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mercoledì 31 agosto 2022

LUCE SOLARE CALDA

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1088_LUCE SOLARE CALDA (Solntsepyok). Russia 2021;  Regia di Maksim Brius e Mikhail Vasserbaum.

“Lo sai che non posso ascoltare troppo Wagner… sento già l’impulso ad occupare la Polonia”. Forse gli autori di Luce solare calda, Maksim Brius e Mikhail Vasserbaum, intendevano altro con l’ostentata citazione di Richard Wagner, autore del libro conservato gelosamente da uno dei personaggi del film il cui titolo viene rivelato solo nel finale. Eppure le parole del Larry Lipton interpretato (e diretto) da Woody Allen ne Misterioso omicidio a Manhattan (1993) sembrano particolarmente profetiche e calzanti per cogliere lo spirito di Luce solare calda. A patto di togliere qualunque sfumatura ironica che Allen sa da sempre usare sapientemente; nel film di Brius e Vasserbaum di umorismo non c’è invece traccia. E allora la minaccia, la voglia di invadere, di conquistare, diviene elemento concreto, proprio come, è ormai tragicamente noto, accadrà tempo dopo agli avvenimenti narrati nel film. Siamo infatti a Lugansk, Ucraina orientale, nel fatidico 2014, ai tempi poco successivi ai fatti di Maidan, universalmente riconosciuti come evento scatenante la crisi russo ucraina. Ma è l’unico elemento che mette d’accordo le due visioni sulla questione, perché per la successiva escalation bellica i due schieramenti si rinfacciano le responsabilità. Luce solare calda è un film russo e, quasi sia una inevitabile conseguenza, mostra come furono i militari di Kiev a bombardare senza riguardo alcuno civili e popolazione inerme, senza preavviso e senza motivazione giustificata. Il film non perde poi troppo tempo a spiegare se vi sia una strategia, in questo, se non nelle sbrigative didascalie iniziali. Poi, nel corso del film vero e proprio, i missili cadono puntuali ad interrompere bruscamente, brutalmente e definitivamente una serie di brevi sottotrame imbastite giusto per poter essere tranciate dai bombardamenti. A dir la verità, verso il finale, quando è chiara l’ingerenza occidentale sulle forze governative, si apprende che l’idea di bombardare a pioggia in modo massiccio e preventivo, sia stata messa in pratica per scoraggiare sul nascere ogni tentativo di resistenza. Ma non ci sono solo i bombardamenti, a seminare il terrore tra la gente dell’Ucraina dell’est. Il film si apre infatti con un preambolo di rara brutalità nel quale vediamo una squadra di volontari al soldo dell’esercito ucraino fare un’incursione in un remoto villaggio del Donbass ammazzando e violentando senza alcuna pietà chiunque gli si pari d’innanzi. Il cinema bellico, specialmente quello russo, come stilemi narrativi si sta sempre più spostando verso un horror talmente estremo da far impallidire il gore, lo splatter o lo slasher, che del cinema di paura erano le derive più cruente. 


Il che non è che sia proprio un bel biglietto da visita: realistico, probabilmente, ma preoccupante se lo intendiamo come esempio del modo in cui sia tranquillamente accettata l’idea di guerra da quelle parti. In questo caso, per la verità, la responsabilità è da attribuire ai criminali che i governativi di Kiev hanno liberato con lo scopo di combattere i Seces e, quindi, la violenza mostrata non sarebbe da ricondurre alle istituzioni militari ufficiali. Anche se un ambiente che partorisce una simile idea, aprire le carceri ai peggiori elementi per assoldarli nei propri ranghi, sposta di poco la questione. Certo, sono scene che fanno indignare ma sono anche un po’ troppo prevedibili nell’ottica della propaganda esplicita che permea Luce solare calda, per essere realmente interessanti. 

