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giovedì 31 agosto 2023

UNA LACRIMA SUL VISO

1338_UNA LACRIMA SUL VISO . Italia, 1964; Regia di Ettore Maria Fizzarotti.

Sull’onda del successo della canzone Una lacrima sul viso in quel del Festival di Sanremo 1964 – dove Bobby Solo fu escluso dalla finale ma vide riconosciuta in seguito una sorta di vittoria morale – la Titanus affida a Ettore Maria Fizzarotti un film da impostare sul bellissimo brano in questione. Le considerazioni che devono aver fatto gli autori, Giovanni Grimaldi e Bruno Corbucci, soggetto e sceneggiatura, oltre al regista, devono aver tenuto in conto che quella canzone era – ed è – un vero pezzo da novanta nel panorama musicale italiano e non, e quindi non occorresse insaporire troppo la ricetta. Del resto, i musicarelli, il genere che stava prendendo piede in Italia al tempo, erano un mero e dichiarato pretesto per ascoltare e vedere quei cantanti che erano sulla cresta dell’onda in quel frangente. Bobby Solo, chiamato per la prima volta sul grande schermo, si limita di fatto ad interpretare quella che, in fondo, è l’idea che cerca di veicolare come cantante: il suo nome d’arte può farlo passare per italoamericano così come il look, palesemente ispirato a Elvis Presley. E nel film Bobby Solo è infatti Bobby Tonner, un cantante pop rock americano di origini italiane, in visita a Napoli; qui incontra l’amico di suo padre, il professore di Conservatorio Todini (Nino Taranto) che, guarda caso, non sopporta gli urlatori. Questo rimando si riallaccia alla polemica tra melodici, i cantanti tradizionali, e urlatori, alfieri del nuovo corso musicale che, all’epoca, infiammava la Penisola ed era stato al centro dei precedenti musicarelli, I ragazzi del Juke- Box (1959) e Urlatori alla sbarra (1960) di Lucio Fulci. 

Nella sua interpretazione di questo nuovo e curioso filone del genere musicale, Fizzarotti spingerà assai più di Fulci sul pedale del sentimentalismo, e troverà in Laura Efrikian il punto di riferimento. La Efrikian, bella a sufficienza ma anche esente da malizia o derive eccessivamente provocanti, era l’ideale per evitare di far sfociare le romanticissime storie imbastite da Fizzarotti e company in vicende in qualche modo piccanti. Evidentemente i produttori ritenevano più remunerativo al botteghino un’opera dal profilo discreto anziché qualcosa non solo scandaloso ma perfino pruriginoso. Una lacrima sul viso è in fondo tutto qui: Bobby Solo sembra davvero un turista, non solo a spasso per Napoli e dintorni ma anche sul grande schermo. Laura Efrikian tiene bene il centro della scena con il suo discreto ma efficace charme, mentre Nino Taranto guida con ardore la sparuta pattuglia di caratteristi del film che sorregge l’esile commedia che fa da sfondo alla storia sentimentale. Un filo di pepe ce lo mette Lena Von Martens, bionda e sensuale amica di Laura che prova a soffiarle il fidanzato facendo affidamento sulla propria avvenenza. Ma è una variazione della trama imbastita unicamente per mettere in scena la canzone che dà il titolo al film, vero punto di forza dell’operazione. Talmente bella da riuscire a farla funzionare.  



 Laura Efrikian



Lena von Martens 



Galleria di manifesti 





martedì 29 agosto 2023

TUTTO TOTO' - TOTO' CIAK

1337_TUTTO TOTO' - TOTO' CIAK . Italia, 1967; Regia di Daniele D'Anza.

