8_A QUALCUNO PIACE CALDO (Some like it hot ). Stati Uniti, 1959; Regia di Billy Wilder
Pare che la scelta del titolo (Some like it hot in originale) si debba allo sceneggiatore I.A.L.
Diamond e, in un certo senso, aiuta già a farci un’idea sullo splendido (manco
a dirlo) film del geniale regista Billy Wilder. La suddetta frase è inserita in
modo del tutto causale in un dialogo, mentre Tony Curtis (Joe/Josephine) ci prova con la meravigliosa Marilyn
Monroe (Zucchero “Candito” Kandisky): nel contesto si riferisce al jazz, la
musica che suonano entrambi nell’orchestrina; ma trattandosi di un dialogo
fittizio, in cui Joe, travestito da eccentrico milionario, prova a suscitare
interesse nella ragazza, può o potrebbe avere un qualche doppio senso. Questa
sua apertura nella possibilità interpretativa, lascia però il posto alla
semplice sonorità della frase, (molto più funzionale nell’inglese some like it hot che nella versione
italiana), che alla fine è, presumibilmente, il vero motivo d’essere di questo
titolo. Ma questa sorta di mancanza di significato, il fatto di essere scelto perché suona bene, in realtà assume
un’importanza cruciale nel rivelare il senso
del film e forse di tutto il cinema di Wilder. Un film (e un cinema) che non
ha apparentemente ambizioni di mandare messaggi o di insegnare qualcosa allo
spettatore; piuttosto un film che prova a suonare
bene, a funzionare, ad essere piacevole da guardare di per sé stesso. Non
solo nella settima arte, ma spesso genericamente in tutta la produzione
artistica, si usa dire morale della favola
per ricavare il messaggio dell’Autore ai suoi fruitori: come se il cinema (o la
letteratura o la pittura o la musica) fosse meramente un media, un mezzo, per
veicolare un determinato messaggio, spesso di natura morale o sociale. Questo
provoca spesso operazioni discutibili sul piano finale perché soprattutto la
critica finisce per valutare più queste intenzioni sottese rispetto alla
qualità dell’opera in senso strettamente e tecnicamente artistico.
E’ un rischio che non si corre con Billy Wilder, un regista
che fa film di genere, quindi dichiaratamente commerciali e apparentemente
senza pretese sociali, ma di rara competenza cinematografica. E in questo senso,
A qualcuno piace caldo potrebbe
essere inteso come il suo film manifesto. Ma non perché il film non ha un significato, al contrario; perché è
proprio quando l’autore smette di voler essere il “maestro che insegna”, che
riesce a cogliere la vera essenza, la vera arte, e la traduce nella sua opera. Datemi una maschera e vi dirò la verità
diceva Oscar Wilde, ed è quello che fa' praticamente sempre il sublime regista
di origine ebrea con i suoi film mascherati da produzioni commerciali di genere, ma che trova la
quintessenza in questo Some like it hot,
film in costume (siamo nei ruggenti
anni venti) dove i protagonisti Tony Curtis e Jack Lemmon (Jerry/Daphne) si
travestono, ulteriormente, da donne.
Il tema stesso dell’opera è forse dunque la capacità del cinema, proprio nel suo essere arte commerciale e di finzione, di esprimere al
meglio il mondo, la società in cui viviamo. E se il cinema ha la possibilità di
dire la verità
proprio perché è finzione, abbiamo visto come in Some like it hot il falso abbondi: dall’epoca d’ambientazione ai
travestimenti dei protagonisti. L’abilità di Wilder è naturalmente che ognuna
di queste finzioni ha più di una interpretazione che funziona su piani diversi
contemporaneamente; prendiamo l’ambientazione degli anni venti, gli anni del
proibizionismo. A livello narrativo, serve un pretesto forte per costringere i
due uomini protagonisti, Joe e Jerry, a travestirsi e l’occasione è offerta
dall’essere stati testimoni nientemeno che della celebre Strage di San
Valentino. Quindi l’ambientazione nell’epoca dei gangster serve per avere quel
livello di pericolosità sociale, visto che in simili situazioni si rischiava
realmente la pelle, per cui andarsene in giro vestiti da donne pur di scamparla
è narrativamente più che plausibile. Ma i ruggenti anni venti erano famosi non
solo per i gangster ma anche per il proibizionismo: era una società con leggi
fortemente restrittive; leggi che, risultò poi evidente, alimentarono la
criminalità anziché dissuaderla, ma tant’è. In ogni caso molte restrizioni,
soprattutto in ambito artistico o cinematografico, incredibilmente resistono
tenaci anche sul finire degli anni ’50, gli anni del definitivo boom economico.