Per carità, episodi simili saranno successi (e, ahimè, succederanno ancora) ma messa nei termini del film appare una teoria fin troppo banalmente faziosa per essere attendibile. Poi, è anche vero che quello di Brius e Vasserbaum è un film di guerra e non un resoconto ferreo dei fatti e quindi si può prendere per quello che è, un’opera di finzione. Piuttosto è interessante lo spirito di cui è intriso Luce solare calda, un racconto tragico di guerra non teso alla ricerca della pace, al di là di alcuni dialoghi di facciata, ma propedeutico per la vendetta. C’è un passaggio, emblematico in questo senso. Ad un certo punto, Gritsay (Aleksei Kravchenko) ufficiale della milizia separatista, ha catturato uno dei criminali della squadra di volontari responsabile dei massacri visti in apertura del film. Narrativamente, siamo di fronte ad un bivio: o lo tiene prigioniero o lo uccide a sangue freddo. 

Gritsay infila con malcelata indifferenza la sua automatica nella cinta della mimetica, dietro la schiena, e poi si volge, offrendo le spalle al nemico. E’ un esca che il criminale cerca di cogliere al volo: il militare non aspettava altro e fulmineo si gira pugnalandolo mortalmente. In fondo, era la sua idea sin dall’inizio, ma serviva un pretesto, una scusa per poter legittimamente (mettiamola così) uccidere il nemico. Tutto Luce solare calda è proteso nel mostrarci come sia legittima una rivalsa dei filorussi e, vedendo le atrocità operate da Kiev (da parte dei volontari e dei militari responsabili dei bombardamenti missilistici), ci sarebbe poco da obiettare. 

Se, come detto, non fosse che la ricostruzione dei fatti pare piuttosto lacunosa. Sarebbe servito, ad esempio, nell’ottica di una maggiore credibilità narrativa (non in senso strettamente storico ma unicamente narrativo) mostrare le proteste filorusse degli Oblast di Donetsk e Lugansk, invece si è perso tempo più volte a sottolineare la barbarità delle manifestazioni di Maidan. Eppure, le proteste di piazza Indipendenza, se certamente furono la scintilla iniziale della catena degli eventi, non giustificano direttamente il bombardamento del Donbass. Per enfatizzare il fatto che l’attacco di Kiev fu ingiustificato gli autori hanno omesso alcuni passaggi storici e, se questo ha poco interesse nella ricostruzione fedele dei fatti (è un’opera di finzione, va ricordato), il risultato mina fortemente la credibilità narrativa. Poi, in chiusura viene in mente un refuso fatto all’inizio di questa recensione. Non è vero che non c’è ironia, in Luce solare calda. Non ce n’è nel racconto filmico vero e proprio ma il lungometraggio è aperto da una sequenza animata che presenta la Aurum Production, con un orso che fa il verso al celebre leone della MGM. La scenetta si conclude con l’orso russo che infila allo spiedo le aquile americana e tedesca e il galletto francese, per potersele mangiare. Si scherza, eh, si capisce; ma non chiedete agli ucraini la conferma.    




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martedì 30 agosto 2022

BAD ROADS - LE STRADE DEL DONBASS

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1087_BAD ROADS - LE STRADE DEL DONBASS (Plokhye dorogi). Ucraina, Lituania 2020;  Regia di Natalya Vorozhbit.

Premiato alla Settimana Internazionale della Critica 2020 a Venezia, Bad Roads - Le strade del Donbass, lungometraggio di Natalya Vorozhbyt, non è un film d guerra eppure della guerra riesce a cogliere, molto più di testi esplicitamente bellici, la natura. L’ambientazione è l’Ucraina orientale durante la guerra del Donbass; il testo è tratto da un dramma teatrale della stessa Vorozhbyt ma il lavoro di trasposizione cinematografica dell’autrice ucraina è notevole. Rimane in parte leggibile, nella staticità complessiva dei quattro segmenti narrativi, l’impostazione teatrale ma il racconto ha un tale spessore che riesce a trasportarci anche in mancanza di una narrazione forte. Non è che l’azione manchi del tutto, sia chiaro; anzi in un passaggio ce n’è anche troppa. L’episodio, il terzo, in cui un soldato russo sequestra una giornalista ucraina, ha scene di violenza assolutamente disturbanti. Tuttavia non è certo quella che sostiene il racconto, quella semmai è un ingrediente (leggendola in chiave strettamente narrativa) per creare i presupposti al dialogo e, in conseguenza, al rapporto che si istaura tra la donna e il suo carnefice. Perché, da buon testo teatrale, Bad Roads si basa essenzialmente sui dialoghi; e si capisce sin dal primo episodio che Natalya Vorozhbyt ha, in questo specifico, stoffa da vendere. Un signore (Ihor Koltovskyy), che scopriremo essere un preside, è fermato con la sua auto in un posto di blocco dai militari ucraini. Per errore consegna il passaporto di sua moglie al soldato che gli ha chiesto i documenti, che lo guarda stupito chiedendo se è lui che ha un nome da donna. 

