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mercoledì 31 marzo 2021

I 4 DEL TEXAS

790_I 4 DEL TEXAS (4 for Texas). Stati Uniti1963. Regia di Robert Aldrich. 

Appena compare Charles Bronson all’interno di un piccolo cerchio sullo schermo, proprio all’inizio de I 4 del Texas, regia di Robert Aldrich, una voce fuori campo ci informa che si tratta del ‘cattivo’ della storia, mentre altri due personaggi, Joe, la voce narrante, e Zack sono i buoni. Un incipit che ci fa capire subito che si tratta di un film un po’ sopra le righe, dove l’autoironia spadroneggia e non bisogna prendere le cose troppo sul serio. Poi Matson, ovvero il Charles Bronson inquadrato in avvio di pellicola, apre le danze di un inseguimento alla diligenza che, in primissima istanza, sembra quasi girato con serio vigore: riprese audaci, cavalli al galoppo, macchina da presa posta in mezzo all’inseguimento. Ma una cosa lascia intendere che anche questa sequenza si mantenga ben al di sopra le righe di cui si è già accennato: i due buoni a bordo della diligenza, ovvero Joe (Dean Martin) e Zack (Frank Sinatra) sono stranamente sorridenti mentre sparano con estrema precisione e decimano gli inseguitori. Insomma, si tratta, più che di una commedia western, di una recita. A rendere interessante una pellicola, che non può certo dirsi riuscita, Aldrich chiama due star femminili del calibro di Anita Ekberg e Ursula Andress, sulle cui grazie indugia in più di un’occasione. Ecco, volendo si potrebbe approfondire questo aspetto: la Ekberg, a 36 anni, pur rimanendo una bellissima donna, complice forse la rinomata abbondanza delle forme, dimostra addirittura qualche anno in più della sua età. Più tonica e tosta la Andress, che di anni ne ha 31 ma che potrebbe passare anche per una venticinquenne; bellissima in ogni caso. In definitiva, un film un po’ deludente, anche per via della scarsa alchimia complessiva del cast, pur se composto di nomi altisonanti: se Martin se la cava in scioltezza, Sinatra appare poco credibile; e comunque anche Bronson è fuori luogo, essendo un cattivo che dovrebbe mangiarsi, cappello e stivali compresi, i due antagonisti in un sol boccone. 










Ursula Andress








Anita Ekberg




lunedì 29 marzo 2021

SPAGHETTI A MEZZANOTTE

789_SPAGHETTI A MEZZANOTTE . Italia1981. Regia di Sergio Martino. 

A suo modo divertente commedia tipica del periodo, Spaghetti a mezzanotte è sorretto principalmente dalla verve comica di Lino Banfi (è l’avvocato Lagrasta) e dalla bellezza di Barbara Bouchet (sua moglie Celeste). Fa sempre un po’ male vedere Barbara, divinità del nostrano cinema giallo, sprecata in simili produzioni, ma tant’è. A questo proposito, il regista di Spaghetti a mezzanotte è Sergio Martino, autore che ci aveva regalato ottimi esempi nel thriller all’italiana e, se ormai era entrato nel suo periodo più leggero, conserva ancora la voglia di organizzare un minimo le sue storie. Spaghetti a mezzanotte ha infatti una trama gialla che, per quanto blanda, si innesta con profitto in quella comica, alimentando tra l’altro una grande quantità di gag. La presenza del cadavere del sicario alla festa di compleanno di Lagrasta dà infatti luogo ad una serie di sketch che, oltre al Lino nazionale, vedono protagonista Cesarino (Pippo Santonastaso). Santonastaso è, insieme a Daniele Vargas (nei panni del giudice Ulderico), tra i pochi del cast, fatto salvo la coppia di prim’attori, a cavarsela. Male, malissimo Teo Teocoli (è Andrea, l’architetto amante di Celeste), assolutamente inadeguato (anche in un simile contesto, il che è tutto dire); poco convincente anche Alida Chelli (è Zelmira, moglie del giudice e amante di Lagrasta). Discutibile poi il pesante accento piemontese (la vicenda è ambientata ad Asti) che grava sui dialoghi della pellicola e che, probabilmente, nelle intenzioni vuole alimentare una deriva casereccia del racconto, giustificando i tanti passaggi pecorecci del film. 

