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venerdì 30 marzo 2018

23 PASSI DAL DELITTO

123_23 PASSI DAL DELITTO (23 paces to Baker Street). Stati Uniti, 1956;  Regia di Henry Hathaway.

23 passi dal delitto è un giallo molto interessante e ben costruito, diretto dal regista Henry Hathaway che conferma pienamente la solida mano narrativa già mostrata nei molti film al suo attivo. Il riferimento del titolo è alla Baker Street londinese (teatro delle gesta di Sherlock Holmes), distante solo 23 passi dall’appartamento dove è alloggiato Phillip Hannon (Val Johnson), un commediografo americano divenuto cieco e ora in tournée con la sua pièce teatrale di scena appunto nella capitale inglese. Nel suo prolungato soggiorno londinese è forse sottointeso anche un tentativo di sfuggire alla fidanzata Jean (nientemeno che Vera Miles), con la quale comunque lo scrittore chiarisce, una volta che questa lo raggiunge in Inghilterra, di voler interrompere il rapporto. E, a questo punto i debiti, seppure ben camuffati, nei confronti del celebre, e di poco precedente, capolavoro hitchcockiano La finestra sul cortile cominciano a divenire troppi per passare inosservati. Il protagonista con handicap (là su una sedia a rotelle, qua non vedente), la sua professione artistica (uno fotografo e l’altro scrittore), il suo utilizzo di uno strumento tecnico (la macchina fotografica e il registratore), e il fatto che proprio a causa della menomazione intuisca qualcosa di losco (Jimmy Steward costretto alla sedia a godersi il panorama sul cortile lo intravvede nelle finestre di fronte mentre il personaggio di Val Johnson sente un dialogo poco chiaro in virtù di un udito più allenato per sopperire alla mancanza della vista); ah già, e per chiudere, per entrambi gli uomini una ragazza fin troppo oppressiva (Grace Kelly in Rear window e la Miles in questo caso).

Detto questo, va chiarito che la cosa non disturba affatto anzi, è un’ulteriore traccia narrativa che si sovrappone, senza infastidirle, a quelle che tessono l’intrigo giallo che si snoda durante il lungometraggio. Anche in questo caso, come in La finestra sul cortile, il protagonista avvisa per tempo la polizia, che prende però sottogamba l’avvertimento; e così il nostro Hannon procederà in proprio le indagini. Hathaway conosce il mestiere e dirige le sequenze di suspense con autorevolezza e il racconto, se pure ha una trama un po’ tortuosa, si fa via via sempre più avvincente, fino alle scena finale nell’appartamento al buio. Bene gli interpreti: forse eccessivamente melodrammatico Val Johnson, mentre Vera Miles si mantiene fin troppo compunta. 

Da sottolineare la presenza della magnetica Patricia Laffan, qui nelle vesti sia dell’altera miss MacDonald, sia dell’oscuro rivale nello scontro fisico con il protagonista che avviene nel finale. Per la Laffan, una ragazza dalla statuaria figura e dalla bellezza non certo canonica (anzi un po’ sinistra), questo importante ruolo arriva dopo l’indimenticabile interpretazione di Poppea in Quo Vadis del 1951 (come scordarla dopo averla vista sdraiata con due ghepardi al guinzaglio?!) e della mitica, seppur un po’ sopra le righe, Nyah, la regina dei marziani che, avvolta nel suo attillato abito in PVC, arriva sulla terra nel pittoresco Devil Girl from Mars del 1954. 




Vera Miles



Patricia Laffan




mercoledì 28 marzo 2018

LA FRUSTATA

122_LA FRUSTATA (Backlash). Stati Uniti, 1956;  Regia di John Sturges.

Innanzitutto va chiarito l’equivoco del titolo: La frustata, recita la distribuzione italiana, ma anche se la protagonista femminile si aggira con una frusta in cuoio nero, di frustate non se ne vedono, a meno che esistano versioni del film in cui sia mancante proprio questa scena. Verificando la durata della pellicola, non si direbbe, e quindi prendiamo per buono che il titolo italiano è una libera interpretazione di quello originale, Backlash. Questi è un termine che dovrebbe intendersi come forte sentimento di reazione, contraccolpo, rinculo e, a questo punto, forse anche colpo di frusta come in genere si utilizza negli incidenti. Quindi, in un certo senso, il titolo scelto per la versione italiana è pertinente, seppur in modo non evidentissimo. Venendo all’opera da un punto di vista più pratico, va subito detto che il regista John Sturges conferma il talento mostrato finora nei suoi precedenti film (Giorno maledetto valga come uno dei migliori esempi), dirigendo un western atipico, che ha per protagonista un Richard Widmark in gran spolvero. Il suo personaggio, Jim Slater, non è il campione tutto d’un pezzo di tanti altri film western dell'epoca, ma è più contradditorio, più sofferto, e Widmark appare perfetto nel rendere le difficoltà che comporta l’essere anche semplicemente un uomo giusto e corretto. Al suo fianco si schiera, ma in modo costantemente ambiguo, la protagonista femminile, Karyl Orton, quella che gira con la frusta in cuoio nero, alla quale presta le grazie una deliziosa Donna Reed. 