Già si percepisce una sottile ironia, sia nelle parole del militare ma soprattutto dell’autrice, che mantiene la tensione, il soldato ha un fare comunque minaccioso, sotto controllo grazie ad una calibrata dose di umorismo sottotraccia. Il preside si scusa, quello è il nome di sua moglie, deve aver scambiato i passaporti per errore. Il militare continua a giocare al gatto col topo, chiedendo se per caso avesse il passaporto del marito di questa signora; non gli chiede direttamente il suo passaporto, al preside, ma il passaporto del marito della donna che il poveruomo ha detto essere sua moglie. Ha voglia di scherzare, il militare; si e no. Perché ha a tracolla un fucile da guerra per niente rassicurante e si intuisce che ci metterebbe niente ad adoperarlo. Il passaporto non salta fuori, la tensione sale e l’arrivo del comandante (Andriy Lelyukh) finisce per alimentare la vena surreale della situazione tanto che, dopo una serie di concitati scambi di opinioni, il preside vede una sorta di fantasma. L’uomo, infatti, ad un certo punto sostiene di aver visto una delle sue alunne nei pressi del posto di blocco e si preoccupa per lei; ma si tratta, per quel che può stabilire lo spettatore, di un’allucinazione. 

Questo breve passaggio è importante per due motivi: intanto perché alcuni riferimenti (la ragazza orfana allevata dalla nonna) lasciano intendere che il secondo episodio sia la prosecuzione del primo. A conti fatti possiamo ritenere invece quelle imbeccate una falsa pista, un modo semmai per segnalare che Bad Roads non ha una storia che lo sorregge. Anche se può sembrare che ci sia un nesso, poi va infatti concluso che non c’è relazione narrativa tra i vari episodi. E quello della mancanza è uno dei temi del film: del resto la guerra (che nel film non si vede, manca, appunto) segna proprio la mancanza della ragione, del buon senso, dell’umanità e si potrebbe andare avanti elencando qualsiasi valore positivo di cui nel senso, nel pretesto alla base di ogni guerra, non troveremo mai traccia. La ragazza misteriosa intravvista dal preside è il primo dei personaggi che aleggiano senza comparire nei quattro segmenti narrativi: dopo di lei sarà la volta del militare fidanzato della ragazza orfana (Anna Zhuravska), che non si presenta all’appuntamento, poi della truppa di soldati agli ordini del violentatore, che non si palesa, come invece aveva minacciato l’uomo, e, per chiudere in bellezza, sarà il turno di una gallina investita da una ragazza di città (Zoya Baranovska). Sono personaggi significativi perché alimentano le varie storie: se i militari del posto di blocco forse grazie alla citata allucinazione si convincono che il preside si è preso un colpo di calore e anche per questo ha il fare un po’ sospetto, il soldato fidanzato è l’oggetto di scherno delle amiche della ragazza orfana e delle preoccupazioni della nonna. 

La truppa ha il ruolo di terrorizzare per un attimo, ancora di più di quanto non lo sia già, la giornalista violentata (Maryna Klimova), mentre la gallina è il pretesto per due insospettabili contadini per ricattare la guidatrice cittadina. Si diceva che questi personaggi non sono trascurabili, in quanto è grazie soprattutto a loro se i vari racconti procedono: ma di fatto sono assenti dal film. E del resto, a Bad Roads, manca anche una vera e propria ambientazione: le location degli episodi sono non-luoghi, più che luoghi veri e propri. Un posto di blocco, una fermata dell’autobus, un ex sanatorio distrutto dai bombardamenti, il cortile della casa dei contadini. In mezzo a questo vuoto, a questa mancanza di tutto, che è il risultato della guerra, ai personaggi mancano o cominciano a mancare anche le coordinate morali, e questi danno l’impressione di non saper più cosa fare, non sapere più cosa sia giusto e cosa sbagliato. 