Preoccupazione inutile, visto che la scurrilità gratuita è ormai sdoganata nella versione italiana della commedia del tempo; che si tratti di un suo limite è assodato e di sicuro non può essere un vanto per gli autori, che vi ricorrono come scorciatoia verso la risata a buon mercato, a volte per pigrizia, altre per incapacità. Tuttavia entro certi limiti non infastidisce più di tanto la visione e questo è il caso di Spaghetti a mezzanotte. Semmai c’è da sottolineare il tipico maschilismo della storia nell’accento dato alle corna subite da Lagrasta mentre quelle inflitte a Celeste sono passate in cavalleria dal racconto. Ma se un merito ce l’hanno, le commediacce del periodo (oltre a strappare qualche risata) è proprio quello di presentare un quadro attendibile del belpaese, anche e soprattutto nell’essere, in modo genuino, del tutto politicamente scorrette. Esemplare lo scambio di battute tra Zelmira e Lagrasta, quasi sorpresi insieme dal marito di lei, il giudice Ulderico. “Ma sai che se ci trovava insieme ci ammazzava! A me mi ha preso un colpo”, dice la donna. Al che Lagrasta ribatte “A me mi ha preso per ricchione, mi ha preso”, equiparando, sebbene soltanto a livello di battuta, l’essere definito omosessuale all’essere accoppato. Possa piacere o meno, ma Lino Banfi interpretava a pennello la realtà italiana (e non solo di quegli anni). Purtroppo, la Bouchet, essendo appunto straniera, poteva invece incarnarne solamente il sogno.





Barbara Bouchet






Alida Chelli


sabato 27 marzo 2021

I SECENTO DI BALAKLAVA

788_I SEICENTO DI BALAKLAVA (The charge of Light Brigade). Regno Unito1968. Regia di Tony Richardson. 

Film bellico in costume, I seicento di Balaklava di Tony Richardson racconta appunto della battaglia di Balaklava durante la Guerra di Crimea, quella della famosa carica dei 600 (già immortalata dall’omonimo film di Michael Curtiz nel 1936). La produzione del film è britannica e il regista, inglese pure lui, mantiene per tutto il film un tono piuttosto canzonatorio nei confronti della corona e del suo esercito (ma gli alleati francesi non vengono trattati molto meglio). In effetti è una scelta condivisibile: una simile debacle, per gli inglesi, non è facilmente gestibile nei confronti dell’opinione pubblica anche se, in realtà, altre volte i figli di Albione hanno mostrato la tendenza a mettere comunque in risalto anche le sconfitte, coprendole di gloria e onori militari in modo un po' incomprensibile da un punto di vista del risultato ottenuto,  D’accordo per il tributo ai morti per la patria ma, in questi casi, a parte questo ci sarebbe poco da ricordare; vero è che una fredda analisi sarebbe troppo deprimente, per lo spirito patriottico. E allora la soluzione di Richardson si propone come una sorta di terza via, ovvero utilizzare l’episodio della battaglia di Balaklava per criticare, in forma di farsa, l’esercito e i suoi protagonisti, il folle Lord Raglan (Trevor Howard) per primo. Questo spirito critico pervade tutto il film ed è supportato anche da alcune sequenze in animazione con una grafica che può ricordare le vignette satiriche del tempo. D'apprima fungono da sfondo per i titoli di testa e, in seguito, saltano fuori di tanto in tanto nel lungometraggio. Inizialmente potrebbero quasi sembrare intrise di patriottismo convinto: poi, man mano che la storia procede, appare sempre più evidente il tono autoironico e ferocemente satirico nei confronti della politica coloniale britannica. 

