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lunedì 30 luglio 2018

PER UN DOLLARO DI GLORIA

185_PER UN DOLLARO DI GLORIA   Italia, Spagna, 1966;  Regia di Fernando Cerchio.

Il regista Fernando Cerchio, noto per i suoi numerosi film mitologici, i peplum tipici di Cinecittà, si cimenta in questo caso con il genere western, come si capisce sin dal titolo. Non è la primissima volta, ad onor del vero, in quanto nel 1952 Cerchio diresse Il bandolero stanco, con Renato Rascel; ma quello era un western comico, mentre ora il regista piemontese riapproda al genere dopo una feconda esperienza nel cinema in costume; non ci sono infatti solo peplum nel suo curriculum, ma anche pirati e sceicchi. In effetti, l’attenzione al décor militare, specie nelle uniformi confederate, pare fin troppo confezionato, soprattutto all’inizio della pellicola. In ogni modo la vena avventurosa del regista si rivela in una trama di forte trasporto narrativo: dall’avvio in media res, si passa da uno scontro con gli onnipresenti indiani all’altro, senza soluzione di continuità. Non c’è quindi il tempo per introspezione psicologica; peraltro Cerchio riesce a conferire, con sbrigative pennellate, connotazioni caratteriali ai suoi personaggi almeno sufficienti al carattere dell’opera. Peraltro, sarà la potente presenza scenica di Broderick Crawford, nei panni del folle colonnello Lennox, o le ambientazioni comunque ben curate, che sembra quasi di essere in un western hollywoodiano e non in uno spaghetti
La trama, poi, si rivela fondamentale e non solo un mero mezzo di trasporto per condurci al finale: lo svincolo narrativo del soldatino trovato durante il furto del tabacco è più che valido e fa deflagrare una situazione tenuta fino a quel momento abilmente in stallo. Un onesto film avventuroso che si sostiene grazie alle scene di battaglia, alle tensioni interne (ci sono soldati confederati e francesi assediati nello stesso forte), una discreta trama sentimentale (Elisa Montés contribuisce a nobilitare il cast con la sua bellezza), che trova il suo sfogo con un buono spunto narrativo. Si è visto ben di peggio.


Elisa Montés



sabato 28 luglio 2018

QUEL POMERIGGIO DI UN GIORNO DA CANI

184_QUEL POMERIGGIO DI UN GIORNO DA CANI (Dog day afternoon). Stati Uniti, 1975;  Regia di Sidney Lumet.

Quel pomeriggio di un giorno da cani racconta di una rapina ad una banca; alla base del soggetto c’è un episodio reale, occorso a Brooklyn, New York. Fin qui niente di particolare: si potrebbe posare l’attenzione sulla regia del validissimo Sidney Lumet, oppure, sulla più evidente ed eclatante interpretazione straordinariamente istrionica di Al Pacino. Ma, a parte questi prevedibili aspetti, a catturare l’attenzione è anche il tono ironico del film, quasi scanzonato: i primi istanti della rapina fanno addirittura scompisciare dalle risate. Poi il film procede, la rapina si trasforma in un assedio, la vena drammatica sale, quella leggera vira, diviene quasi sarcastica, e rimane un po’ sotto traccia. Sonny (Al Pacino) il protagonista della vicenda, non sa più che pesci pigliare: si è infilato in un gioco più grande di lui, la rapina in banca, e non ha la stoffa per uscirne. La sua incapacità nel sapere cosa fare e dove andare è rimarcata anche dalle scelte della sua vita: è sposato ad una donna, da cui ha due figli, ma si è sposato anche con un uomo, in fede al suo più proprio orientamento sessuale. Ma proprio dalla sua incapacità ad avere un quadro della situazione, ad avere una visione chiara sulle cose, Sonny riesce paradossalmente a cavarne una posizione di forza. Perché è proprio in virtù del suo stato confusionale che egli non coglie la complessità della situazione e neppure le proprie responsabilità, ma si ferma in modo opportunistico solo su quegli aspetti superficiali, e perciò lampanti, che gli possano tornare comodi per manifestare la propria insoddisfazione. In questo senso il film è incredibilmente moderno, cristallizzando un modo di ragionare che diventerà imperante nei decenni a venire. 

I richiami ad Attica, il carcere di New York  dove qualche anno prima c’era stata una rivolta soffocata nel sangue, sono evidenti di questo modo di affrontare la realtà: sono elementi fuori contesto ma risultano validi per infiammare la protesta. Va detto che lo stesso Lumet, il regista, alimenta questa corrente, perché enfatizza in modo poco credibile lo spiegamento di forze della polizia per quella che è, alla fine, una rapina, seppur con gli ostaggi. Considerando anche il fatto che poi lo stesso regista mette in campo un capo della polizia, Moretti (Charles Durning), ben disposto verso i rapinatori, e quindi in contraddizione con l’immagine istituzionale delle autorità messa contemporaneamente sullo schermo. 

