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martedì 31 agosto 2021

QUANDO TUONA IL CANNONE: capitolo 4_RUMBLE IN THE JUNGLE

Quando la città dorme presenta:

QUANDO TUONA IL CANNONE

IL KOLOSSAL DOSSIER

Capitolo 4

RUMBLE IN THE JUNGLE

Come noto, la Grande Guerra fu davvero mondiale andando a coinvolgere in un modo o nell’altro paesi di ogni continente. Se dall’Oceania, per fare un esempio, fu chiamata la forza lavoro per combattere sui teatri di guerra del Vecchio Mondo, diversamente l’Africa fu, a suo modo, anche uno dei luoghi dove la guerra infuriò. Nel capitolo 4, dedicato proprio al cinema della Prima Guerra Mondiale nel Continente Nero si comincia con Fort Saganne, che si presenta come una sorta di prologo. L’iniziale ambientazione sahariana del film di Alain Corneau, infatti, è precedente allo scoppio delle ostilità e, quando il protagonista, interpretato da Gérard Depardieu, viene chiamato in causa con le sue truppe coloniali, lo fa sul fronte europeo. Le considerazioni finali del film, affidate alle parole di un soldato di origine africana, gli valgono però il diritto di aprire il capitolo. Che, col successivo passo, arriva già a quello che è il suo vertice: La Regina d’Africa, capolavoro di John Huston, non ha bisogno di presentazioni. Ci rivedremo all’inferno è un interessante variazione sul tema di quanto appena visto nel film con Katherine Hepburn e Humphrey Bogart, e vede all’opera un altro asso di Hollywood, Lee Marvin. Ne I contrabbandieri del Kenya, film di pura avventura degli anni cinquanta, inglesi e tedeschi si disputano un carico di mitragliatrici in una questione tutto sommato simile a quanto avviene in Trader Horn, dove ci si contente una miniera di platino. Un bene assai più prezioso, soprattutto in Africa, ovvero l’acqua, è al centro de L’ultima pattuglia, inglesi e tedeschi sempre sotto a suonarsele anche quando fino a poco tempo prima erano vicini di casa in armonia. Che è anche il presupposto, sostituendo gli inglesi con i coloni francesi, dello splendido Bianco e nero a colori, spassoso film premio Oscar nel 1977 prodotto, tra gli altri, in Costa d’Avorio. Il successivo Il serpente bianco, opera famigerata, è anche più politicamente scorretto. Si chiude con il particolare Jericho, dove il protagonista, un gigantesco afroamericano interpretato dal cantante Paul Robeson, diserta dall’esercito americano per divenire leader di una tribù di beduini nel deserto sahariano. Il capitolo africano va quindi in archivio: si torna in Europa, ci aspettano uomini, bestie ed eroi! 

Il programma

Capitolo 4: RUMBLE IN THE JUNGLE

Dalla notte del primo Settembre

 

Tema

La Grande Guerra in Africa!

 

Film

Appendice storica

 

FORT SAGANNE

 

LA REGINA D’AFRICA

 

CI RIVEDREMO ALL’INFERNO

 

I CONTRABBANDIERI DEL KENYA

 

TRADER HORN

 

L’ULTIMA PATTUGLIA

 

BIANCO E NERO A COLORI

 

IL SERPENTE BIANCO

 

JERICHO

 


lunedì 30 agosto 2021

VERSO IL SUD (1978)

880_VERSO IL SUD (Goin's South). Stati Uniti 1978; Regia di Jack Nicholson.