E nonostante la presenza di questi limiti censori, perlopiù di matrice sessuale,
nella società dei tardi anni 50 i riferimenti in tal senso abbondano: sono gli
anni di Marilyn Monroe, la bomba atomica sexy, protagonista con tutte le sue
curve proprio di A qualcuno piace caldo,
o di Elvis Presley i cui espliciti movimenti gli fecero guadagnare il
soprannome di “Elvis the pelvis”.
Ricapitolando, nel 1959 (anno di uscita di A qualcuno piace caldo) abbiamo una censura, e la necessità artistica e sociale di eluderla,
esattamente come nel tempo del proibizionismo si cercava di infrangere le
rigide leggi vigenti: quindi l’ambientazione temporale nei roaring twenties, che appare strettamente legata a motivi
narrativi, risulta anche un’efficace metafora dell'epoca corrente. Detto di questa possibile sovrapposizione metaforica,
osserviamo ora uno degli strumenti di tale metafora: ovvero il tema del
travestimento. Il travestimento sessuale era un argomento assolutamente tabù nel cinema di serie A, di quello con le star celebrate di Hollywood per intenderci:
come Wilder sia riuscito a produrre un film con un simile tema rimane un po' un mistero, anche se nel vederlo appare evidente il grandissimo lavoro per rendere
apparentemente innocuo ogni possibile rimando sessuale troppo esplicito.
Sebbene, in quest’ottica, la coppia di suonatori Joe e Jeff, uno di sassofono e
l’altro di contrabbasso fornisca più di uno spunto: uno suona il sex, scusate
il sax, mentre lo strumento dell’altro ha le curve di una diva del cinema.
Oltre a questi, ci sono tantissimi altri ammiccamenti, ad esempio quelli resi
sempre più espliciti tra Osgood (Joe E. Brown), un anziano in cerca d’avventure,
e l’oggetto delle sue mire, Daphne (Jack Lemmon travestito!). Lo scostumato
ottantenne, a cui l’attore Joe E. Brown presta un’efficacissima maschera ebete e lasciva, con una enorme
bocca sorridente e peccaminosa, riesce a corrompere Daphne/Jeff fino a
quasi(?) convincerlo/a ad accettare la relazione, in un crescendo culminante
con la fulminante battuta finale: quando infatti Jeff/Daphne, togliendosi la
parrucca, rivela a Osgood di essere un uomo, questi risponde con un “beh, nessuno è perfetto!” che suggella
in modo emblematico l’intero film.
Ci sono altre coppie che si compongono e scompongono
all’interno del film, e tutte o quasi (e in quel dubbio sta’ quello che
potremmo definire il Wilder Touch)
con riferimenti sessuali: abbiamo visto Joe & Jeff (uomo & uomo) e
Osgood & Daphne (uomo & travestito) ma ci sono anche Josephine &
Zucchero (travestito e donna), Daphne & Zucchero ( travestito & donna),
Josephine & Daphne (travestito & travestito) fino a Joe & Zucchero
(uomo & donna) che è l’unica coppia normale
del film. Ma anche focalizzandoci su questa ultima coppia, l’unica canonica, si
possono notare numerosi aspetti, diciamo così, inconsueti. Innanzitutto la
coppia si forma nella scena della spiaggia, con l’uomo comunque doppiamente
travestito: il suonatore di sassofono Joe si spaccia per il ricco erede della
nota industria petrolifera Shell, mentre è vestito da marinaio. Proprio una conchiglia,
noto marchio dell’azienda, viene usata da Joe per indicare la propria famiglia:
ma la conchiglia è un simbolo femminile, quindi il gioco dei travestimenti o
delle inversioni, si insinua sin da subito anche nella coppia Joe – Zucchero.