Il preside, in effetti, sembra quasi godere nell’esasperare i due uomini al posto di blocco che, da parte loro, hanno il classico comportamento schizofrenico dei militari. Adesso scherzano amichevoli poi, appena vedono la forma di un kalashnikov, che è finto, serve per le esercitazioni a scuola (!!), possono farti saltare le cervella prima di accorgersi che l’arma è innocua. La ragazza orfana bullizzata dalle amiche si rivela ben peggiore nel modo in cui tratta la nonna; la giornalista dimostra un’impressionante capacità di fingere e mentire (non un bel messaggio, per la stampa) tanto da riuscire ad ammansire la belva che la tiene prigioniera. Poi, quando ne avrà la possibilità, mostrerà un lato belluino non poi così differente. 

E il militare stupratore, passato il momento violento, lascia intravvedere momenti di umanità, che gli saranno tra l’altro fatali. Questo aspetto, questo sottolineare come in un simile contesto comportarsi da persone civili può essere pericoloso, lo si legge anche nello sguardo della donna cittadina quando scopre che i due poveri contadini si stanno rivelando per esseri abietti e approfittatori. Lei, che dopo essere tornata il giorno dopo per pagare la gallina investita, si trova ora oggetto di uno squallido ricatto; giustamente si deve essersi pentita amaramente del senso civico che l’aveva spinta a saldare il suo debito. Anche lei, che da persona giovane, benestante, civile ed educata ha qualche direttiva morale in più rispetto agli altri personaggi del racconto, sul momento sembra allora vacillare. A sorpresa sarà la vecchia contadina ad avere uno scatto di moralità, quasi svegliandosi dall’ipnosi avida che l’aveva portata a mettere all’angolo la povera ragazza; il marito è solo il suo braccio destro, la guida nella coppia è lei. E a lei, e ad un’altra figura anziana e femminile del racconto, la nonna dell’orfana, dovremmo appellarci per riuscire a trovare qualcosa di buono per cavarsela simbolicamente in una situazione così disperata come quella dipinta dalla Vorozhbyt col suo film. Una nonna e un’anziana contadina: più che una speranza sembra un rimpianto o forse solo nostalgia. Davanti a noi, del resto, non ci sono che Bad Roads.   





   Anna Zhuravska


  Zoya Baranovska

Maryna Klimova

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lunedì 29 agosto 2022

THE EARTH IS BLUE AS AN ORANGE

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1086_THE EARTH IS BLUE AS AN ORANGE . Ucraina, Lituania 2020;  Regia di Iryna Tsilyk.

Innanzitutto, il titolo; come dovrebbe sempre essere, del resto. Certo, in genere un’opera è presentata in forma coerente già dal nome e quindi la cosa diventa superflua. Di fronte a The earth is blue as an orange (la terra è blu come un’arancia), titolo del documentario di Iryna Tsilyk, si rimane invece spiazzati. Cosa diamine centrano le arance (blu, poi!?) col Donbass, regione orientale dell’Ucraina dove infuria una sorta di guerra civile, e dove è appunto ambientato il film della Tsilyk? Niente, in effetti. Ma La Terre est bleue comme une orange era già il titolo di un poema di Paul Éluard (si trova in L'Amour la poésie del 1929), un’opera appartenente al movimento Surrealista. Pertanto, ci si possono aspettare immagini surreali, appunto, e ben poco credibili; e il fatto che l’opera sia non uno, ma due documentari concentrici (per così dire), è un terribile cortocircuito. Come è possibile che sia vero tutto ciò, verrebbe infatti da dire osservando la devastazione lasciata nelle aree oggetto del conflitto? Com’è possibile che lo sia ancora oggi, nel terzo millennio? E’ un incubo, un brutto sogno, il frutto di un’immaginazione (malata) lasciata senza freni. E’, in sostanza, surreale. Peccato che sia anche la realtà. E’ già questa semplice analisi ci dice dello spessore dell’opera di Iryna Tsilyk perché tutto ciò non è ostentato, appesantito o pedante; la cosa, il riferimento al poema d’origine, è lasciata alla sensibilità dello spettatore. C’è una didascalia nei titoli di coda che rende merito a Paul Éluard, il poeta francese, ma niente più. Semmai è quello che è mostrato dal film a lasciare appunto spiazzati, proprio come ci si sente davanti ad un’opera surrealista. E nel film, il parallelo con le difficoltà a comprendere la realtà che ci sta di fronte si spinge anche oltre. 