Fa un certo effetto vedere un artista del calibro di Jack Nicholson, (serve citare qualche film? Nel caso, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Shining e Chinatown possono bastare) non solo coinvolto in un ruolo da protagonista in questo Verso il sud, ma addirittura esserne il regista. Non che sia un film orribile o scandaloso, sia chiaro, ma è davvero poca cosa e lo è sotto troppi aspetti. La qualità estetica della pellicola è televisiva e, aimè, questo è un tratto comune a molti film di quei tempi; la storia raccontata dalla trama è carina ma vivacchia e nulla più. Ma la cosa che rende meno digeribile l’intera operazione è che Nicholson, forse per poter recitare nel suo registro più istrionico e sopra le righe, estende questo tenore all’intera pellicola. Il che non è certo sbagliato per principio, è ovvio, ma diventa assai più difficile realizzare un film trasversale a molti generi che affidarsi a qualcosa di più canonico. Questo ricordando che Nicholson, se era uno stratosferico interprete, in regia aveva ben poca dimestichezza. Il film vuole in effetti essere una commedia western che sconfina nella parodia e vede impegnati, oltre a Nicholson, anche Danny De Vito, Christopher Lloyd e James Belushi che sono tutti attori dal naturale registro recitativo comico. Tanta carne al fuoco, questo è vero, ma viene il sospetto che sarebbe servito uno chef con qualche ricetta in più. L’unica che pare funzionare è l’inserimento di una figura di diverso registro per creare un minimo di contrasto, nel caso specifico la protagonista femminile. Mary Steenburgen (qui al suo debutto) appare infatti fuori luogo un po’ con tutto quello che le sta intorno: con la recitazione sopra le righe di Nicholson, con l’ambientazione western e, addentrandoci nella finzione filmica, con l’uomo che ha sposato. Un abbinamento degli opposti che, effettivamente, per un po’ funziona e aiuta il film ad andare avanti. Ma da qui a dire che lo salva, ce ne corre. 





Mary Steenburgen 


sabato 28 agosto 2021

UNA PISTOLA PER CENTO BARE

879_UNA PISTOLA PER CENTO BARE . Italia, Spagna 1968; Regia di Umberto Lenzi.

Il western non è stato certo un genere prediletto da Umberto Lenzi e questo Una pistola per cento bare mostra, in effetti, qualche debolezza di troppo. Niente di drammatico, sia chiaro, come spaghetti western del periodo si colloca dignitosamente nella media di un filone che ha avuto punte eccelse ma anche scadimenti clamorosi. Con Lenzi questo non può accadere perché è un regista di valore e, soprattutto, ha un forte senso della narrazione. Il piacevole e coinvolgente ritmo di questa storia, incentrata sulla vendetta da parte di Jim (Peter Lee Lawrence, poco incisivo) contro gli assassini della sua famiglia, permette di sorvolare sulle tante (troppe) ingenuità narrative che, al tempo, i western all’italiana si concedevano. Per fare un esempio: davvero improbabile la naturalezza con cui il protagonista passa dal non aver mai visto una pistola, in quanto testimone di Geova, a diventare il più veloce tiratore di una storia affollata di pistoleri. Ma ce ne sono anche altre, di queste superficialità, e di altro tipo, come la facilità con cui i banditi di Corbett (Piero Lulli), in mezzo al nulla del deserto del Texas, riescono a trovare carri conestoga e abbigliamenti per inscenare una carovana di mormoni la sera per la mattina. Questi passaggi grossolani della trama non inficiano il godimento della vicenda che, però, in questo modo, non acquista mai spessore, finendo per essere un mero svolgimento dei fatti salienti. Che è vero, è la caratteristica propria degli spaghetti western fin dai capostipiti di Sergio Leone ma il patriarca del genere trattava questo aspetto, questa essenzialità, con una consapevolezza che troppo spesso gli epigoni non hanno. 