Poi, al momento dell’appuntamento sulla barca, Joe si presenterà in un primo
istante vestito da marinaio dimenticandosi alle orecchie gli orecchini di
Josephine, ricordandosi di toglierseli all’ultimo secondo utile. A quel punto,
non a caso, l’uomo porterà la ragazza a bordo dello yacht andando a marcia
indietro, un fatto reso plausibile narrativamente con un doppio espediente: Joe
non conosce lo scafo e quindi non sa manovrarlo e togliere la retromarcia, ma
alla ragazza racconta una bugia nella
bugia, dicendo che è nuovo e non lo ha mai usato. E, ancora non a caso, una
volta a bordo, l’uomo non sarà in grado di rispondere alla stessa su quale sia
la parte davanti e quella posteriore della barca, lasciando intendere una
presunta bi-direzionalità delle cose. Ma questi rimandi si traducono poi in
aspetti realmente connessi al sesso quando Joe si spaccia per frigido (per usare le parole di
Zucchero) per stimolare la stessa ragazza che quindi assume il ruolo tipicamente
maschile di intraprendenza per aiutare l’uomo a sbloccarsi.
Il tema del travestimento non è il vero argomento del film,
o meglio, lo è ma in senso più profondo rispetto a quello legato a vestiti
femminili, parrucche, rossetto e cerone.
Proprio questi trucchi ci dicono come nel tentativo
di esaltare la femminilità, questi espedienti finiscano praticamente per
assumerne il significato: al di la dell’apparenza, (Joe e Jeff sono accettatiti
come donne perché sembrano tali)
queste non sono che alcune delle tante sfaccettature del feticismo, che è quel fenomeno nel quale assume il ruolo di
rilevanza l’oggetto (il feticcio) che rappresenta simbolicamente la cosa reale
che dovrebbe essere omaggiata dall’oggetto stesso. Nel caso del travestitismo
abbiamo l’esaltazione di quei trucchi, vestiti e accessori che sono ormai
diventati loro stessi punti di attrazione del desiderio sessuale andando
(quasi?) a sostituirsi all’originale oggetto
del desiderio stesso (nel caso specifico, la donna, con buona pace delle
femministe). Ma nel film ci sono altri
riferimenti al feticismo, oltre a tutti quelli legati al suo sottotema del travestimento:
nelle scene del viaggio in treno le gambe e i piedi delle ragazze
dell’orchestra sono esibiti insistentemente in moltissime inquadrature; Zucchero
chiede a Daphne se la riga delle calze in nylon sia dritta; nella scena
cruciale dove Osgood conosce Daphne questa
perde la scarpa col tacco, modello Cenerentola, e l’anziano provvede nel ruolo
del principe; le stesse scarpe col tacco per cui Jeff, per il resto vestito da
uomo, viene riconosciuto dai gangster nel finale. Ma anche le ghette o lo stecchino
con cui vengono identificati proprio i due boss malavitosi sono anch’essi di
matrice feticista. Ma Some like it hot
è un film feticista, nel senso profondo del termine, oltre che per tutti questi
motivi esteriori che abbondano nel lungometraggio, perché ci dice che il cinema, che è il feticcio della realtà, può essere considerato in sé e per sé senza più dover rendere conto alla realtà stessa, o anche a qualche messaggio
sociale o morale, per poter essere considerato degno.
No, ormai il cinema ha una dimensione che lo rende autonomo, autosufficiente. Ma attenzione: in Wilder non c’è giudizio morale su questa metamorfosi feticista del cinema. Wilder, da grande, grandissimo artista, coglie questa trasformazione e la concretizza con un testo filmico che mostra in modo lucidissimo lo stato delle cose. A qualcuno piace caldo
potrebbe parlare, e forse lo fa, della promiscuità del desiderio sessuale nella
società, ma non è necessario che Wilder renda esplicito l’eventuale messaggio, posto che ci sia. Questa zona
di indeterminazione degli elementi in gioco a livello di opera artistica,
riflette le tematiche del film (maschile, femminile o le due cose insieme) ed è
quello che potremmo definire il Wilder
Touch: la realtà è più ambigua di quanto ci piace credere.
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