E’ chiaro che si tratta di un’operazione perlomeno bizzarra, anche partendo dal fatto che suscita una certa perplessità vedere un simile impegno per la ricostruzione scenografica e dei costumi (uniformi, armi e altri dettagli) per realizzare un’opera satirica; non che non si possa fare, ma certo alcuni comportamenti degli ufficiali mostrati nel film, decisamente sopra le righe, minano la credibilità storica complessiva. Alcuni altri dettagli poco coerenti, come l’uso di due diverse voci narranti fuori campo e per di più usate solo in principio e poi abbandonate, non aiuta a rendere convincente il film di Richardson. Così tutto lo sforzo produttivo per la messa in scena è come se rimanesse speso invano. C’è anche una storia d’amore clandestino, forse per giustificare il ruolo di Vanessa Redgrave, e una più scollacciata, ma più che altro negli intenti, tanto per mettere un po’ di pepe alla vicenda (di cui si incarica Jill Bennett). Espedienti narrativi utili probabilmente a far condividere all’altra metà del cielo il peso di una simile idiozia (ovvero l’arte bellica). Nel complesso un film sulla stupidità della guerra: non fa mai male, d’accordo, ma si mantiene al minimo sindacale.





Vanessa Redgrave


Jill Bennett

giovedì 25 marzo 2021

L'ASSEDIO DI FUOCO

787_L'ASSEDIO DI FUOCO (Riding Shotgun). Stati Uniti1954. Regia di André De Toth.

Il regista di origine ungherese André De Toth ha già dimostrato, e in più di un’occasione, di conoscere il genere western e di saper fornire prodotti di assoluto rispetto in questo tipo di pellicole (Per la vecchia bandiera e La maschera di fango, tanto per fare due titoli). L’assedio di fuoco, titolo italiano non certo indovinato che, per una volta, fa il paio con quello originale, Riding Shotgun, anch’esso poco riuscito, è un’ulteriore prova di abilità dell’autore. Il formato, simile al 4/3 (il rapporto della pellicola è 1,37:1), in un film western è certamente un limite, ma De Toth lo sfrutta a suo vantaggio. Intanto, ambienta la vicenda prevalentemente nella cittadina e negli interni degli edifici della stessa; quindi lo spazio non è sconfinato, semmai il contrario, e non viene sacrificato dall’immagine stretta del formato della pellicola. E poi il regista muove la sua macchina da presa con ripetuti carrelli laterali che ci mostrano, gradualmente, le insidie che colmano le scene della storia. E’ uno sguardo circospetto, attento, che si muove nelle strade e nella scalcinata locanda di Fritz, presa da Larry Delong (il solido, inossidabile, Randolph Scott) come rifugio per sfuggire al linciaggio a cui vorrebbero sottoporlo i benpensanti abitanti di Deep Water. Naturalmente Delong è innocente dall’accusa che gli stolti cittadini di Deep Water gli appioppano: che, si è mai visto Scott interpretare un cattivo? Ma De Toth è davvero bravo e imbastisce la sua storia tra un assalto alla diligenza (che è un mero diversivo) e il successivo attacco alla sala da gioco locale. A guidare la banda di fuorilegge il nemico storico di Delong, ovvero Dan Marady (James Millican) che, a suo tempo, durante una delle sue imprese banditesche, ne aveva ucciso la sorella. 

Quindi, lo sviluppo della storia è grosso modo questo: la diligenza viene attaccata; Delong, che era di guardia a cassetta, viene fatto prigioniero dai banditi. Lo sceriffo di Deep Water insegue i fuorilegge che, con uno stratagemma, se ne liberano per andare a fare il vero colpo in città, ora sguarnita da quasi tutti gli uomini validi, impiegati nella posse. Un bel piano, il cui punto centrale è una pistola tascabile che è anche il portafortuna di Marady e che viene usata come esca per catturare Delong e toglierlo di mezzo prima dell’assalto alla diligenza. La pistola cadrà erroneamente poi nella polvere, Delong la troverà e sarà grazie ad essa che, prima si libererà dalle corde e, nel finale, sorprenderà Marady, che non sapeva che l’avesse recuperata proprio il rivale. A questo punto è quasi beffardo pensare che il bandito la considerasse il suo portafortuna. Insomma, una trama con un bell’intarsio narrativo e che verte soprattutto sulla suspense che intercorre tra le due azioni criminose dei banditi in quanto prima del loro ingresso in città per il colpo alla sala da gioco passa praticamente tutto il film. Pellicola assolutamente godibile, girata con solida maestria e cosparsa di un’ironia quasi cinica, sebbene stemperata a dovere. Oltre a Scott, professionale come sempre, da citare almeno Wayne Morris (il vicesceriffo), la bella Joan Weldon (Orissa), e un giovanissimo Charles Bronson (Pinto). 








 Joan Weldon