La nota più caratteristica del film, oltre alla citata buona scorrevolezza, è la figura di Jim, il protagonista, che gli eventi trasformano in modo radicale, con un’evoluzione certamente discutibile. Ad inizio della storia lo troviamo ribelle due volte: è un confederato, e quindi si è ribellato all’Unione, ma rifiuta di combattere per via del suo credo religioso, finendo così ai lavori forzati. Quando torna a casa, a guerra civile finita, trova la famiglia sterminata: decide così di comprarsi una pistola e vendicarsi. Pare sia l’unica eccezione che voglia fare, tanto che, per tutta la storia, non berrà whiskey ma acqua, sempre per i succitati motivi religiosi. Nel finale si convincerà a cedere anche su questo punto e si farà il bicchierino della staffa, prima di lasciare a Marjorie (Gloria Osuna) un due di picche, sentimentalmente parlando, andandosene per un finale comunque abbastanza d’effetto. Essendo un western all’italiana può anche essere normale vedere il protagonista ammazzare senza batter ciglio a sangue freddo ma, su questi passaggi, Lenzi scade, purtroppo, nel banale; come troppi suoi colleghi, del resto. L’idea di aumentare il tasso di violenza per stilizzare la narrazione è valida, ma si deve stare attenti a non banalizzarla, la violenza; diversamente si ottiene l’effetto opposto: ovvero diventa noiosa, stucchevole. Per nostra fortuna c’è anche una trama gialla, questa sì nelle corde del regista, con la figura di Douglas (John Ireland, ahilui) che salta la barricata più volte, peraltro in linea con la coerenza narrativa generale dell’opera. Interessante, e gestito con buona sapienza narrativa, l’intermezzo dei pazzi rinchiusi nella prigione del paese, visto che il manicomio era andato bruciato da uno degli stessi ospiti, afflitto da piromania. 


A parte la curiosità che ci sia un manicomio in un paese in piena area desertica e nel quale non si vedono più una ventina di persone, (ma giova ricordare che siamo in uno spaghetti western), la questione in sé sembra un mero pretesto per allungare un po’ il brodo narrativo e dare un po’ di respiro alla schematica vicenda. Il che è senz’altro vero, come è vero che Lenzi è anche molto bravo nell’utilizzare, ad esempio, la presenza femminile di Marjorie unicamente per cadenzare la narrazione, mettendo uno stacco sul suo primo piano in una sequenza o farle recitare una battuta enfatizzando la drammaticità della situazione. Questo ruolo marginale del personaggio femminile principale è poi sottolineato dal finale, quando Jim la lascia senza dare l’idea di prenderla nemmeno in considerazione. Uno degli aspetti della capacità narrativa di Lenzi è quindi proprio quello di usare gli elementi del racconto come fossero ingredienti, da dosare a seconda dei casi, in modo anche svincolato dal flusso narrativo principale. I pazzi citati, ad esempio, servono per distogliere l’attenzione da una trama diversamente troppo arida: è vero, ci sono due tracce, la vendetta di Jim e la banda che assedia il paese, ma lo sviluppo degli eventi è fin troppo rapido. Degli assassini sembra rimanere solo Corbett a cui dare la caccia e quando si scopre che lo stesso uomo è a capo dei banditi che minacciano il paese, le due trame si sovrappongono e non rimane che attendere lo scontro finale. Si è detto della deriva gialla, con la figura di Douglas che fa il doppio o triplo gioco, oltre a rivestire un ulteriore ruolo nella vicenda, ma Lenzi si tiene questa carta per gli ultimi minuti, per dare l’ultima scossa. E, da buon alchimista della narrazione, quando inserisce il diversivo coi pazzi, se ne tiene uno da parte (di pazzo) per rendere ulteriormente l’epilogo sorprendente. Da questo complesso armeggiare con gli elementi, anche grazie alle evocative musiche di Angelo F. Lavagnino, dall’eco quasi classica seppur tipicamente adeguate al western all’italiana, scaturisce un film che, se non altro, non annoia e, nel finale, prova quasi ad essere epico. Senza riuscirci, ma il tentativo va comunque messo a referto tra i pregi.   





Gloria Osuna


giovedì 26 agosto 2021

IL COMPLOTTO DI LUGLIO

878_IL COMPLOTTO DI LUGLIO . Italia, 1967; Regia di Vittorio Cottafavi.