The earth is blue as an orange è un’opera fortemente metalinguistica, con l’obiettivo della Tsilyk che riprende la famiglia Trofymchuk nella vita quotidiana ma, prevalentemente, mentre questa è alle prese con la realizzazione di un documentario. Un documentario nel documentario. L’abilità della regista ucraina (al suo lungometraggio d’esordio!) è tale che presto ci dimentichiamo della prima infrastruttura che si frappone tra noi e quanto visto sullo schermo. Naturalmente è evidente che ci sia qualcuno che gestisce le riprese della famiglia che vive nel Donbass (c’è sempre chi lo fa, al cinema, anche in quello di finzione, per cui lo si dà per scontato) ma siamo talmente concentrati sui meccanismi della realizzazione del documentario dei Trofymchuk che si rischia di dimenticarsi che le stesse considerazioni che si vanno formulando valgano poi anche ad un livello, diciamo così, superiore. 

Perché, se pare sorprendente come un film, che risulterà poi fortemente autentico (gli occhi umidi degli spettatori nel finale), sia, nella realtà dei fatti, frutto di una totale opera di ricostruzione, lo stesso meccanismo si potrebbe applicare anche al lavoro della Tsilyk. Non c’è sostanzialmente niente di vero nel documentario dei Trofymchuk: le scene dell’isolamento nella cantina, al lume di candela, sono realizzate in modo posticcio; le dichiarazioni dei vari membri sono provate e riprovate, al fine di avere una resa sullo schermo ottimale (per quanto possibile) e credibile. Perfino la scena col carro armato, fermato per la richiesta di antipiretici per uno dei bambini di casa, è girata più volte. 

Si aspetta il passaggio di un altro mezzo corazzato, ovviamente, però i militari sono consapevoli di fare cinema, come esplicitamente evidenziato col saluto finale. In questo svelare, in modo quanto mai onesto, il lato oscuro della settima arte, anche di quella apparentemente più credibile, il documentario, Iryna Tsilyk si è guadagnata meritatamente la vagonata di premi e riconoscimenti che ha sommerso The earth is blue as an orange. Dalla miglior regia al Sundance Film Festival 2020 e via, per un’altra ventina di riconoscimenti, l’opera della giovanissima regista nata a Kiev ha raccolto consensi in ogni parte del mondo. Come detto, tecnicamente il suo lavoro è ineccepibile: il suo tenersi nell’ombra, lasciando la ribalta al suo alter ego, Myroslava Trofymchuk e ai suoi improvvisati strumenti di ripresa, rivela ulteriormente l’inganno che è alla base del cinema. Il cinema non pretende (o non dovrebbe pretendere) mai di raccontare la realtà, come millantano di fare la televisione, il giornalismo, l’informazione. Il cinema, per quanto sia sempre un’interpretazione, in quanto arte può assurgere a verità, piuttosto. Può essere più vero un film di pura finzione (un film d’avventura, di genere, quello che si vuole) di un qualunque reportage giornalistico che, proprio nel suo spacciarsi per cronaca realistica dei fatti, è da considerare sempre attendibile solo relativamente. Mark Twain aveva lapidariamente espresso questo concetto con il suo famoso aforisma: se non leggi i giornali sei disinformato. Se li leggi sei male informato