Atipico episodio della serie Tutto Totò, il sesto appuntamento intitolato Totò Ciak! pare fece il boom di ascolti con 13 milioni di spettatori; in compenso oggi è in genere stroncato dalle recensioni che si possono trovare in rete. In effetti l’operazione è certamente curiosa e sembra ottimizzare lo scarso apporto che il Principe della Risata, ormai allo stremo delle forze, poteva offrire; è giusto riconoscere che il comico napoletano, per quanto cerchi di onorare lo spettacolo, non ha la sua verve migliore e del resto il triste giorno della sua dipartita si avvicinava sempre di più. Il film è impostato in evidente tono metalinguistico con Margherita Guzzinati che conduce una sorta di puntata speciale dedicata al cinema di casa nostra. I generi trattati sono tre: i film di spionaggio – sul modello di quelli di James Bond, l’agente segreto 007 – i western all’italiana e i musicarelli – i musical del Belpaese all’epoca. Se per i film sulle spie e per i western sono ricostruite due vere e proprie parodie, il musicarello è sostanzialmente il genere complessivo dell’opera, visto che le canzoni costellano tutta la lunghezza dello spettacolo. Ma andiamo con ordine: dopo l’introduzione della Guzzinati, ci troviamo in un set di un tipico film di James Bond, con il lussuoso albergo, la piscina e tante ragazze in costume. Al di là delle gag non certo memorabili, sorprendono positivamente le canzoni, a partire da Una porta chiusa cantata dai Royals con le loro chitarre ma bene anche Donatella Moretti con Era più di un anno e soprattutto Michele con la sua bellissima E’ stato facile. Archiviata la questione spionistica, c’è l’intermezzo musicale di Gianni Morandi con la sua Povera Piccola anche questo di notevole livello. La seconda parte è una parodia dei western di Ringo, qui interpretato da Gordon Mitchell, ed è ben introdotta dal brano Angel Face di Maurizio Graf. Totò, per quanto possa essere buffo nei panni del pistolero, sembra ancora più provato, rispetto alle scene in cui faceva il verso a 007. Ancora una volta sono le esibizioni canore a salvare la baracca, Anna Identici con Una lettera al giorno e nientemeno che Bobby Solo con Per far piangere un uomo. Difficile obiettare sulle critiche di un’evidente improvvisazione che vengono mosse a questo film. Eppure la scelta delle canzoni che irrompano nello scorrere della trama senza troppe pretese di avere particolari connessioni con essa – come avveniva in molti musicarelli cinematografici – non è necessariamente da scartare a priori e, in questo caso, risulta particolarmente funzionale anche per via della clamorosa resa sonora dei brani. Oltretutto, le canzoni sono poco conosciute ma niente affatto male. Insomma, se non uno degli episodi migliori della serie, perlomeno uno dei più originali.  




  Margherita Guzzinati 



Ivy Holzer 


Anna Identici 


Donatella Moretti


Marisa Traversi 


Copertina alternativa

domenica 27 agosto 2023

BACIO MORTALE

1336_BACIO MORTALE (The Death Kiss). Stati Uniti, 1932; Regia di Edwin L. Marin.

L’anno successivo all’uscita del capolavoro Dracula di Tod Browing, Bela Lugosi, David Manners e Edward Van Sloan si ritrovano per un nuovo film: Bacio mortale. La pellicola segna l’esordio del regista Edwin L. Marin e si apre con un eccellente incipit che lascia un auspicio rispettato solo in parte dallo sviluppo successivo del film. Nel complesso Bacio mortale è certamente un film valido anche se, all’interno della filmografia di Marin, sembra quasi avere la stessa funzione della sua bella sequenza iniziale: il regista statunitense, insomma, avrebbe potuto avere una carriera un po’ più incisiva, perché le potenzialità c’erano tutte. La citata scena iniziale è ambientata durante una ripresa cinematografica su un set ed è cruciale nell’economia del film: intanto perché è ben girata, poi perché mette in moto la vicenda in modo rapido, infine perché rivela una matrice metalinguistica che, in questo caso, serve a risolvere il giallo. Un utilizzo del media cinema ironico, insomma, con il regista che fornisce l’indizio più evidente per trovare il colpevole attraverso un espediente autoriale: in genere, questo approccio è riservato a scopi più impegnati; Marin, invece, pur dimostrando di conoscere le potenzialità del mezzo espressivo, se ne serve con intenti più umili. Essendo un giallo, c’è da trovare appunto il colpevole e stavolta non è il classico cameriere di tanti racconti bensì, come lascia intendere la prima sequenza, il regista Avery (Van Sloan). La deduzione logica di questo passaggio nasce dalla considerazione che ciò che accade sul set, infatti, è sempre da imputare al regista. Abitualmente, con queste parole, si allude al risultato che rimane impresso sulla pellicola. 