Ma la grana della critica sociale di cui si fa ambasciatore Quel pomeriggio di un giorno da cani è piuttosto grossa, non vuole essere raffinata ne tantomeno troppo attendibile in modo letterale. Il pubblico che fa prima il coro alle parole al megafono di Moretti, e poi smaccatamente il tifo per i rapinatori, gli ostaggi che sembrano collaborare con i loro sequestratori, il ragazzo della pizza che si gode il suo momento di celebrità, sono tutti graffi di Lumet che si diverte a ironizzare in un quadro sociale in realtà davvero preoccupante. Se Sonny è un personaggio smarrito, ma il suo socio Sal (John Cazale) è addirittura messo peggio, nessuno nel film sembra sapere cosa fare, quale sia il proprio ruolo: non sanno che fare i rapinatori, non sanno che fare gli ostaggi (troppo collaborazionisti), non sa che fare Moretti. E quando scelgono, sbagliano: come il pubblico, che tifa per i rapinatori. Gli unici che sanno cosa fare sono gli uomini dell’FBI, freddi, calcolatori, spietati.
Insomma, Lumet sembra dire: attenta America, se ti senti un po’ confusa.
Quelli che ti controllano, non lo sono affatto





giovedì 26 luglio 2018

IL FILO NASCOSTO

183_IL FILO NASCOSTO  (Phantom thread). Stati Uniti, 2017;  Regia di Paul Thomas Anderson.

Innanzitutto va detto che Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson è quel capolavoro di cui tutti parlano. Formalmente impeccabile, si regge su un ritmo narrativo calibrato in modo sontuoso che ci prende per mano e non ci lascia mai distrarre un secondo, accompagnati da uno commento sonoro mai invadente ma costantemente presente. Notevole anche la capacità figurativa di Anderson, e di livello anche il cast, in particolar modo i tre attori principali che riescono ad assecondare con personalità le finalità del regista.
Spesso si dice che un film ha una struttura circolare quando nel finale assistiamo ad una scena analoga, o comunque riconducibile, ad una già vista all’inizio; nel caso di Il filo nascosto dovremmo invece parlare di spirale, in quanto la scena dell’insofferenza del protagonista Reynolds Woodcoock (un, al solito, strepitoso Daniel Day-Lewis) verso la propria compagna (chiunque essa sia) apre il film e ritorna altre due volte nel corso della storia. C’è quindi una sorta di avvitamento su sé stesso del racconto filmico e, in effetti, Woodcoock, che è uno stilista inglese degli anni ’50, vive in una sorta di universo chiuso, autoreferenziale, abitudinario, dominato dall’assenza della madre (morta da tempo) le cui veci pare rivestirle la sorella Cyril, interpretata da una bravissima Leslie Manville che ricorda la Judith Anderson nel ruolo della governante nel Rebecca di Alfred Hitchcoock.

E visto che abbiamo scomodato il maestro inglese, cogliamo subito i vari rimandi che Paul Thomas Anderson  dissemina: a parte il cognome Woodcock che ricorda quello di Hitch, abbiamo il carattere dello stesso sarto, nevrotico, ossessivo, maniacale, egoista, indisponente, capriccioso, insomma un uomo geniale che il proprio genio ha contribuito a far restare immaturo. Come del resto era Sir Alfred Hitchcoock nel sua vita privata; vita, nella quale, un ruolo chiave lo ebbe la moglie Alma, nome che, guarda caso, ritorna anche nella recente opera di PTA: si chiama infatti così la sgraziata e un po’ goffa cameriera di cui si invaghisce Reynolds.

Molto brava, nel film, Vicky Krieps a dar corpo ad una, a prima vista, ragazza semplice, finita nelle mani di un uomo più anziano, più esperto e più carismatico che, non senza un certo sadismo, la plasma e la trasforma nella propria musa ispiratrice. Che è un altro aspetto che ricorda sia l’Hitchcock fuori dallo schermo, alle prese con le attrici che modellava a piacimento, sia il cinema stesso del regista inglese, La donna che visse due volte, valga come esempio. Del resto Reynolds Woodcock fa il sarto, cioè prevalentemente taglia e cuce, allo stesso modo in cui un regista di cinema assembla il proprio film. Ma il nome Alma potrebbe avere anche un altro rimando: il suo significato è anima, il che sembra quasi fuori luogo visto che il film è imbastito nel mondo della moda, ovvero quanto più lontano da ogni approfondimento psicologico ci possa essere.