A volte indicato come Operazione Valchiria, l’attentato a Hitler del 20 Luglio del 1944 è alla base del film per la Tv di Vittorio Cottafavi Il complotto di Luglio. Il regista nato a Modena aveva una buona esperienza sia in campo cinematografico che televisivo da cui, probabilmente, attinse per impostare una produzione che, se era perlopiù basata sugli stilemi degli sceneggiati tanto in voga in Rai all’epoca, prevedeva alcuni coraggiosi inserti con immagini di stampo documentaristico. Non solo: il racconto filmico aveva un’introduzione e una serie di commenti in conclusione, mentre durante il flusso della narrazione c’erano degli intermezzi in cui una voce fuori campo introduceva un personaggio storico o approfondiva un passaggio. Una simile impostazione, se da un punto di vista estetico faceva perdere omogeneità al film (basti confrontare la grana delle immagini delle scene di differente origine) permetteva di chiarire e sveltire una narrazione basata, in sostanza, sull’attesa delle conferme di quanto era stato ordito dai congiurati. In effetti, è strano che per essere una storia di guerra (o comunque di ambientazione bellica) il suono che si ode maggiormente nel racconto è quello del telefono che squilla in continuazione. Tutti aspettano la notizia, la morte di Hitler, ma nessuno sa con precisione il punto della situazione perché, proprio il Führer, scampato clamorosamente all’attentato, aveva bloccato tutte le comunicazioni. Questo è uno degli aspetti più interessanti del film, e probabilmente riflette uno degli elementi cruciali del fenomeno nazista: la capacità di gestire le comunicazioni è sproporzionata a vantaggio di Hitler e dei suoi fedeli rispetto ai congiurati. 

Dopo lo scoppio della bomba, Hitler chiude le comunicazioni tra la Tana del Lupo e l’esterno, impedendo ogni fuga di notizia incontrollata. Quando la sua propaganda tornerà a farsi sentire alla radio, sarà la fine del tentativo di ribellione. Anche perché, con colpevole inefficienza, il generale Olbricht (Tino Carraro) e i suoi collaboratori non hanno preso possesso delle stazioni radio per tempo, denunziando una generale incapacità nel gestire la drammatica situazione. Le notizie, a Berlino, al quartier generale della rivolta, le ha portato direttamente von Stauffenberg (Paolo Graziosi), il colonnello che, in prima persona, aveva depositato la valigia piena di esplosivo sotto il tavolo dove Hitler si sarebbe riunito coi suoi generali. 

La bomba era effettivamente esplosa, come sosteneva von Stauffenberg ma, per un caso fortuito (uno dei convenuti l’aveva spostata leggermente ma in modo decisivo ai fini della sua efficacia) gli effetti erano stati diversi da quanto previsto. Lo sceneggiato, di questi passaggi, ci dà unicamente conto ma nella sua essenza è concentrato su quanto avviene a Berlino, con i congiurati che si trovano al centro dell’intrigo ma a cui non arrivano informazioni. Informazioni che, da loro, nemmeno partono, per la verità, come lamentato del terribile capo della polizia von Helldorf (Carlo Hintermann), colpevolmente lasciato in attesa senza ordini mentre le ore cruciali passavano. Il tempo, in effetti, corse velocemente, per i congiurati tanto quanto per gli spettatori del film di Cottafavi e tutti quanti, alla fine, vedono svanire i sogni di ribellione alla dittatura nazista. Se per Olbricht e i suoi questo è un tasto a dir poco dolente, per lo spettacolo televisivo è certamente un segno di efficacia. Il complotto di luglio è infatti un film avvincente, sia per le informazioni che, grazie alla sua formula multiformato, il racconto riesce sempre a fornire al momento opportuno, sia per la capacità di Cottafavi e dei suoi attori di imbastire una rappresentazione di stampo teatrale di grande coinvolgimento. Autore e interpreti si poggiano sull’efficace modello dello sceneggiato televisivo per cui, con i funzionali dialoghi e l’evocativa recitazione teatrale, si compensa una certa artificiosità delle ambientazioni. Insomma, l’ennesima dimostrazione della Rai dell’epoca che con il talento e le idee si potevano raggiungere risultati più che lusinghieri.   

