personaggi (Sarah e Charles) riescono
a rompere questo cerchio; in effetti la scena si chiude con i due in barca che
escono dal chiuso ad uno specchio d’acqua aperto.
C’è un lieto fine per i due
che si perdonano, che sono cioè in grado di capire l’altro, perdonarlo, e
quindi comprenderlo e non possederlo. Sarah non disegna più ossessivamente
il suo ritratto, è una vera artista e insegna ai ragazzi, ma non la si disturba
se la si interrompe. Esattamente il contrario della donna chiusa nel cappuccio
e irraggiungibile sul molo in balia delle onde delle scene iniziali. La nuova apertura la rende sincera, e con la sua
confessione convince Charles a perdonarla, in un passaggio intenso e originale.
La cura per l’amore folle romantico era dunque l’apertura all’altro, la sincerità, la comprensione; come
soluzione potrà andare bene anche per il desiderio più pragmatico dell’uomo
moderno? Chissà, intanto noi che guardiamo Anna e Mark (e Sarah e Charles) potremmo
anche essere un ulteriore riflesso di quel gioco di specchi di cui si diceva;
in fondo anche i due protagonisti della storia contemporanea pensano di essere
reali al cospetto della coppia del 1800. E, quindi, potremmo pensarci noi in
prima persona a dire se c’è ancora differenza nell’amare l’altro comprendendolo oppure solo possedendolo.
Meryl Streep
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