E il parallelo con il cinema, tra il sarto Woodcock e il cineasta Hitchcock, ci dice che anche la settima è un arte di superficie, visto che si manifesta su uno schermo; ma allora la sua anima, la salvezza, forse non è nascosta in profondità, magari anche solo nelle pieghe o negli orli di qualche vestito come del resto nemmeno nelle trame del film. Piuttosto, è proprio nelle cuciture di un abito, dove Alma troverà uno dei messaggi che Reynolds è solito lasciare: never cursed, mai dannato, come dire che non c’è nessun segreto nascosto, nessuna maledizione che affligge l’impenitente scapolo. Una sorta di MacGuffin, per restare in tema hitchcockiano, che funziona però un po’ al contrario, ovvero non è tanto un pretesto narrativo ma piuttosto smentisce una possibile lettura in profondità, tra le pieghe del discorso di PTA. Perché il filo, se è nascosto per gli spettatori italiani in originale è comunque un filo fantasma (Phantom thread il titolo anglofono) e quindi, anche se non si vede, c’è e vincola, in una sorta di legame sadomasochistico, Reynolds e Alma. La ragazza, infatti, è solo in prima istanza succube, ma si prende il turno per ribaltare il rapporto, e quando Reynolds riesce pienamente a comprenderlo, la coppia si ricompone.
Alla fine, il raffinato esteta, l’uomo dell’eleganza e dello stile, ha trovato la sua anima.
E così il cinema di Paul Thomas Anderson. 





martedì 24 luglio 2018

ORE 15:17 - ATTACCO AL TRENO

182_ORE 15:17 - ATTACCO AL TRENO  (The 15:17 to Paris). Stati Uniti, 2018;  Regia di Clint Eastwood.

Alla fine rimaniamo col dubbio: ma in Ore 15:18 – Attacco al treno, Clint Eastwood, ci fa o ci è? Non è solo referenza per il maestro, sebbene un po’ c’è, è innegabile e comunque Clint se la merita. Quello che rimane da capire è se il regista statunitense non si sia accorto dei tanti (troppi) punti deboli del film, o li abbia lasciati sullo schermo come effetti collaterali di un’operazione già concettualmente coraggiosa quanto rischiosa. Perché l’idea di usare i tre eroici giovanotti americani, proprio loro in persona, per interpretare sé stessi nel film che porta sullo schermo lo sventato attacco terroristico sul treno diretto da Amsterdam a Parigi nel 2015, è geniale. Ma molto rischiosa, visto che i tre ragazzi non sono attori; e le loro vite, a parte il breve momento dell’attacco terroristico, per nulla interessanti. L’idea è geniale non solo per il suo essere completamente fuori dagli schemi, ma perché è congegnale allo spirito dell’ultimo cinema di Eastwood, che trova conferma nell’intrinseca natura di quell’intuizione. L’eroe americano è davvero l’uomo della strada: l’uomo qualunque che, in circostanze straordinarie, si erge a paladino della giustizia. Proprio nel suo essere un uomo comune c’è la differenza con l’eroe della tradizione europea, che invece è sempre di nobile stirpe. Ma questi sono concetti già visti guardando, decenni fa, ad esempio, James Stewart sul grande schermo; ma Stewart era un attore (e che attore) mentre i tre ragazzi del treno assolutamente no. Ma torniamo all’idea di un istant-movie: già Sully era un film che trattava un argomento fresco, uscito infatti nel 2016 raccontava del famoso ammaraggio dell’Airbus A320 avvenuto nel 2009. 
Sette anni sono un tempo breve, che infatti accorciava già il ritardo cinematografico dalla realtà rispetto al precedente capitolo di questa ipotetica trilogia eastwoodiana celebrativa dell’odierno eroe americano, quell’American Sniper, comunque sempre dal sapore tempestivamente contemporaneo. I due precedenti capitoli della trilogia, sono però film convenzionali, che utilizzano cioè gli strumenti del cinema; Ore 15:17 – Attacco al treno porta all’estremo il suo essere un film d’attualità, (gli eventi sono del 2015), soprattutto nel cogliere quella mania di condivisione da social network imperante in questi tempi.