martedì 24 agosto 2021

L'UOMO CHE AMO' GATTA DANZANTE

877_L'UOMO CHE AMO' GATTA DANZANTE (The Man Who loved Cat Dancing). Stati Uniti, 1973; Regia di Richard C. Sarafian.

Nel 1971, in Uomo bianco va’ col tuo Dio, il regista Richard C. Sarafian si era occupato della vicenda di un trapper abbandonato in mezzo alla natura selvaggia delle montagne nordamericane. Quel film, certamente valido e interessante, era attraversato da due temi: il passato che ossessiona i due personaggi principali e il muoversi in un contesto estraneo e ostile. Forse, più che l’idea di un rinselvatichito Richard Harris, protagonista nei panni del trapper, è rimasta  memorabile soprattutto la scena della barca montata su ruote che attraversa il paesaggio del west. Il curioso mezzo di locomozione dà concreta forma al passato del personaggio di John Huston e, unitamente al rimorso, non lo abbandona nemmeno durante la spedizione tra mille pericoli. Come detto, i temi portanti erano quindi quelli del passato che ossessiona e quello di un elemento costretto in un ambiente ostile ed estraneo. Con L’uomo che amò Gatta Danzante Sarafian si muove ancora su questi argomenti: una persona civilizzata in un ambiente selvaggio che, attraverso queste difficoltà, ha l’opportunità di svincolarsi dal proprio passato. Anche qui i problemi non derivano soltanto dalla natura selvaggia che, per quanto crudele, ha comunque una sua dignità, ma dalla barbarie dell’uomo civilizzato. La povera Mrs. Catherine Crocker (un’elegante, delicata ma insospettabilmente energica Sarah Mills), facoltosa ragazza di città, si trova coinvolta nella fuga di quattro rapinatori di treni. Siamo in piena epoca del far west ed una elegante signora che si aggira lungo la ferrovia, in una zona desertica dove non ci sono stazioni o siano previste fermate, è chiaramente fuori luogo; come appunto il personaggio di Mrs. Croker lì e nel proseguo della storia. La motivazione che ha portato la donna precisamente in quel posto è un po’ esile: la donna si sarebbe persa, almeno stando alle parole del marito. Difficile da credere, visto che ci si trova in pieno deserto ma, in ogni modo, la mancanza di un pretesto che si sembri comprensibile amplifica l’effetto straniante di vedere un’elegante signora, con tanto di ombrellino para sole, nel bel mezzo di una feroce rapina al treno. In realtà, l’ex capitano Jay Grobart (l’aitante Burt Reynolds) avrebbe voluto un lavoretto liscio liscio, ovvero senza lasciare cadaveri ma, un po’ gli imprevisti e, soprattutto, la feccia che si è tirato appresso, mandano a monte i suoi piani. 