Ma qui Marin gioca in chiave metalinguistica e punta il dito su Avery anche per l’omicidio che avviene durante la fatidica prima sequenza: qualcuno ha infatti sostituito una pallottola vera tra quelle a salve preparate per la ripresa. Al di là delle indagini specifiche inerenti al racconto, si può quindi leggervi anche una sorta di messaggio autoriale: il responsabile ultimo sul set è sempre il regista, e così sarà anche in Bacio mortale. Una rivendicazione che, nel 1932, era meno scontata di oggi, soprattutto se a farla era un regista esordiente. Detto di questo folgorante avvio, che si sposa perfettamente con la chiusura avvincente – che non a caso si riallaccia con l’incipit anche narrativamente – va riconosciuto che il resto del film è meno scoppiettante. Si mantiene sempre su un degno livello, questo sia chiaro, anche grazie alla professionalità degli interpreti a cui, per la verità, manca qualcuno in grado di fornire l’acuto davvero vincente. Manners – nel ruolo di Franklyn, il protagonista – è un po’ troppo sovraesposto e, pur avendo un’adeguata presenza scenica, difetta forse del necessario carisma. 

A reggergli la sponda sentimentale è Adrienne Ames – nella parte della diva Marcia Lane – che, nello scintillante abito da sera tutto lustrini e paillettes, fa un figurone, ma aggiunge poco di più alla vicenda. Del trio citato in apertura, che aveva già lavorato insieme in Dracula, manca naturalmente all’appello Bela Lugosi, qui nella parte di Steiner, il sospettato numero uno. Volendo, la presenza di Lugosi nei panni di uno dei produttori del film che sembra essere il naturale colpevole – visto la sinistra fama dell’attore ungherese oltre che il suo aspetto ombroso – rincara la metafora citata: i produttori sono in genere narrati come i cattivi, all’interno del processo produttivo dei film. Ma non sono loro ad avere la maggior colpevolezza, leggi responsabilità, per quello che accade nel cinema. Lugosi recita alla sua maniera ma, in questo caso, sfodera una discreta sobrietà che non dissipa le inquietudini che lo accompagnano, e risulta pienamente funzionale allo scopo. A dirigere le indagini, e a farsi bagnare costantemente il naso da Franklyn, è il tenente Sheehan (John Wray) che ogni tanto si concede una battuta umoristica che alleggerisce un po’ il tono del racconto. Per altro, in questo specifico, è surclassato dall’agente Gulliver (Vince Barnett), vero specialista in ruoli comici. Nel complesso Bacio mortale è quindi ben organizzato: c’è una storia intrigante, un regista volenteroso, attori credibili. La trama è ben dosata tra la ricerca del colpevole, l’angoscia per l’accusa che, ad un certo punto, pende sulla testa di Marcia e i dubbi su Steiner; così come c’è una buona armonia tra l’ironia tagliente dei dialoghi e la comicità più fisica di Barnett. L’incipit è notevole e il finale regge fino all’ultimo sulla classica domanda che sorregge ogni giallo: chi è il colpevole? Eppure qualcosa manca, a Bacio mortale, per essere annoverato tra i grandi classici del periodo: quel qualcosa che è, probabilmente, da ricercare nell’innegabile inesperienza di Marin, nel carisma troppo ordinario di Manners e nello charme languido ma, nell'occasione, poco coinvolto della Ames. 
In ogni caso, Adrienne è davvero una bellezza mozzafiato.  







 Adrienne Ames 





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venerdì 25 agosto 2023

IL DADO E' TRATTO

1335_IL DADO E' TRATTO (Le rouge est mis). Francia, 1957; Regia di Gilles Grangier.