E’ un po’ come se Clint mettesse il suo cinema a disposizione di Anthony Sadier (uno degli interpreti) per un gigantesco selfie che immortali per bene tutta quanta la vicenda. Perché Ore 15:17 – Attacco al treno, all’atto pratico, sullo schermo, non va oltre questo. Un selfie, e nemmeno tanto riuscito, ma del resto i selfie quasi lo sono per definizione. Ignoranti molto più di un autoscatto, limitati da possibilità fisiche (la lunghezza del braccio) a cui l’apposito bastone non riesce mai a porre efficacemente rimedio, hanno la superficialità dello sguardo di Narciso nello stagno, ma mai e poi mai la stessa bellezza d’immagine del personaggio mitologico.

E Eastwood che canta le lodi dell’eroe comune americano, non sembra fare cinema, ma soltanto cogliere l’attimo, immortalarlo, sovrapponendo le immagini reali della premiazione con la Legione d’onore con il girato, con il presidente francese Holland che ringrazia gli americani che ancora una volta hanno salvato l’umanità. E meno male che a Clint è rimasta un po’ di ironia, quando la guida tedesca ricorda l’importanza dei russi nella sconfitta di Hitler, che i tre invece sembrano ignorare.
Le scene dell’attacco sono molto buone, vero cinema di azione, ma nella valutazione complessiva pesano troppo le zavorre: la prima parte, l’infanzia dei ragazzi, è condita in modo pesante dalla troppo contraddittoria retorica militarista antisistema tipica di Eastwood (e di Trump), e le scene del viaggio in Europa sono di una banalità sconcertante. Certo, sono i valori dell’America (sic), che insieme a questi, cerca di convincerci Clint, veicola però anche il senso del dovere, della giustizia. Insomma , saranno anche ignoranti e superficiali nella vita di tutti i giorni, ma sono ancora loro i buoni. Un filo troppo auto-celebrativo, in ogni caso. 
E, attento Clint: Narciso, a furia di selfie autocelebrativi, nello stagno c’è finito. 







domenica 22 luglio 2018

THE CANNIBAL IN THE JUNGLE

181_THE CANNIBAL IN THE JUNGLE  Stati Uniti, 2015;  Regia di Simon George

Opportunamente prodotto da Animal Planet, The cannibal in the jungle si presenta in tutto e per tutto come un moderno documentario in stile Discovery Channel (del resto Animal Planet è un canale della Discovery inc.) Per cui è costituito da interviste con i protagonisti della vicenda, ricostruzioni filmate degli avvenimenti realizzate con professionalità, e anche immagini autentiche dell’epoca dei fatti. Oggi, questo tipo di documentario ha raggiunto un livello elevatissimo di credibilità presso il pubblico: le interviste appaiono come testimonianze dirette, e quindi attendibili, così come le immagini dei vari reperti filmati, per quanto povere, alimentano il sapore di verità del testo filmico; le ricostruzioni servono invece a rendere il tutto più fruibile e, tramite una scritta in sovraimpressione, l’esplicita ammissione di non-autenticità conferma l’onestà, e quindi la credibilità, di queste produzioni. In realtà la loro attendibilità dipende dagli autori, sebbene in quanto documentari in genere è lecito richiedere agli stessi un minimo di imparzialità di fronte agli eventi narrati. Non è però il caso di The cannibal in the jungle. Qui siamo di fronte ad un abilissima manovra di promozione, che sfrutta appunto questa aurea di credibilità delle immagini video (di antica tradizione) e di questo recente format in particolare, per ingannare lo spettatore e quindi terrorizzarlo. Perché The cannibal in the jungle altro non è che un bellissimo e spaventoso film dell’orrore. Un film che richiama, già dal genere cannibal, quelle produzioni che furoreggiarono negli anni settanta/ottanta e, volendo ben vedere, rifà il verso al più famoso di tutti, il famigerato Cannibal Holocaust (1977, di Ruggero Deodato).  
Con la differenza che l’operazione di Animal Planet monda il soggetto da ogni possibile contestazione (che erano invece il piatto forte dei cannibal-movie storici), virando il tenore della pellicola all’horror più classico. Ma, in definitiva, si tratta di un film, ne più ne meno; e se per sospendere l’incredulità degli smaliziati spettatori i produttori ricorrono a certe piccole scorrettezze, come spacciare per documentario quello che è normale finzione, poco male: è evidente che il loro intento non è divulgare qualche notizia infondata, ma creare i presupposti per far cadere nella trappola l’ignaro fruitore per poterlo poi spaventare. 
Nel dubbio, allo spettatore, basterà una piccola verifica su wikipedia per scoprire il bluff. L’importanza e la valenza di The cannibal in the jungle è quindi doppia: da un lato è un ottimo film dell’orrore, davvero terrorizzante; tra l’altro la sua funzionalità è solo incrementata dall’inganno teso agli spettatori, ma non dipende da esso. La costruzione del racconto è notevole e, grazie ad una sovrapposizione multipla delle trame (il racconto del sopravvissuto, la ricostruzione degli avvenimenti, le immagini della vecchia cinepresa, la nuova spedizione negli stessi luoghi) permette di inanellare colpi di scena uno dopo l’altro. Il film è indiscutibilmente efficace e ben congegnato e l’arrivo degli hobbit (nel film i cannibali dell’isola di Flores, Indonesia) è un momento di puro terrore. Ma la bilancia ha anche un altro piatto, anch’esso positivo, almeno se lo intendiamo come utile monito. Al netto della sua qualità come opera di mera finzione, The cannibal in the jungle ci lascia con un’inquietudine meno eclatante ma più corrosiva della paura per i feroci ominidi dell’isola di Flores. Attenzione a fidarsi dei documentari, per quanto credibili possano apparire, sono sempre una visione parziale e soggettiva. E, specie di questi tempi, questo è un insegnamento da estendere a qualsiasi informazione ricevuta, quale che sia la modalità o la fonte.