La ragazza ha un comportamento più opportunistico rispetto a Jim e, soprattutto nel finale, prova a condizionarlo in tal senso; è in quel frangente che l’uomo dimostra la tempra dell’eroe restando fedele ai suoi ideali. E’ un passaggio narrativo non da poco: c’è da salvare, a rischio della proprio vita, un gruppo di uomini che sono sotto la minaccia di un agguato, e Karyl cerca di convincere Jim a non curarsene. Meno male che l’uomo testimonia coi fatti che è possibile dare più importanza alla propria coscienza piuttosto che ad una donna bella, anzi, diciamo pure molto bella. Per altro, con la donna il rapporto è controverso e i due, oltre a qualche prevedibile effusione, si scambiano anche sonori schiaffoni: fa specie vedere Widmark andare quasi al tappeto per il colpo della Reed, ma lo fa anche vedere la violenza con cui l’uomo carica la sberla quando è il suo turno.

La frustata del titolo è invece morale ed è quella che subisce Slater quando scopre la vera natura del patrigno. Tutta la vicenda narrata è la ricerca dell’unico sopravvissuto di un gruppo di sei uomini, che avevano un tesoro e che furono massacrati dagli indiani Apaches. In realtà i morti furono cinque, mentre il sesto aveva infimamente osservato l’eccidio di nascosto, per potersi tenere tutto il bottino per sé; Slater crede che il patrigno sia uno dei caduti, e reclama vendetta. Sempre più prosaica Karyl che, pur ritenendo il marito uno dei cinque, semplicemente intende riscuotere la sua quota di denaro. Slater avrà l’amara sorpresa di scoprire che Bonniver (John  McIntire), il sopravvissuto, è il suo patrigno: ovvero l’infame che aveva lasciato massacrare i suoi compagni per potersi appropriare dell’oro senza dividerlo con nessuno. Ovviamente si arriverà alla resa dei conti.
Un western molto bello con un protagonista più problematico del solito, ma che riesce ugualmente a reggerne il ruolo; insidiosa e ambigua la figura femminile. In sostanza, il film è un western del periodo classico, pieni anni 50, ma Sturges sembra già riflettere su quanto sia difficile rimanere moralmente integri di fronte alle avversità della vita in un paese tanto selvaggio come l'America. E, stando a questo La frustata, dal versante femminile, se può arrivare una dote di bellezza e senso pratico, in questo senso non c'è da aspettarsi un grande aiuto. 




Donna Reed




lunedì 26 marzo 2018

IL BRUTO E LA BELLA

121_IL BRUTO E LA BELLA (The Bad and the Beautiful). Stati Uniti, 1952;  Regia di Vincente Minnelli.

Il bruto e la bella è un titolo che richiama fortemente quello della famosa fiaba, La bella e la bestia, sebbene in questo caso sia invertito l’ordine dei nomi; forse perché, se dobbiamo tenere presente qualcosa di quel vecchio racconto, si sappia che non è il mondo della cultura europea (di cui la fiaba era espressione) ad essere sotto l’esame di Vincente Minnelli, regista del lungometraggio con protagonisti Kirk Douglas, Lana Turner, Gloria Grahame, Dick Powell e Walter Pidgeon. Un cast così importante è giustificato dal tema dell’opera: Minnelli riflette sulla natura del cinema, con un film smaccatamente metalinguistico. La pellicola è divisa in tre parti, che vedono i protagonisti, un regista (Barry Sullivan), una diva (la Tuner) e uno scrittore (Powell), di volta in volta relazionarsi e, in un certo senso, essere sfruttati da un produttore (Douglas), che farà fortuna anche grazie al loro talento. Sebbene siano evidenziati i meriti di intuito, perspicacia e lungimiranza, che sono determinanti nella carriera di chi deve investire al meglio i capitali economici in prodotti che siano non solo artisticamente belli ma anche remunerativi, è evidente una critica alla rapacità dei produttori hollywoodiani, che forse anche grazie a questa pellicola, godranno nel tempo di una pessima fama. Minnelli sottolinea inoltre l’incapacità artistica di Shields, il produttore interpretato da Douglas, nel momento in cui licenzia il grande regista Von Ellsten e si improvvisa dietro la macchina da presa, con pessimi risultati, economicamente addirittura catastrofici.

Il film è molto ben costruito, che il regista di origine italiana è capace di raccontare ma, sebbene i tre atti della pellicola siano narrativamente collegati in senso cronologico, arrivati al terzo paragrafo, quello dello scrittore Lee Barlow (Dick Powell), ci si scoraggia un poco nel vedere ripartire da capo una nuova vicenda prevedibilmente simile alle due precedenti. Ma tant’è, l’intento di Minnelli è di descrivere i tre importanti aspetti della macchina cinema, e i suoi quatto cardini (produttore, regista, attore, sceneggiatore) e quindi anche l’ultimo capitolo è inevitabile. Forse, consapevole del rischio di appesantire la storia con troppi passaggi simili (il produttore è prima amico, poi sfruttatore del collaboratore di turno), il regista introduce una variabile in questo terzo tempo della pellicola: e che variabile, Gloria Grahame! 