Al cinema, anche il documentario che si presenta nel modo più asettico, dopo il titolo vede sempre (o dovrebbe vedere) il nome dell’autore che, così facendo, si prende la responsabilità di quanto è mostrato sullo schermo e non lascia intendere che questo sia una ripresa oggettiva in senso assoluto (impossibile, da ottenere). Solo se l’autore riesce a cogliere lo spirito artistico del cinema, solo allora quello che metterà sullo schermo sarà verità, in piccola o grande misura, perché l’arte è vera per definizione. La commozione negli occhi degli spettatori, nel finale di The earth is blue as an orange, le loro lacrime, le loro espressioni, considerato che non sono attori e per i 70 minuti precedenti lo hanno ampiamente dimostrato, ci danno la cifra della sofferenza che la piccola cittadina sta vivendo a causa del protrarsi della guerra. Questa è una verità che si può cogliere in modo lampante in The earth is blue as an orange. E’ ancora una volta geniale, la Tsilyk, scegliendo di inquadrare i loro volti anziché insistere sul risultato del lavoro filmico dei Trofymchuk, perché in questo modo ci dà una prova credibile ma mette in risalto anche il rischio connesso. Prima di dedicarsi a questa carrellata sugli sparuti ma partecipi spettatori, che come detto ci rassicura un’ultima volta sulla verità insita in The earth is blue as an orange, la regista vuole infatti mettere ulteriormente a nudo i rischi del mestiere. 

I brevi momenti del documentario dei Trofymchuk sono l’ennesimo colpo di scena metalinguistico che ci riserva il film: perché le immagini sono drammaticamente forti ed evocative. E’ quasi uno choc, ma non tanto per quel che mostrano. Piuttosto perché noi sappiamo che sono ricostruzioni improvvisate; ecco, improvvisate in modo talmente amatoriale da sembrare poi ancor più credibili, ancora più ingannevoli. Perché, da un punto di vista tecnico, quelle immagini non sono vere. Sembrano scene di una famiglia sotto attacco invece abbiamo visto le donne in questione ridere e scherzare mentre ricostruivano i drammatici eventi. Quello che emerge da The earth is blue as an orange è che perfino il cinema, non solo i reportage giornalistici o i notiziari, può ingannare, può veicolare il falso spacciandolo per vero. La scena successiva, quella degli spettatori, ci rassicura sulla validità degli intenti e sull’attendibilità delle ricostruzioni. La differenza è tutta qui ma è una differenza abnorme. In questo momento storico, con un conflitto in corso, le difficoltà nel distinguere il vero dalla propaganda di parte è enorme, ma questo è un problema che abbiamo sempre. Quanto c’è di vero in un reportage che si spaccia per autentico? Quanto sono credibili le scene che vediamo alla tv? L’abbiamo appena sperimentato: basta uno strumento di ripresa e un po’ di buona volontà e si può inscenare qualsiasi cosa; il fatto che sia credibile e che corrisponda al vero sono due concetti che viaggiano su binari paralleli, e hanno tutto sommato poco in comune. Per questo occorre uno sguardo attento, in qualità di spettatori non solo del cinema ma di questo nostro mondo. Uno sguardo capace di cogliere la piccola didascalia tra i titoli di coda, che sappia istradarci, darci una chiave di lettura per decifrare la realtà di ciò che ci appare davanti agli occhi. E questo va fatto sempre, anche in presenza di un’onestà artistica come quella di Iryna Tsilyk e del suo cinema. Perché il cinema autentico, come la realtà, non è mai un atto di fede.    




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domenica 28 agosto 2022

KYIV-WAR TRAIN

IL RITORNO DELLO ZAR: #L'ORA DELLA FINE

1083_KYIV-WAR TRAIN . Ucraina, 2020;  Regia di Korney  Gritsyuk.

Per quel che riguarda gli aspetti tecnico artistici, Kyiv-War train, documentario di Korney Gritsyuk è un’opera trascurabile. Nonostante la vittoria al Festival internazionale di Kyiv (miglior documentario) e altre nomination sempre nell’ambito del cinema ucraino, quello di Gritsyuk è, in buona sostanza, il semplice filmato girato durante un viaggio (o forse più viaggi) in treno da Kiev, lontana dalla guerra che infuria nel Donbass, a Kostyantynivka, piccola città dell’est Ucraina appena al di qua del fronte dei combattimenti. A rendere a suo modo speciale Kyiv-War train concorrono due elementi: in primo luogo c’è proprio il fatto che la linea ferroviaria su cui corre il treno in oggetto collega la capitale ad una zona dove è in corso una guerra le cui motivazioni appaiono poco comprensibili. Poco comprensibili allo spettatore occidentale ma, a sorpresa, in un certo senso anche agli stessi ucraini, almeno stando al documentario di Gritsyuk. E, a questo proposito, si può passare al secondo elemento di interesse per Kyiv-War train: l’opera ci appare talmente amatoriale da scongiurare, almeno a sensazione, l’ipotesi che possa essere in qualche modo pilotata in modo fazioso da questa o quella corrente politica. Intendiamoci, già nel tono delle parole di Gritsyuk, o da alcune scelte nel montaggio delle interviste, si capisce quale sia la sua opinione sulla guerra ma di per sé l’essere schierato, in un senso o nell’altro, non è un fatto negativo. In sostanza il giovane filmmaker sembra ritenere più corretta la posizione del suo paese, l’Ucraina, come è anche naturale, e si interroga, e interroga anche i suoi interlocutori che scopre essere di vedute opposte alle sue, sulle motivazioni della controparte. 