venerdì 20 luglio 2018

LA GRANDE BELLEZZA

180_LA GRANDE BELLEZZA  Italia, 2013;  Regia di Paolo Sorrentino.

Già il titolo ci dice dell’implicita presunzione del film di Sorrentino: e, in effetti, la messa in scena e la capacità di ripresa del regista napoletano rispettano in pieno le pretese del titolo. Così come è grande la bellezza autentica dello sfondo metropolitano della Roma antica, messa in risalto, per contrasto, dal testo filmico in primo piano. E qui ci si ferma con gli aspetti piacevoli, gradevoli. In effetti non è certamente piacevole la trama: ma è evidente che non è la narrazione che interessa Sorrentino. E non sono piacevoli i personaggi e il loro mondo, un autentico circo, (con tanto di nani e animali esotici come giraffe e fenicotteri), con i loro party che sono un’ode al cattivo gusto. Ne sono, o possono essere, in qualche modo piacevoli, o almeno interessanti, i protagonisti di tale spettacolo. Nemmeno Jep Gabardella (Tony Servillo), intendiamoci: alla fin fine è solo un personaggio che detiene il primato, ma di un mondo che lui stesso, all’occorrenza, denuncia in tutto il suo squallore. Naturalmente può essere considerata positiva la desolante rappresentazione della società romana, (che poco o tanto riflette quella italica); il fatto è che il film di Sorrentino si pone nei confronti di essa, come il suo protagonista. Ha valore, (e se lo ha, che valore può essere?), una critica che usa gli stessi stilemi della società che lei stessa mette alla berlina? La grande bellezza è, probabilmente “anche”, ma comunque “è” quelle scene, ripetute più volte, della movida romana: sono girate magistralmente, inquadrature aberranti, primissimi piani su corpi ostentati ma decadenti, in contrasto con la perfezione dei monumenti e delle statue della Roma antica. Così come, per fare un altro esempio, La grande bellezza è nei selfie cinematografici con Fanny Ardant e Antonello Venditti. 

Verrebbe da chiedere, a Sorrentino, se lui l'ha capito, il senso della vibrazione; perchè La grande bellezza ci ricorda molto 'l'artista' che, nel film, si vede sbattere la testa contro il muro, senza saper spiegare il significato artistico del suo gesto, il senso della “vibrazione”, appunto. Certo Sorrentino è senz’altro più abile, più furbo e, soprattutto, più scaltro del suo personaggio e, nel caso, se il paragone fosse d’avvero calzante, l’attesa per l’impatto sul muro sarebbe dilatata fino a venir meno totalmente il momento dell’impatto stesso.
Un po’ come il senso del suo cinema.



mercoledì 18 luglio 2018

LA FEBBRE DELL'ORO

179_LA FEBBRE DELL'ORO  (The Gold Rush). Stati Uniti, 1925;  Regia di Charlie Chaplin.