C’è un passaggio, ne Il dado è tratto – film polar di Gilles Grangier – che rivela l’indole tutta francese per il dettaglio realistico, anche non strettamente legato alla trama. Louis (Jean Gabin) si trova al margine di una strada di campagna, quando passa un gruppo di ciclisti. Uno di questi buca una gomma e si ferma, subito imitato dai compagni: Louis si intrattiene per un attimo con i ciclisti, giusto il tempo che la gomma venga sistemata. Questo passaggio non ha alcun rilievo nella storia; del resto, nemmeno la vacca che si trova sul carro legata all’auto e che Louis e i suoi complici rubano, ha un significato particolare. Semplicemente, i quattro banditi hanno la necessità di cambiare l’auto e si fermano in una fattoria, prendendo l’unico veicolo disponibile. Perché il polar è sì la versione transalpina – e posteriore di qualche anno – dei noir americani, ma rimane un genere prettamente francese, anzi, del cinema francese. Il dado è tratto è un classico polar: Grangier, il regista, non ha alcuna ambizione autoriale, o almeno non se ne scorgono dalla sua regia. Si limita a mettere in scena la sua storia e i suoi attori; per quel che riguarda la macchina da presa, la gestisce con sapienza e discrezione, senza sbavature ma nemmeno particolari guizzi. Il risultato è un film che funziona perfettamente, per via della professionalità del suo autore, ma anche grazie alla classe dei suoi interpreti. Jean Gabin non ha alcun bisogno di presentazione e, all’epoca, aveva già alle spalle oltre cinquanta film, tra cui alcuni capolavori. Inoltre era l’elemento di riferimento per il genere specifico, per cui non aveva praticamente più nemmeno bisogno di recitare. 

Jean Gabin, ne Il dado è tratto, è Jean Gabin, e il nome del personaggio è solo un dettaglio. Al suo fianco Lino Ventura, già affermato ma ancora alle prime armi, è un attore che diventerà un’altra icona indelebile dei polizieschi francesi. Nel film di Grangier, l’attore italiano è Pepito, un criminale violento e spesso fuori controllo. Dopo il saggio – Luois – e il violento – Pepito – a completare la banda mancano il vigliacco – Frédo (Paul Frankeur) – e il comprimario – Raymond (Jean Bérard). Ma un ruolo più significativo ce l’hanno Pierre (Marcel Bozzuffi), fratello minore di Louis, e la bella Hélène (Annie Girardot), estetista che arrotonda facendo la squillo. Louis e i suoi compari conducono una doppia vita assai redditizia: hanno esistenze normali, regolari, con famiglie e attività professionali, attivi perfino negli investimenti finanziari; salvo recuperare i capitali necessari con rapine in cui si dimostrano professionisti del crimine, efficienti e spietati. 

In particolare Louis, è stimato uomo d’affari, figlio premuroso dell’anziana madre nonché paterno fratello maggiore di Pierre. Addirittura arriva a schiaffeggiare la poco rispettabile Hélèna, in quanto donna di facili costumi, intimandole di lasciar perdere il fratello, perdutamente infatuato dell’avvenente figliola. Louis, il fratellone così protettivo, quando poi veste i panni del gangster, è un criminale freddo e determinato. Gli altri della banda sono meno abili, nel gestire questa ipocrita doppia faccia comportamentale, a cominciare da Pepito, che sembra sempre sul punto di far fuori, col coltello o col mitra, il primo che sgarri. Ad un certo punto qualcuno sgarra per davvero: dopo un colpo particolarmente efferato, la polizia ha ricevuto un’informazione e Louis è stato pizzicato. Pepito, ormai braccato, si convince che a cantare sia stato Pierre, che aveva inavvertitamente ascoltato alcuni loro discorsi. In realtà ha parlare è stato Frédo, crollato dopo l’assalto al furgone trasporta-valori che era finito in tragedia. Pierre, naturalmente, si è rifugiato da Hélène che, seppur non sia certo un’anima candida, cerca di confortarlo. Intanto, nell’androne del palazzo, arrivano congiuntamente Louis e Pepito, per la resa dei conti a cui nessuno dei due sopravviverà. Ancora una volta, il saggio Louis, opera la scelta migliore: se c’è da morire, che sia almeno per salvare il fratello. A suo modo, un lieto fine. Degno di un polar, insomma. 






Annie Girardot 




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