Ciò che emerge è un po’ quello che prevedibilmente può accadere quando si è in presenza di uno stato in cui vi sia una consistente minoranza: finché le condizioni generali sono favorevoli (leggi, Ucraina e Russia sono in buoni rapporti), la convivenza è pacifica e l’integrazione finisce per mescolare la popolazione. Quando muta il quadro complessivo (in questo caso, l’Ucraina decide di svoltare ad occidente) cominciano i problemi e se l’integrazione non ha completato il suo corso, le cose possono assumere connotati spiacevoli. Certamente una guerra come quella del Donbass, che si protrae da anni, alimenta i sospetti che dietro i separatisti ci sia direttamente la Russia; ma c’è anche chi, tra gli intervistati, tira in ballo gli americani come potenza straniera che ha interferito in modo sinistro nelle beghe ucraine. Naturalmente queste considerazioni sono semplicistiche: d’altronde sul treno viaggia gente comune e non esperti in geopolitica; ma è un interessante tentativo per comprendere, o almeno provare a farsi un’idea, di quali siano i sentimenti della pancia del paese. Pur se confezionato come un documentario amatoriale, è difficile pensare che il campione di intervistati di Kyiv-War train sia estratto casualmente da uno o più viaggi sul treno in questione; è più probabile che Gritsyuk abbia inserito quelle interviste che, secondo la sua idea, meglio avrebbero composto una descrizione dell’opinione pubblica ucraina sulla situazione. Un bilancio complessivo, in qualità di spettatore al di fuori degli eventi, è quindi da farsi con tutte le cautele del caso. Comunque qualche spunto che vale la pena annotarsi c’è. 

E nonostante vi siano personaggi anche curiosi, forse inseriti anche per alleggerire un po’ il tono del racconto, c’è un passaggio quasi in tono minore che pizzica subito la curiosità di chi è estraneo alle vicende ucraine. Non sono, infatti, l’uomo filorusso che si contraddice spudoratamente, il signore multietnico o le due donne che litigano, a lasciare maggiormente il segno; tipi così ci sono ovunque. Piuttosto, ad un certo punto, un ragazzo fin lì rimasto più che altro taciturno, seppur nei suoi modi tranquilli ed educati sulla questione della Guerra del Donbass sposa con fermezza le posizioni ucraine, e non sembra certo un esaltato. A quel punto, a domanda precisa, risponde che ritiene Stepan Bandera un eroe nazionale, colui al quale si deve il concetto stesso di Ucraina indipendente. Ora, Bandera non è un personaggio così noto ai più, al di fuori dei confini nazionali ucraini; se non in Polonia dove è considerato il maggiore responsabile del genocidio di Volynija. In ogni caso, senza essere degli esperti in Storia, basta una rapida ricerca per farsi un’idea seppur grossolana a proposito di chi si stia parlando. E il ritenerlo un eroe nazionale non depone certo a favore della parte in causa; e se ha farlo non è un convinto paramilitare ma quello che sembra un comune e pacifico ragazzo, la cosa non fa che peggiorare l’impressione. E ricordare che solo nel 2010 addirittura il Presidente ucraino Viktor Juščenko aveva insignito Bandera dell’onorificenza di Eroe dell’Ucraina (annullata solo dopo una lunga battaglia legale per vizi di forma), ci evita l’illusione che il nostro giovane amico intervistato sia un caso isolato.



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