La casa in legno assurdamente in bilico sul baratro è certamente l’immagine più famosa di The gold rush, film del 1925 di Charlie Chaplin, una di quelle più note dell’intera filmografia del regista e, perché no, dell’intera storia del cinema. Ed è una fama meritata perché in quella singola immagine c’è già molto dell’autore inglese, il che vuol dire avere un peso notevole nell’ambito globale del cinema stesso, visto l’importanza del cineasta. Una casa di legno, una specie di baracca dall’aspetto semplice come la disegnerebbe un bambino, si trova a sporgere per metà sul ciglio di un precipizio innevato, con la neve a rendere scivolosa e quindi ancora più pericolosa la situazione. Pur se sospesa per metà nel vuoto la struttura della casa non cede, non si sgretola, ma rimane intatta, come fosse una scatola di scarpe, e anche questo concetto riporta alla mente il modo infantile di vedere le cose. Peraltro, l’immagine è e rimane fortemente drammatica, dentro ci sono Charlot e Big Jim, che potrebbero precipitare nell’abisso; eppure la scena è umoristica, perché è mostrata in modo infantile. Che poi, all’interno, per cercare di salvarsi i due si issino uno sulle spalle dell’altro, e che sia Big Jim a salire sul povero Charlot, è un ulteriore elemento comico nel dramma: l’egoismo e la prepotenza dell’uomo, non sarebbero ridicoli al netto della tragedia della vita. Lo sono.
Il linguaggio usato è lo stesso che in seguito verrà impiegato in modo massiccio dai cartoni animati e dai film di animazione; ma la caratteristica di divertire con storie dal tono leggero, pur veicolando immagini e situazioni drammatiche, sarà l’essenza del cinema nei decenni a venire nella sua forma più diffusa: ovvero quella di uno spettacolo intelligente, divertente e stimolante. La capacità di tenere insieme queste due anime, quella umoristica e quella drammatica, è la cifra (o una delle) stilistica di Chaplin; e di questa sublime miscela è intriso tutto La febbre dell’oro, con le due tracce che si intrecciano sulle altre due coordinate del racconto, quella avventurosa (la corsa all’oro) e quella sentimentale (la storia tra Charlot e Giorgia).

La questione sentimentale è ambigua: assolve certamente il compito di grammatica (almeno al tempo) del lieto fine, e quindi, in tal senso, Chaplin ha un po’ le mani legate, ma pone alcuni spunti interrogativi. Giorgia non si reca alla festa di capodanno, lasciando Charlot in una consapevole delusione; forse che i poveri sanno che non avranno fortuna nemmeno in amore? Ma poi, nel finale, quando ritrova l’omino, la passione si (ri)accende, ma è importante notare come, attraverso una gag umoristica, si evidenzi come ella non sappia che il vagabondo ha fatto fortuna. E’ amore vero, quello della donna, e non di interesse, quindi; ma rimane anche il dato inconfutabile (o è una coincidenza?) che è soltanto avendo il potere economico che si possa conquistare l’amore. Anche il tema avventuroso veicola, in ogni caso, uno dei punti nevralgici del cinema di Chaplin, ovvero l’aspetto sociale, soprattutto in chiave economica; non è certo un caso che Charlot, come personaggio, sia un vagabondo povero in canna. E in questo episodio si dedica esplicitamente al tentativo più rapido possibile (quella all’oro era appunto una corsa) di emanciparsi economicamente.

Un’altra famosissima scena di questo lungometraggio, quella in cui appronta una cena con uno scarpone, mette in risalto proprio la precarietà finanziaria di Charlot. E il tono umoristico non smorza l’aspetto di critica sociale, anzi lo rinforza e nello stesso tempo lo ribalta: se nelle comiche del tempo era anche prevedibile ridere alle spalle di una disgrazia occorsa a qualche riccone (una sorta di vendetta sociale dello spettatore nei confronti delle classi agiate), qui ci ritroviamo a sorridere guardando un disperato che si mangia una scarpa. Ma la pantomima inscenata da Chaplin non ce lo mostra come se fosse un atto disgustoso; al contrario, la scena ci presenta il nostro alle prese con un piatto apparentemente succulento.
C’è un che di politicamente scorretto (ridere di un poveraccio), ma innegabilmente spassoso.
E più moderno di quanto si possa credere.

lunedì 16 luglio 2018

PERFETTI SCONOSCIUTI

178_PERFETTI SCONOSCIUTI  Italia 2016;  Regia di Paolo Genovese.