Il morto ci scappa e le cose si complicano quando uno dei suoi uomini, Billy (Bo Hopkins), si trascina dietro la donna, presente per sbaglio sul luogo della rapina, nella fuga. Billy è un elemento pessimo, quasi pari a Dawes (Jack Warden), questi una carogna di prima categoria, e costituiscono la feccia di cui si è detto. Il quarto del gruppo è l’indiano Charlie (Jay Varela) che non ha colpe specifiche se non quella di seguire Jay anche quando questi decide di rapinare un treno. C’è quindi ancora qualcosa di fuori posto, nei presupposti di questa vicenda: nelle storie del west non è particolarmente strano che un ex capitano come Jay finisca a fare il delinquente ma lascia perplessi vederlo farsi accompagnare da simili pendagli da forca come Billy o Dawes. E’ in fondo la stessa perplessità sia di Dub (Ricard Donner), il vecchio sottoposto del capitano, che di Harvey Lapchanche (il grande Lee J. Cobb), incaricato dalla Wells Fargo di inseguire i fuggitivi. C’è quindi una donna ricca trascinata in fuga da una banda di fuorilegge il cui capo è un elemento anch’esso di natura estranea alla situazione. I cinque, i quattro della banda e la donna, sono comunque esponenti della civiltà americana che si avventura in un contesto selvaggio, in pieno territorio indiano. Il film ha qualche crudezza ma nemmeno accentuata considerato che la povera Mrs. Crocker passa un sacco di tempo in compagnia di animali quali Billy o Dawes. Tutto sommato Sarafian non indugia sulle prevedibile sponde erotiche che la situazione suggeriva aiutato, in questo, dalla presenza di una mastino come Burt Reynold. 

Il capitano Jay da lui interpretato è una garanzia che alla donna verranno risparmiate un bel po’ di grane anche se, qualche cosa, giocoforza ci scappa. Ma una volta rimasti soli, nella fuga, ai due personaggi protagonisti viene un po’ naturale fare il bilancio tra la vita precedente e quella che gli si para d’innanzi. Catherine è sposata ad un uomo che non ama, che ha accettato in marito unicamente per denaro; adesso è sola insieme ad un altro uomo, Jay. Il quale è vedovo, ha noie con la legge, poco da offrire ma ha dimostrato alla donna di essere in gamba e di portarle  rispetto (cosa per niente scontata nell’epoca del far west). In ogni caso la trama si snocciola andando a parare dove era prevedibile, seppur nel tragitto il film si mantiene interessante. Mrs Catherine alla fine si innamora dell’ex capitano che, stupito dalla tempra della donna che in più di un’occasione tira fuori gli artigli, ricambia volentieri. Un ritorno alla natura selvaggia, un tuffo fuori dalla civiltà, dagli interessi per il denaro, per l’agiatezza, vale la riscoperta dell’amore, questo in sintesi quanto capita alla donna, vera protagonista della storia. Che, in un western, può sempre avere un significato simbolico sui destini della nazione. Ma, e la prima moglie di Jay, Gatta Danzante, alla quale aspetta addirittura la citazione nel titolo del fim? E’ morta, stando alle parole dell’uomo. E, allora, se il western è il cinema che racconta della nascita dell'America, forse con lei sono morte anche le speranze che gli indiani abbiano un qualunque posto nella società americana, verrebbe da dire. E, in fondo, gli indiani ne L’uomo che amò Gatta Danzante, per essere un western, hanno un ruolo già molto marginale. Forse unicamente quello di dare forma concreta al rimpianto di una vita più libera e selvaggia. 




Sarah Miles










domenica 22 agosto 2021

L'ULTIMA CACCIA

876_L'ULTIMA CACCIA (The Last Hunt). Stati Uniti, 1956; Regia di Richard Brooks.