Pur se limitata dal dover interpretare la parte di quella che, a prima vista, sembra la classica oca, l’attrice trova il modo di lasciare sulla pellicola il fascino che la contraddistingue, rivaleggiando e mettendo in ombra una diva del calibro di Lana Turner. Senza dimenticare l'Oscar vinto come miglior attrice non protagonista. Nel film, i tre collaboratori (regista, diva e scrittore) vengono convocati da Harry Pebbel (Walter Pidgeon), co-produttore di Shields, perché quest’ultimo ha un nuovo entusiasmante progetto per le mani, ma, dopo la bancarotta in seguito al suo fiasco, necessita aiuto. I tre hanno da tempo abbandonato Shields, tutti traditi dall’arrivismo dell’uomo e nessuno di loro accetta di tornare a lavorarci insieme. 

Neppure quando Pebbel ricorda loro di quanto Shields sia stato, in sostanza, almeno inizialmente l’artefice dei loro successi, essi cambiano idea: troppo gravi le scorrettezze del produttore, per poter essere perdonate. Il lieto fine, inaspettato, avviene esclusivamente dopo l’ascolto del progetto di Shields di soppiatto, e senza quindi il contatto umano: i tre stanno uscendo dall’ufficio di Pebbel, dopo il loro categorico rifiuto, quando non resistono dall’alzare una cornetta di un apparecchio telefonico secondario per ascoltare Shields raccontare a Pebbel le caratteristiche del nuovo film a cui vorrebbe lavorare. E proprio la genialità di quanto ascoltano, sembra farli cambiare idea.
Insomma, l’importanza del cinema, secondo Minnelli, non è nelle caratteristiche umane di chi ci lavora, ma in quelle del cinema stesso, in senso assoluto.
E, dunque, lunga vita al cinema!

Lana Turner









Gloria Grahame











sabato 24 marzo 2018

EASY RIDER - LIBERTA' E PAURA

120_EASY RIDER - LIBERTA' E PAURA (Easy Rider). Stati Uniti, 1969;  Regia di Dennis Hopper.

Film culto per eccellenza della cultura hippy, Easy Rider è un'opera che colse perfettamente lo spirito di quel tempo e di quella generazione che andavano in controtendenza rispetto agli ideali borghesi della cultura americana (e occidentale in generale). Dal punto di vista cinematografico questo aspetto è sancito in modo emblematico dal viaggio che i due protagonisti compiono: Wyatt (Peter Fonda) e Billy (Dennis Hopper, anche regista della pellicola), vanno infatti da Los Angeles alla Louisiana, ovvero compiono il percorso inverso di quello che, ai tempi della conquista del west, sancì l’ideologia del sogno americano. Sebbene la contestazione sia, quindi, almeno a livello simbolico, radicale, non c’è però traccia di violenza da parte dei due giovani, che rappresentano in modo ideale due tipici figli dei fiori. Hopper è però onesto nella sua rappresentazione e non manca di mostrare come, nella storia raccontata, la scelta di vita sconclusionata dei due ragazzi si fondi su una premessa equivoca e discutibile; che poi era la caratteristica, grosso modo, del fenomeno culturale stesso. Ovvero, nello specifico del film c’è un guadagno illecito e moralmente criticabile come il commercio di droga, a dare il alla vicenda. Infatti, se è vero che Wyatt e Billy fumano tranquillamente marijuana (e pare fosse autentica quella usata dai due attori sul set), non ricorrono all’uso di droghe pesanti: è però con la vendita di cocaina che riescono a racimolare i soldi per comprarsi le motociclette (due appariscenti chopper) e ad intraprendere il proprio viaggio.
C’è quindi all’interno stesso di questo esplicito manifesto che è appunto Easy Rider, una onesta ammissione dei limiti e dell’ipocrisia di fondo che lo stesso movimento aveva: d’accordo sull’insofferenza per le convenzioni borghesi, ma il tema della libertà era vissuto dalla corrente rivoluzionaria sessantottina in modo sostanzialmente un po’ troppo di comodo, come del resto viene mostrato dal film. Ad onor del vero, il fatto che il regista insista su un montaggio schizzato e indugi poi nel farci vivere un trip da parte dei nostri baldi giovanotti, evidenzia come, per poter apprezzare pienamente la controcultura del periodo, sia necessario perlomeno l’aiuto di quei prodotti della cannabis che erano uno dei fondamenti di quello stesso movimento. Che, in fin della fiera è anche il limite di Easy Rider: divertente, godibile, con gran belle canzoni (la più famosa è naturalmente Born to be wild degli Steppenwolf) sicuramente rappresentativo di un certo mondo, ma leggero come un boccata di fumo.
D’hashish, naturalmente.








Karen Black