Chissà se Perfetti sconosciuti va considerato come un piccolo passo in avanti del nostro movimento (se non addirittura l’esponente di spicco di un ipotetico nuovo cinema italiano), o l’ennesimo mezzo passo falso?
Il film è godibile e ha decisamente un ritmo serrato, frutto di un montaggio curato ed efficace che conferisce una confezione dal gusto internazionale; l’intreccio è interessante, il cast di livello (Kasia Smutniak, Marco Giallini, Valerio Mastrandrea) e i dialoghi ficcanti (seppur non si è voluto rinunciare ad una spiccata pronuncia da borgata).
La carta a sorpresa dell’opera è l’idea dell’Eva protagonista del film: ad una cena tra sette amici (tra cui tre coppie) tenendo fede al proprio nome, la nostra induce in tentazione il gruppo, per scoprirne il proprio lato oscuro. Lo stratagemma, nella pratica, si produce nel depositare gli smartphone di ognuno sul tavolo, e di condividerne via i via i contenuti in  arrivo (telefonate, sms, mail, ecc) con i commensali.
Idea carina ed interessante, sebbene sembri un po’ la versione aggiornata dello spetteguless di Striscia la Notizia, o della sbirciata di Alvaro Vitali nel buco della serratura. Ma vabbe’, siamo pur sempre in Italia, e questi sembrano essere i temi interessanti per gli abitanti dello stivale o comunque i comuni punti di riferimento.
Contemporaneamente alla cena, c’è un’eclissi totale di luna: a simboleggiare, forse, l’oscurità che piomberà sulla vita dei sette amici. C’è da dire che, proprio come l’eclisse, l’oscurità sarà solo temporanea, e sarà risolta, narrativamente, dagli autori con un colpo di sceneggiatura piuttosto banalotto. Ma quello sarebbe anche il meno.



Perché ciò che rimane, alla fine del film, è l’idea che è meglio una menzogna ad un’amara verità. Per cui, meglio raccontarci che Perfetti sconosciuti è, oltre che innegabilmente un film ben fatto e ben confezionato, un ottimo lavoro, che dimostra lo stato di salute del nostro cinema.
Una volta si diceva che chi non coglieva il punto della situazione, guardava il dito e non la luna. Oggi invece ci facciamo un selfie di gruppo sotto l’eclisse, ma probabilmente il significato cambia poco. Ogni scusa è buona, ogni pretesto è valido, pur di avere un alibi.
Già, sarà davvero colpa degli smartphone se non siamo in grado di essere onesti e leali nemmeno con il nostro prossimo più prossimo.
Tant’è: il nuovo cinema italiano non poteva essere più italiano di così.


Kasia Smutniak





sabato 14 luglio 2018

TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI

177_TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI  (Three bilboards outside Ebbing, Missouri). Stati Uniti, Regno Unito 2017;  Regia di Martin McDonagh.

Sarà la presenza di Frances McDormand, il titolo del film, l’ambientazione nella provincia rurale americana, i dialoghi coloriti e assai realistici o forse che sin dal promo si capisca che la storia ha una trama forte, solida; fatto sta che l’idea che ci si fa preventivamente è che si tratti di un’opera alla fratelli Coen, un lungometraggio che prenda come riferimento il cinema stesso più che la realtà. Ma, durante la visione, ci si accorge che il procedimento di Martin McDonagh, il regista è, semmai, mettere in scena i luoghi comuni del cinema per smentirli, in un’operazione di continua sottrazione che toglie ripetutamente i punti di riferimento narrativi che sembrano supportare la storia. La madre disperata per la morte della figlia (Mildred Hayes, una granitica McDormand) non ha tutte le ragioni; lo sceriffo Bill Willoughby (uno straordinario Woody Harrelson) non è del tutto stronzo, anzi; l’agente Dixon invece si (Sam Rocwell) ma è il vero protagonista, meglio, l’eroe del film. E le situazioni cambiano, continuamente, con la trama che offre sempre nuove svolte che mutano la prospettiva delle cose anche a ritroso, coi personaggi che, faticosamente, fanno i loro sudatissimi progressi, insieme a qualche regresso. E’ un film violento, Tre manifesti a Ebbing, Missouri, già nel linguaggio fortemente scurrile e offensivo; ma poi la violenza si manifesta in forma concreta e diffusa, un sistema utilizzato già dalle forze dell’ordine. L’odio, il rancore, la rabbia: sono questi i sentimenti di cui è intrisa la tipica cittadina del midwest dove è ambientata la vicenda. E devono trovare sfogo: Mildred non riesce a sopportare l’idea che la fine della figlia, violentata e uccisa, non trovi giustizia. Non è dato a sapere se davvero la polizia sia realmente così inoperosa; ma lei ha comunque bisogno di qualcuno contro cui sfogare la propria frustrazione. In questo senso il film ha una eccellente valenza critica contemporanea: mai, forse, il sentimento dominante nel mondo è stato una rabbia così forte. Rancore e odio per le ingiustizie subite, vere o presunte che siano: ma percepite come assolutamente vere, al di là di qualunque valutazione un minimo ponderata.