Richard Brooks di professione, oltre che regista, è anche sceneggiatore e scrittore e questo, in genere, garantisce una buona solidità narrativa alle sue opere, cosa che è riscontrabile anche ne L’ultima caccia. Ma non è questo il merito maggiore del film che, piuttosto, sorprende per l’attenzione posta ai risvolti negativi della conquista del west: dai problemi degli indiani a quelli di matrice naturalista, con il terribile sterminio dei bisonti. Sul momento, fa un po’ specie vedere il senso di colpa nei confronti dei bovini e non nei riguardi degli abitanti originari del continente ma questo solo perché Brooks si rapporta agli indiani con uno sguardo moderno; è quindi dato per scontato che verso di loro sia stata perpetuata un’enorme ingiustizia. Infatti la questione indiana è comunque molto presente, nel film: la donna di cui si innamorano i due amici rivali è una pellerossa, il ragazzo è un mezzosangue e un giusto rilievo nel racconto è dato anche alla cultura autoctona, con il rispetto sacrale del bisonte e del bisonte bianco in particolare. Inoltre, il senso di colpa che prova Mckenzie (Stewart Granger) per la strage di animali è anche legato alla consapevolezza che lo sterminio dei bisonti sia stato lo strumento per affamare gli indiani; sebbene il disagio maggiore dell’uomo sia per l’orrore che l’atto di uccidere provoca di per sé, indipendentemente da quale forma di vita si vada a spezzare. Il compagno di caccia di McKenzie, Charlie (Robert Taylor) è invece un tipo davvero singolare e qui si vede forse l’attitudine di Brooks alla scrittura: il cinema d’evasione, con le sue due ore circa di tempo del racconto già impegnate dalla trama, non permette quasi mai personaggi troppo controversi, perché si fa poi fatica a giustificarne i vari risvolti caratteriali. Nella letteratura, avendo meno limiti, accade invece più frequentemente e forse proprio la matrice letteraria dell’autore può essere una delle ragioni a motivare l’incoerenza di Charlie. Incoerenza che può anche essere una caratteristica del personaggio, è evidente, ma sullo schermo diventa un po’ spiazzante. 

Quello che sfugge non è solo il comportamento imprevedibile dell’uomo, ma anche il credito che ottiene dal compagno: perché McKenzie non lo manda subito al diavolo? Perché gli permette di impadronirsi della ragazza e, sostanzialmente, di abusare di lei? E’ quasi come ci fosse una forma di rispetto nei suoi confronti, che potrebbe essere dovuto all’amicizia, per esempio, ma sappiamo bene che questo legame tra i due non c’è. In effetti anche la figura di McKenzie suscita qualche perplessità, giustificata però da una lacerazione interiore che comprendiamo essere portata in dote dall’aver sterminato centinaia di bisonti. In ogni caso la trama regge bene, i dialoghi sono efficaci, le battute del vecchio Woodfood (Lloyd Noolan) sono pungenti e divertenti. Due i passaggi davvero degni di nota: uno è un dettaglio, una curiosità, su cui però raramente si è messo l’accento. Quando Charlie prova a montare un pony indiano, vinto ad un duello, si avvicina al lato sinistro dell’animale. Questa era la consuetudine europea, di derivazione militare, visto che nel medioevo sulla gamba mancina era adagiata la spada e, per montare in sella, occorreva perciò alzare la destra. 

Ne consegue che i cavalli dell’uomo bianco avessero in genere questa abitudine. Il pony indiano venne invece montato dai pellerossa prevalentemente dal lato destro e, quindi, quando Charlie ci prova dalla parte sbagliata, la bestia si trova impreparata e reagisce disarcionando l’uomo. Oltre che all’aspetto divertente della trovata in sé, questo passaggio mette ulteriormente in luce l’attenzione di Brooks agli usi e costumi degli indiani d’America.
Ma il passaggio migliore è una sorta di contropiede, per usare un termine calcistico. Tutta la storia raccontata nel film è vista in ottica filo indiana nel senso che, almeno idealmente, l’uomo bianco Brooks riconosce le proprie colpe, nei confronti della Natura (lo sterminio dei bisonti) e degli Indiani, che in quella natura vivevano in armonia. Verso il finale, McKenzie sta parlando con la ragazza pellerossa (Debra Paget) e chiede conferma che il ragazzino sopravvissuto con lei non ne sia il figlio. Il fanciullo è in effetti orfano e la ragazza quindi annuisce ma, nel contempo, osserva come i più piccoli siano figli di tutta la comunità. “Grande verità” ammette McKenzie; “chi te l’ha insegnata?”, chiede sottointendendo una replica che faccia riferimento alla saggezza indiana.
“I vostri missionari” è invece la risposta della giovane. 





Debra Paget