Qualcosa dev’essere andato storto se un sentimento tanto forte quanto sbagliato è così simultaneamente diffuso in tutto il mondo: la rabbia della signora Hayes è comprensibilissima anche in Italia e, volendo ben vedere, una sorta di conferma in tal senso è il fatto che un ritratto così realistico della provincia americana (almeno per come abbiamo imparato a conoscerla dai notiziari che sembrano bollettini di guerra) ce lo dia un autore britannico come McDonagh.
Il quale è davvero bravo e, con estrema abilità, coniuga l’onestà intellettuale al suo stile narrativo che ci toglie costantemente punti di riferimento: così, quando si pensa che la Hayes possa essere una nuova paladina dei diritti civili, ecco che ce ne mostra il lato oscuro. E, sebbene manchi un esplicito giudizio morale in tal senso, il quadro generale (la mancanza di rispetto reciproco in famiglia) e il passaggio narrativo particolare (avere spedito la figlia a piedi invece che concederle l’auto) inchiodano Mildred spalle al muro come corresponsabile della tragedia. E, a quel punto, la donna dà il peggio di sé, coinvolta nella spirale autodistruttiva che contagia di questi tempi tutto il pianeta.
Ma, fedele all’impostazione generale dell’opera, un quadro d’insieme tanto caustico deve avere almeno una scintilla di umanità; e McDonagh ce ne regala almeno un paio.



E, sempre seguendo la contorta logica del film, chi poteva darci la prima e indubbiamente più significativa? C’è un attore, nel film, che nella realtà è figlio di un noto assassino, ed è salito alla ribalta nell’interpretazione del pluriomicida protagonista di Assassini nati di Oliver Stone, e che in Tre manifesti a Ebbing, Missouri interpreta uno sceriffo che sarà anche benvoluto ma tollera tra i suoi agenti il diffuso razzismo: è naturalmente Bill Willoughby interpretato da Harrelson. Sempre con la sua scrittura spiazzante, il regista, che è anche sceneggiatore, per imprimere la svolta positiva sceglie quindi un cattivo predestinato e, nonostante lo sceriffo Bill si prodighi in tanti modi costruttivi (la comprensività nei confronti della Hayes, l’attenzione per le due piccole figlie, l’amore per la moglie) questa svolta è iscritta in un atto tranciante come il suicidio: che, al di la dei giudizi morali o etici, non contemplati nell’opera, è comunque un omicidio. Il personaggio chiude quindi fedele a se stesso con un  uccisione, ma innesca la spirale positiva nella storia: in sostanza, è solo eliminando la nostra parte cattiva, uccidendo il killer che c’è in noi, che possiamo uscire dall’impasse di odio generalizzato in ogni direzione nel quale ci siamo immersi.



La seconda nota illuminata ce la regala la fidanzata diciannovenne del marito di Mildred: la violenza genera violenza, citazione presa da un libro, anzi, in onestà dal risvolto di un libro; come dire che la ragazza, descritta nel film come una tipa un po’ insipida, il libro non l’abbia neanche letto. Il che, insieme agli scherzi amichevolmente, anzi amorevolmente, volgari tra lo sceriffo e la moglie sulle citazioni letterarie, serve ad ammiccare un po’ allo spettatore: non c’è alcuna pretesa culturale, sembra quindi dirci McDonagh. E quando te lo dicono, sai che ti stanno fregando, a maggior ragione in un film spiazzante e fuorviante come Tre manifesti a Ebbing, Missouri.
Perché invece è verissimo che la violenza genera violenza, ed è un peccato che nonostante se ne sia resa conto, la Hayes ci ricaschi, quando Dixon, dopo averle dato una piccola illusione, le comunica che il ricercato per lo stupro e l’uccisione della figlia non è ancora stato trovato e che l’uomo individuato ha stuprato e ucciso, ma altrove.


La donna è in macchina, accanto al suo ex acerrimo nemico Dixon, ora suo complice nella missione punitiva in Idaho, dove vive il criminale sbagliato a cui farla comunque pagare, anche per lo stupro e l'uccisione della figlia; ma alla Hayes viene finalmente un dubbio, quando chiede all’uomo al suo fianco se davvero vuole ucciderlo, quel criminale. ‘Non lo so’ risponde Dixon, che rigira la domanda alla compagna di viaggio. Meno male che non lo sa neanche Mildred, perché ci lascia qualche speranza che la spirale di violenza travestita da giustizia fai da te sia interrotta.
Segue un periodo di silenzio, la strana coppia in auto verso l’Idaho; adesso è un finale perfetto, e McDonagh lo sa.
Ma ci lascia un attimo col fiato sospeso, poi, finalmente, senza bisogno di altro, arriva la fine del film; è andata.
Rimaniamo quindi col dubbio; ma, di questi tempi, è già qualcosa.